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Il premio Nobel per la letteratura 2015 è andato a un'autrice che i critici letterari non solo italiani avevano finora considerato una cronista o, al più, una saggista.
Questo Nobel è dunque importante perché manda all'aria una 'politica della letteratura' aggrappata alle frontiere arbitrarie in cui la si vorrebbe costringere. Aleksievic, che non ha mai pubblicato fiction, è stata riconosciuta nella sua grandezza di scrittrice proprio perché ha saputo polverizzare i sacri e ottocenteschi confini che vogliono la Letteratura dalla parte dell'invenzione, dell'intreccio, di una presa di distanza dalla realtà e il Saggio troppo incrostato di realtà, troppo riflessivo e non abbastanza immaginifico, per prestarsi alla grande narrazione.
"'Allora letteratura o saggio? I due, mio Generale!' hanno risposto gli eredi di Alfred Nobel, che non per niente ha inventato la dinamite", ha commentato con brio Jean Birnbaum dalle pagine di "Le Monde". "Perché il saggio è precisamente il genere che fa implodere i generi. Voi pensate che il sapere escluda l'emozione? Che la riflessione sia incompatibile con lo stile? Be', il saggio vi smentirà, perché la sua vocazione è di preservare il ruolo della letteratura sulla scena della conoscenza."
Leggendo le opere della bielorussa Aleksievic ci si accorge infatti che la sua scrittura avanza a tentoni, come si fa quando si è avvolti dalle tenebre o da una nebbia molto fitta, saggiando appunto il terreno. Invece di porsi come autore onnisciente, grande manovratore di storie, trame, personaggi, lei si mette in ascolto, assumendo il ruolo tutt'altro che passivo di testimone attenta, modesta e discreta della vita degli altri, di uditrice del racconto che sanno e vogliono farne.
"Penso che per noi giornalisti", mi diceva tempo fa, "la cosa più difficile sia non stancarci di questa nostra professione, non diventare cinici nel praticarla, e mantenere la capacità di sorprenderci dei fatti e delle persone di cui scriviamo. Io mi sono messa a scrivere reportage, quando ho cominciato a chiedermi perché i racconti di guerra di una donna semplice, incontrata per caso su un treno, riuscissero a interessarmi più dei libri di storia. Spesso i libri parlano solo dei grandi avvenimenti, senza attenzione per la vita umana. A me, invece, interessa capire come si possa continuare a essere in pace con se stessi quando si è ucciso un altro essere umano. La risposta non ero riuscita a trovarla in nessun testo. Bene, la donna del treno me la diede. Quando le chiesi qual era la cosa più paurosa della guerra, lei, un'infermiera, rispose: 'Il fatto che, appena finito l'attacco, dovessi passare tra i caduti a controllare se erano solo feriti o morti. Avevo diciotto anni e intorno a me trovavo ragazzi della mia stessa età che erano lì morti, sparsi come patate nel campo. Mi dispiaceva sia per i tedeschi sia per i russi'. La donna aveva visto l'uomo, non il nemico. Mi fu chiaro che, se riuscivo a raccogliere centinaia di voci come la sua, avrei dato vita a un testo che ancora non esisteva nell'archivio dell'umanità."
A spingerla a dedicare anni e anni a ognuna delle sue grandi 'ricerche' sull'epoca che stiamo vivendo o ci siamo appena lasciati alle spalle è di certo un'inesauribile e inalterata capacità di sorprendersi, ma anche la curiosità - è lei a usare questo termine lieve - di sapere quanto ci sia di umano nell'uomo, e come l'uomo possa difendere questa umanità che c'è in lui. Il vero oggetto delle sue monumentali narrazioni polifoniche non è infatti l'evento periodizzante che le determina - guerra, catastrofe ambientale, crollo di un'utopia cui si è dedicata l'esistenza, lutto, perdita, crisi economica e sociale - bensì l'esperienza e la percezione che ne hanno i protagonisti, il loro modo di raccontarle e di raccontarsi e così sopravvivere.
La cronaca, nelle pagine dell'autrice premiata dalla giuria del Nobel, rivela la sua natura profonda di Storia in divenire. E il farsi della Storia non è puro accadere, semplice susseguirsi di eventi, bensì irruzione nella vita degli individui di una cesura che li travalica e li trasforma, imponendo a ciascuna e a ciascuno la necessità di una narrazione che dia conto di quella frattura e un senso al dolore. Aleksievic fa cronaca e al contempo letteratura proprio saggiando i saperi esperienziali maturati da chi nel divenire storico è immerso concretamente, in uno spazio preciso e in tempo ben definito. Le donne e gli uomini reali - giovani, vecchi, di destra, di sinistra, agnostici, atei, credenti, poveri, ricchi, militari, civili, figli, madri, padri, occupati, disoccupati, la lista è infinita - che la scrittrice avvicina e induce al racconto sono, in ogni sua opera, accomunati da un evento che li ha travolti e costretti a reinventarsi.
