Dare alla valorizzazione fondiario-immobiliare un migliore e più stabile orizzonte di efficacia economico-sociale ed urbanistico-insediativa - che non poteva essere garantito dalla sola iniziativa privata - fu l'obiettivo della legge urbanistica approvata nell'agosto del 1942, dopo oltre un trentennio di dibattiti inconcludenti e di tentate elaborazioni legislative naufragate in itinere.
L'approvazione della legge fu probabilmente facilitata dall'attenuarsi delle resistenze del blocco sociale fondiario-immobiliare a qualunque limitazione della libertà d'iniziativa proprietaria, in un frangente in cui le vicende belliche ormai in corso facevano apparire le prospettive di investimento nel settore immobiliare un'eventualità remota ed incerta.
Nella legge si affermò così la concezione che la conformazione dell'assetto fondiario agli usi urbanizzativi dovesse passare attraverso l'approvazione da parte dei Comuni di piani redatti dalla nascente figura dei progettisti urbani, propugnata dal Segretario del Sindacato Nazionale Fascista degli Architetti e fondatore dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, Alberto Calza Bini (1).
È noto che la legge non ebbe alcuna applicazione pratica durante il periodo bellico (2), ma neppure in quello immediatamente post-bellico, quando finì per apparire lo sbiadito retaggio di un assetto politico e istituzionale ormai tramontato e comunque - anche per i meccanismi partecipativi insiti nelle sue procedure (adozione-pubblicazione-osservazioni-controdeduzioni-approvazione) - dai tempi incompatibili con le necessità di una veloce ricostruzione.
Così i Comuni si adeguarono rapidamente a perseguire una prassi ben più antica e radicata: quella delle convenzioni dirette con i privati proprietari (atti di natura privatistico-contrattuale) sulla base di loro proposte urbanizzative. Questo in assenza di qualunque visione pianificatoria che ponesse limiti e indirizzi ai criteri localizzativi e alle definizioni quantitative, insediative e progettuali di edifici e spazi pubblici.
Non solo: i Comuni che occasionalmente si trovavano ad essere dotati di un Piano Regolatore in base alla legge del 1865 (per lo più quelli di maggior rilevanza demografico-territoriale) si industriarono per trovare espedienti procedurali tali da poter stipulare convenzioni in precario che riuscissero a derogare dalle sue prescrizioni (3).
L'esito di tutto ciò - sotto la spinta dell'impetuoso sviluppo economico-immobiliare degli anni successivi - fu inevitabilmente caotico e, in questo quadro, riprese corpo un dibattito disciplinare, culturale e politico sulla necessità di rimettere in campo competenze, strumenti e ruoli istituzionali in grado di indirizzare l'iniziativa privata verso un obiettivo di assetto insediativo di interesse generale e condiviso.
È in questo orizzonte - quello della fase più attiva del centro-sinistra originario che va dal 1962-63 (con il DdL Sullo) al 1967-68 (con l'approvazione della Legge Ponte e i relativi decreti attuativi) e successivamente, anche se in forma meno coesa, con la Legge Bucalossi del 1977 - che va esaminato il quadro complessivo di quelle proposte che, con diversa fortuna negli esiti e coerenza nelle strumentazioni e procedure hanno costruito un "senso comune" della necessità del progetto pubblico dell'assetto insediativo che costituisce il nucleo fondante dell'urbanistica moderna in Italia.
Il DdL presentato nel 1963 dal ministro dei LL.PP. Fiorentino Sullo proponeva di assumere come procedura generalizzata quella prescritta dalla Legge urbanistica del 1942 (4) per l'attuazione dei Piani Particolareggiati di Esecuzione nel caso in cui le proprietà rimanessero inerti di fronte alla proposta di conformazione urbanizzativa degli stessi PPE approvati dai Comuni e questi ultimi dovessero, quindi, intervenire espropriando l'area in oggetto, formando i comparti edificatori, individuando reti infrastrutturali ed aree pubbliche e procedendo poi alla riassegnazione dei nuovi comparti dando la priorità alle proprietà originarie. Questo, però, gravandoli dei costi di formazione dell'assetto urbanizzativo progettato (aree pubbliche, infrastrutture, piano, ecc.), salvo poter estendere a chiunque la riassegnazione degli stessi comparti tramite gara pubblica se le proprietà originarie fossero state renitenti alla loro riassegnazione.
