Nel febbraio 2015, durante l’annuale assemblea dell’American Association for the Advancement of Science, Vint Cerf – uno degli inventori dei protocolli di Internet e oggi vicepresidente di Google – ha lanciato un preoccupante allarme: “Stiamo superficialmente buttando via tutti i nostri dati in quello che potrebbe diventare un buco nero dell’informazione”.
Secondo Cerf, infatti, l’enorme quantità di materiali digitalizzati, su cui oggi si fondano le nostre società e la nostra cultura, potrebbe andare persa per sempre, perché in futuro non ci saranno più i software e gli hardware adatti alla loro consultazione e riproduzione. Le migliaia di mail che quotidianamente produciamo, i tweet, gli status, le immagini e i video che condividiamo così freneticamente nell’ambito della sfera online rischierebbero di andare persi per sempre nel momento in cui l’evoluzione tecnologica renderà obsoleti i dispositivi con cui noi adesso fruiamo tali contenuti.
Non si tratta di un’ipotesi remota o catastrofista; questo problema si è già, in parte, presentato – ricorda Cerf – con il caso dei floppy disk, i dischi portatili che gli utenti di tutto il mondo hanno utilizzato, tra gli anni ’80 e gli anni ’90 per conservare e scambiarsi file digitali, diventati obsoleti in seguito all’evoluzione delle reti e all’implementazione di nuovi supporti per l’immagazzinamento di dati.
Se Cerf avesse ragione ci troveremmo dinanzi ad un grande paradosso della nostra epoca. La digitalizzazione, infatti, sembrerebbe assicurare proprio la promessa di una conservazione illimitata dei dati e delle informazioni che produciamo in quantità sempre maggiore. Le memorie dei nostri computer possono arrivare a contenere migliaia di file; le librerie dei nostri dispositivi preposti alla lettura di testi o all’ascolto di musica permettono di conservare (ma anche di trasportare e avere sempre a portata di mano) una quantità di dati e documenti prima inimmaginabile. E quando il dispositivo fisico non basta più ci pensano i cosiddetti “cloud storage” ovvero i software online che consentono di conservare e condividere nella rete i nostri contenuti digitali, dai documenti di testo ai file audiovisivi.
La digitalizzazione insomma sembrerebbe rimediare a quelle limitazioni fisiche o spaziali che hanno caratterizzato i processi di archiviazione nella lunga era analogica, producendo in questo modo dei cambiamenti epocali nelle modalità di accumulo e conservazione dei materiali auodiovisivi e testuali e nelle prassi ad esse collegati.
Tuttavia, l’allarme di Cerf porta l’attenzione su un altro aspetto legato all’archiviazione digitale, ovvero sul processo di obsolescenza che colpisce i dispositivi e i protocolli tecnologici. Forse, allora, potrebbe essere utile seguire il consiglio dell’evangelista di Google: se ci tenete a che un’immagine duri negli anni farete bene a stamparla.
Il diritto all’oblio
In un testo dal titolo Delate. Il diritto all’oblio nell’era digitale, il teorico dei media Viktor Mayer-Schoenberger riporta un paradigmatico caso di cronaca. Una giovane donna statunitense, Stacy Snyder, dopo aver completato con successo il percorso formativo previsto per l’insegnamento, si vide rifiutata la propria domanda di abilitazione. Il personale amministrativo dell’università, infatti, aveva consultato la rete per trovare notizie sul suo conto e il motore di ricerca aveva restituito come risultato una foto della donna con un cappello da pirata mentre beveva presumibilmente degli alcolici.
La foto, infatti, era accompagnata da una didascalia “pirata ubriaco” ed era stata caricata da Stacy sul proprio profilo MySpace, con l’unico scopo di intrattenere una conversazione divertente con i propri amici online. Il tenore presuntivamente trasgressivo della foto, che naturalmente era facilmente reperibile dagli studenti, non si addiceva ad un insegnante e per questo motivo a Stacy venne negata l’opportunità di proseguire nella carriera professionale scelta da tempo. A poco è bastato il tentativo della ragazza di rimuovere l’immagine che era stata ormai indicizzata dai motori di ricerca, cioè era rimasta nell’archivio di Google e non poteva essere più eliminata.
Al di là delle questioni legali e culturali legate specificamente a questo episodio, il caso di Stacy risulta paradigmatico sotto diversi punti di vista. Certamente esso può essere occasione di una riflessione sul carattere pubblico delle nostre azioni online: la condivisione di una foto, che in un tradizionale contesto offline è solitamente riservato ad un numero limitato e selezionato di persone, diventa a tutti gli effetti un atto pubblico quando ci troviamo nell’ambito della sfera digitale online. Tuttavia, ciò che maggiormente ci interessa per il nostro argomento è la vorace capacità di immagazzinamento dei dati da parte dei sistemi della rete e conseguentemente l’emergere di una situazione paradossale: l’impossibilità ad essere dimenticati.
La rete, intesa come il sistema di indicizzazione che regola i motori di ricerca attraverso cui noi oggi abbiamo principalmente accesso alla realtà online, si presenta a tutti gli effetti come qualcosa che afferra ed intrappola qualunque dato noi produciamo, rendendo impossibile quel naturale processo di selezione e dimenticanza che costitutivamente fa parte di ogni procedimento di archiviazione. Quella che allora può apparire come una mera predisposizione tecnica, cioè l’automatizzazione e ottimizzazione dei processi di immagazzinamento e conservazione dei dati, ha delle pesanti ricadute sul piano economico e politico (pensiamo all’uso biopolitico o commerciale che viene fatto di questi dati), ma ancor più radicalmente su quello dell’etica e della giurisprudenza.
Per regolamentare le situazioni analoghe a quelle di Stacy e per rispondere ad una sempre crescente esigenza di tutela degli utenti, la Corte di Giustizia Europea ha sancito il diritto all’oblio (The Right To Be Forgotten), stabilendo che i cittadini europei hanno il diritto di fare richiesta ai motori di ricerca come Google per l’eliminazione di informazioni, vecchie, non corrette o ambigue, che possano ledere la propria persona. Tale principio, però, entra in conflitto con l’altrettanto fondamentale diritto alla libera informazione e alla libera espressione che proprio la rete sembra aver valorizzato come mai prima era accaduto nella storia delle tecnologie della comunicazione. Se essere dimenticati è un diritto inalienabile, appare evidente che le strategie giuridiche debbano oggi fare i conti con un sistema aperto e fluido che impone il ripensamento di categorie fondamentali come quello di archiviazione e accessibilità.
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