La sola generalizzazione è questa. Il resto è da indagare.
Come hanno attraversato, le ex donne soldato dell'esercito sovietico, la Seconda guerra mondiale? Come hanno ripreso a vivere da civili? Cosa ha residuato quell'esperienza nella loro coscienza, nel loro corpo, nei loro sentimenti? (La guerra non ha un volto di donna, 1985, di prossima pubblicazione presso Bompiani).
Come si sono ripensati e che linguaggio usano per dire di sé i sopravvissuti di una catastrofe ambientale che ha cancellato di colpo la possibilità di vivere, lasciando tuttavia intatto il paesaggio in cui esseri umani, piante e animali da sempre si riproducono? Come si ridisegna la mappa temporale e spaziale di chi è costretto a diffidare dei sensi che dovrebbero orientare nel mondo? (Preghiera per Cernobyl, edizioni e/o 2002).
Come ha alterato, la guerra combattuta dall'esercito sovietico in Afghanistan tra il 1979 e il 1989, il rapporto dei singoli con lo Stato, la fiducia dei cittadini nei confronti del governo? Fino a che punto l'orrore altera la psiche umana? Che cosa fa sì che un essere umano obbedisca a ordini intollerabili e non si opponga all'evidente e mortifero ripetersi della storia? Che cosa c'è, di irresistibile, nella violenza? (Ragazzi di zinco, edizioni e/o 2003).
Come ha attraversato, l'homo sovieticus, le diverse fasi della storia del suo paese? In cosa ha creduto tanto da sacrificare la propria vita all'edificazione di un modello alternativo a quello capitalistico? Cosa ha alimentato la sua speranza o la sua resistenza? Perché ha continuato a credere nei propri leader politici nonostante la povertà, il gulag, le vessazioni, il disincanto? (Tempo di seconda mano, Bompiani 2014).
Svetlana Aleksievic, non va dimenticato, è cresciuta giornalisticamente all'ombra di Lev Tolstòj e di Fiodor Dostojewski. I suoi poderosi, strazianti 'reportage' sulle grandi tragedie che continuano a consumarsi non solo nell'ex-Impero sovietico, ma nel mondo, sono più imparentati con le pagine di Andrej Platonov o di Vasilij Grossman che con quelle dei cronisti o degli storici del nostro tempo. Come se la sua ricerca, proprio là dove guerre, catastrofi ambientali, fine delle utopie scavano voragini di sofferenza e sedimentano vortici di speranza puntasse su quello che della vita e del dolore sanno le persone comuni.
Il suo intento non è certo quello di dar voce a chi non ce l'ha, come troppo spesso ci e si raccontano giornalisti e scrittori di dubbio valore. Aleksievic è interessata alle persone comuni proprio perché hanno una voce e un modo irripetibile di raccontare la propria storia, che è diversa da quella di chiunque altro. La sua mira sembra piuttosto quella di dare vita a un grande testo collettivo che parli della nostra comune e sofferente umanità. Il suo straordinario strumento di scrittrice è l'orecchio, un orecchio assoluto che le consente di cogliere anche ciò che sta al di là delle parole, annidandosi nei silenzi, nel tono e nel timbro di una voce, nel linguaggio del corpo dei suoi interlocutori, nel loro pianto. Aleksievic sa creare il solo setting che permette all'esperienza di vita delle persone con cui entra in dialogo di farsi racconto e, talora, altissima letteratura. Lei è lì, domanda, ma soprattutto ascolta e fa sentire ascoltati. E i suoi intervistati le rispondono con fiducia, come si fa con chi partecipa al tuo dolore facendoti da specchio, senza mai giudicare.
"Di solito per scrivere un libro", dice la scrittrice, "mi occorrono dai tre ai cinque anni e trecento/quattrocento conversazioni con persone diverse. Non è facile, perché devo trovare persone in grado di pensare e ricordare la propria vita. I più, infatti, vivono a livello di bio-energia. Solo una grande sofferenza porta a pensare al senso della vita. Dopo l'esplosione del reattore nucleare ho girato molto nella zona di Cernobyl. In sei mesi avrei potuto sicuramente scrivere un libro. Ma un libro così lo avrebbero potuto fare in tanti. Sarebbe bastato chiedersi chi erano i responsabili della catastrofe o raccogliere dati e cifre. Per me questo non era sufficiente, perché fin dal primo giorno quella catastrofe mi si è presentata come un mistero, un segreto. Davvero tutto ciò che sappiamo non spiega un evento di questa portata".