Il meccanismo procedurale era sostanzialmente identico a quello che in quel periodo si stava applicando in virtù dell'approvazione nel 1962 della Legge n. 167 per la formazione dei Piani di Zona (PdZ) dell'Edilizia Economica e Popolare (EEP). Questi - con le successive modificazioni introdotte a partire dal Piano Casa del 1971 - si differenziavano dai Piani Particolareggiati solo per i tempi di pubblicazione (dimezzati a 15 giorni, anziché 30), quelli di attuazione (progressivamente dilatati a 18 anni, anziché 10) e per il fatto che i destinatari finali delle aree nei comparti edificatori erano tendenzialmente diversi dai proprietari fondiari originari, essendo altamente improbabile che questi ultimi avessero le caratteristiche di indigenza di reddito prescritte per gli assegnatari di Edilizia Economica e Popolare (5).
Occorre, tuttavia, rilevare che l'attuazione largamente diffusa dei Piani di Zona da parte dei Comuni obbligati ad adottarli - quelli con oltre 50.000 abitanti o capoluogo di provincia o ad essi contermini o connotati da forte tensione abitativa - e degli altri Comuni che ne ravvisavano la necessità a fronte delle dinamiche socio-demografiche causate dallo sviluppo industriale della ricostruzione economica, dimostra per un verso che il meccanismo procedurale dei Piani Particolareggiati di Esecuzione della Legge n. 1150 del 1942 non era affatto intrinsecamente inattuabile - come si è soliti ritenere - purché il Comune fosse adeguatamente motivato da obiettivi socialmente forti e mobilitanti (che non la sola appropriatezza del disegno insediativo) e fosse assistito finanziariamente dallo Stato. Per altro verso, evidenzia l'incapacità dei Comuni di localizzare i Piani di Zona nelle aree già individuate come edificabili nei Piani Regolatori Generali, per le quali non sarebbe stato facilmente possibile comprimere l'aspettativa di rendita fondiaria consolidatasi ai prezzi di mercato senza scatenare la ribellione delle classi proprietarie. I Piani di Zona vennero, infatti, quasi tutti localizzati su aree per lo più agricole e periferiche - cosa che la Legge n. 167 del 1962 consentiva solo come caso eccezionale -, rese edificabili con apposite varianti motivate dalle aspettative sociali di soddisfacimento del fabbisogno abitativo delle classi disagiate. I proprietari di quelle aree, proprio per il fatto di non poter beneficiare degli incrementi di valore determinati dal Piano Regolatore Generale, sopportarono così con più rassegnazione, almeno in una prima fase, gli espropri rapportati ai valori agricoli originari (6).
Nella condizione di irruente sviluppo demografico ed economico degli anni Sessanta, però, l'aspettativa di rendita fondiaria dei ceti proprietari delle aree ritenute potenzialmente edificabili fu così alta da indurre le forze politiche conservatrici che tutelavano questi interessi a ritenere intollerabile ogni intromissione dell'iniziativa pubblica nei processi urbanizzativi che determinavano la valorizzazione immobiliare. Questo sino al punto di tollerare gli striscianti tentativi golpisti alimentati dal timore ingenerato dallo sviante e volutamente perseguito equivoco tra esproprio di aree inedificate ed esproprio della casa di abitazione.
Una situazione che appariva ancor più grave perché nel DdL Sullo la scelta di generalizzare la procedura espropriativa iniziale da parte del Comune per riassegnare agli attuatori immobiliari i comparti edificatori in condizione di pre-urbanizzazione e gravati dei costi urbanizzativi conseguenti, poneva in primo piano quello che la Legge del 1942 (nelle procedure di attuazione "spontanea" del Piano Particolareggiato di Esecuzione da parte del consorzio delle proprietà) lasciava sullo sfondo con modalità non ben definite nei tempi e nei modi: la cessione gratuita delle aree pubbliche.
Il sommarsi del rischio di contenimento dei valori della rendita fondiaria per i proprietari originari nella fase dell'esproprio iniziale e dell'obbligo di assunzione dei costi per aree ed attrezzature pubbliche da parte degli attuatori immobiliari nella riassegnazione finale della procedura disegnata dal DdL Sullo formerà una miscela micidiale che porterà la Democrazia Cristiana a prendere le distanze dal proprio ministro e ne affosserà sul nascere il progetto di legge.