Immagino il lavoro che ha condotto, nell'arco di oltre un decennio, alla stesura di quel monumento alla resistenza e al dolore che è Tempo di seconda mano. Centinaia e centinaia di ore di conversazione registrate e poi trascritte parola per parola dalla stessa autrice, perché ogni persona ha una sua storia, ma anche un suo modo di raccontarla, una sua inconfondibile voce. Compito di chi le raccoglie e le trasporta è farlo con cura e con un massimo di rispetto e di fedeltà, perché non si impastino e non si trasformino in puro rumore. Un esempio per tutti, tratto da "Storia di un'infanzia" (Tempo di seconda mano, pp. 323-3), il tentativo inevitabilmente frammentario di ricostruire la memoria di sé da bambina di una cinquantasettenne che la Storia sembra non aver registrato. "Sono nata nella famiglia di un ufficiale polacco deportato in URSS… Non so in che giorno sono nata… e neppure in che anno. Tutto quello che mi riguarda è approssimativo. Non ho trovato nessun documento. Esisto e non esisto. Non ricordo nulla e ricordo tutto… Cerco nel buio… Di rado, molto di rado all'improvviso mi torna alla mente un dettaglio… Dell'inverno non riesco a ricordare quasi niente… D'inverno rimanevo tutto il giorno nel rifugio sottoterra. Il giorno era uguale alla sera. Un eterno crepuscolo. Senza una macchia di colore… Avevamo degli oggetti, a parte le scodelle e i cucchiai?"
Per arrivare a questa temperatura letteraria o giornalistica - che differenza fa come la definiamo? - il numero e la complessità delle operazioni da compiere producono una sorta di smarrimento.
Provo a elencarle: individuare persone "in grado di pensare e ricordare la propria vita"; avvicinarle; interessarle a un progetto che per il momento è solo tuo e non promette alcun ritorno personale o visibilità mediatica; guadagnarsi la loro fiducia in modo che siano disposte a raccontarla proprio a te, senza teatralizzarla, abbellirla, esagerarla; trovare, a raccolta avvenuta, un ordine o una sequenza che permetta alle narrazioni di non elidersi e di non fare massa; comporle come se si trattasse di un testo musicale, a orecchio, puntando su ogni singola voce narrante, sul suo modo di contrapporsi o di entrare in risonanza con tutte le altre; tessere, intrecciare, connettere senza mai intervenire da fuori, senza mai dirigere o manipolare la narrazione; fidarsi di chi ti racconta la propria storia e nello stesso tempo mantenere quella distanza che permette al tuo ascolto di tradursi in scrittura; amare il racconto dei propri interlocutori anche se la loro visione del mondo non ti piace; riconoscere a loro e solo a loro il diritto di dire di sé nel mondo; non fraintenderli, non interpretarli, non tradirli.
E poi, ed è questa forse la dimensione dell'invenzione letteraria di Aleksievic, che più lascia attoniti, la capacità di lasciarsi allagare dalla voce degli altri, di sostenere il peso di tutta la sofferenza di cui ti rendono partecipe, di vivere attraverso di loro e con loro in compagnia della morte. Una solitudine popolata di fantasmi, ardita e durissima, dove il rischio personale diventa un non retorico strumento di lavoro e la paura o l'inautenticità i veri impedimenti alla narrazione. Viene da pensare allo "sfinirsi di sincerità" di Assia Djebar, grande scrittrice algerina mancata qualche mese fa. L'andare così vicini al pericolo da rischiare di non riuscire a tornare indietro vivi. Una vicinanza fredda e calda insieme, fatta di coraggio e partecipazione. Un'esperienza di spaesamento, perdita o uscita da sé, complessa in andata e ancor più problematica al ritorno.
La letteratura del terzo millennio non può più essere un'area di privilegio o di stordimento. Il Nobel a Aleksievic è politico in questo senso, non certo - come alcuni hanno scritto - perché è andato a un'autrice che non ha paura di dichiarare il suo dissenso dal regime di Putin e neppure delle possibili strumentalizzazioni politiche cui ciò la espone.
Articolo pubblicato su LO STRANIERO N. 186/187- dicembre 2015/gennaio 2016
Ringraziamo l'Autrice per averne autorizzato la pubblicazione © RIPRODUZIONE RISERVATA 16 FEBBRAIO 2016 |