Qualcosa di analogo accadrà di nuovo con l'approvazione della cosiddetta Legge Ponte n. 765 del 1967. Questa prevedeva che le convenzioni urbanistiche annesse ai Piani di Lottizzazione presentati dai privati in attuazione del Piano Regolatore Generale dovessero contenere l'impegno alla cessione gratuita delle aree pubbliche, cosa che suscitò accese contestazioni e ricorsi giurisdizionali. Ma la Legge Ponte del 1967 era stata approvata a valle della rovinosa frana di Agrigento del 1966 - che riguardò un intero quartiere di 200.000 metri cubi, malamente accatastato sul fianco di una collina - che palesò chiaramente le terribili conseguenze della mancata pianificazione nello sviluppo urbano del dopoguerra e promosse un atteggiamento della pubblica opinione assai meno favorevole alle rivendicazioni del blocco fondiario-immobiliare, tanto da tacitare anche le resistenze delle forze politiche meno progressiste.
La Legge Ponte del 1967, pur rinunciando alla conformazione pubblica dei piani attuativi da parte dei Comuni, li obbligava a subordinare le trattative coi privati almeno alla redazione di un piano insediativo generale (PRG) e a porre a carico degli attuatori immobiliari nelle convenzioni attuative dei Piani di Lottizzazione (PdL) una parte inizialmente consistente dei costi urbanizzativi, progressivamente erosa dall'accondiscendente inerzia di gran parte delle amministrazioni comunali ad adeguarne gli oneri alla dinamica inflazionistica.
Più tardi, la Legge Bucalossi del 1977 impedirà sino al 2004 di finanziare le spese correnti dei Comuni coi proventi edificatori (7), contenendo così anche la spinta alla svendita del territorio allo scopo di destinare gli oneri urbanizzativi a esigenze finanziarie contingenti (8).
Dal 1977 in poi, invece - nei primi decenni in maniera più sporadica e dal 1992 sempre più sistematicamente -, la legislazione urbanistica è andata sfrangiandosi in una serie di provvedimenti contingenti e disorganici (Accordi di Programma, Patti Territoriali, Contratti di Quartiere, Programmi Integrati di Intervento, Piani evento: Colombiadi, Mondiali di calcio, Giubileo, ecc.) dove, in nome della rapidità attuativa e delle pressanti necessità economiche, si è consentito agli enti pubblici preposti alla pianificazione il sempre più pervasivo ricorso a interventi proposti direttamente dagli operatori privati, in deroga a qualunque obiettivo generale pubblicamente condiviso. Un fenomeno già evidente dal dopoguerra sino al 1967 che negli ultimi decenni è stato incentivato, nei paesi ad economia matura, dai meccanismi finanziari-immobiliari connessi alle dismissioni produttive indotte dalla globalizzazione economica.
Anche il più recente Decreto del Fare, convertito in legge sotto l'egida delle larghe intese, è andato in questa direzione. Nonostante non abbia abrogato i contenuti del DM n. 1444/68, ha infatti preso a pretesto la crisi economico-produttiva per dare un ulteriore colpo al quadro delle minimali conquiste strappate a fatica (e non senza residue contraddizioni) tra il 1967 e il 1977 - dotazioni minime di 18 mq/abitante di spazi pubblici nei Piani Regolatori Generali e Piani Particolareggiati di Esecuzione, distanza tra gli edifici pari all'altezza di quello più alto con un minimo di 10 metri tra pareti finestrate, densità fondiaria massima di 7 mc/mq se si interviene senza piano urbanistico attuativo o senza realizzarne tutte le aree pubbliche prescritte - consentendo alle regioni di introdurre norme in deroga a quantità definite per legge minime e inderogabili!
In sostanza, l'urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, negli ultimi decenni sembra aver perso molto del suo credito nell'immaginario sociale. Il suo posto pare essere stato preso dall'ambientalismo ecologista o dal liberismo delle regole insediative finalizzate ad incentivare l'attività economica imprenditoriale o familiare.
Il rischio è che quell'accresciuta sensibilità ambientale si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto di territorio e città pubblicamente individuato e condiviso, alimentando invece una sostanziale sfiducia negli esiti di una pianificazione pubblica di lungo periodo. Soprattutto per quelle forme di pianificazione prodotte dall'applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici faticosamente conquistate fra il 1967-68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli).
Ma accettare la progressiva demolizione di leggi cardine dell'urbanistica del dopoguerra a fronte della promessa di edifici "intelligenti", "verdi", energeticamente "autosufficienti" e "riciclabili" - insomma, l'ideologia delle "smart cities" -, rappresenterebbe la resa al "pensiero unico" del privatismo cui sarebbe colpevole rassegnarsi.
Gli esempi concreti di questo progressivo adattamento delle attività di indirizzo pubblico dei Comuni agli interessi della proprietà fondiario-immobiliare non mancano. A Milano, per citarne uno, la società Coima (ex Hines/Catella, attuatrice del progetto Porta Nuova sulle aree dell'inattuato Centro direzionale previsto dal Piano del 1953) ha recentemente acquisito l'edificio all'angolo tra via Melchiorre Gioia e via Pirelli già sede dell'Inps e ne prevede la demolizione e ricostruzione su progetto di Cesar Pelli.
Il prezzo di 2.500 €/mq pagato all'Inps per l'acquisto dell'edificio è superiore persino ai 2.000 €/mq pagati da Citylife a Fondazione Fiera per il riuso del vecchio recinto fieristico, sul quale sono stati previsti indici edificatori spropositati concretizzatisi poi negli alti edifici residenziali molto ravvicinati tra loro e nelle tre torri di 200 metri di altezza in corso di costruzione.
L'importo pagato per l'acquisto dell'immobile suscita, dunque, non pochi interrogativi sulle dimensioni del nuovo edificio che andrà a sostituire quello esistente. A ciò si aggiunga l'intenzione del Comune di Milano - emersa da una recente dichiarazione dell'assessore all'urbanistica Balducci - di cedere a Coima anche i "diritti edificatori" dell'attigua area a parcheggio pubblico di proprietà comunale per destinarne i proventi a investimenti in periferia.
Questa "nobilitazione" della destinazione sociale dei proventi, però, non ne cambia la natura di compartecipazione speculativa. Ci sarebbero modi più semplici e diretti per rilanciare l'edilizia popolare: ad esempio, portando al 40% (minimo ex legge 865/71, tuttora vigente) la quota di edilizia popolare nelle grandi trasformazioni urbane di cui si sta discutendo a Milano (ex scali FS, ex caserme, ecc.).
Tra l'altro il Comune non potrebbe creare diritti edificatori da un'area a destinazione pubblica. Non solo: con la Legge 765/67 e il DM 1444/68 i volumi edificatori non esistono più "a sé", ma solo "in coppia" con la realizzazione di una determinata quantità di spazi pubblici (9). Non si possono cioè consentire quantità edificatorie senza contestuale formazione di spazi e servizi pubblici corrispondenti al peso insediativo oggetto della previsione progettuale. In altri termini: se "il cuoco" (cioè il Comune) impone (ai sensi di legge!) che per fare un bollito buono servono sia la polpa (spazi edificatori) sia l'osso (spazi pubblici), chi possiede solo polpa è nei guai e chi possiede solo l'osso non è fuori dalla compartecipazione agli utili economici e alla conduzione progettuale dell'operazione urbanistica.
Dunque, sarebbe stato probabilmente più corretto porre l'attenzione sul fatto che per demolire e ricostruire l'edificio ex Inps, la società Coima dovrebbe realizzare in situ 18÷26,5 mq/abitante di spazi pubblici. A 0,65 mq/mq - indice congruente a 26,5 mq/abitante - su 35.000 mq di area, dovrebbe cioè realizzare circa 20.000 mq di area pubblica (10). Se questa superficie non fosse disponibile, per l'acquisto del parcheggio dal Comune la stessa società dovrebbe, a nostro avviso, corrispondere alla pubblica amministrazione almeno un importo pari a 2.500 €/mq, lo stesso versato per l'area edificabile.
Per concludere: dobbiamo attendere una nuova frana di Agrigento (questa volta non edilizia ma magari ecologico-ambientale-economica) per renderci conto che la strada che abbiamo imboccato porterà prima o poi a nuovi disastri?
Sergio Brenna
(1) Le occasioni di affermazione culturale di questa nuova figura tecnico-professionale verranno implementate dai Comuni attraverso l'affidamento di incarichi per la redazione di piani regolatori generali e particolareggiati.
(2) Il Ministero dei LL. PP., pur nei drammatici frangenti intercorsi tra il settembre del 1942 e il marzo del 1943, provvederà comunque a elaborarne il Regolamento di attuazione. Questo però finirà in un polveroso scantinato dove, a metà degli anni Novanta, verrà ritrovato da un sagace ricercatore. Cfr. P.G. Massaretti, 1 marzo 1943: l'ultima ipotesi di articolato del "Regolamento di attuazione" della legge urbanistica, in "Urbanistica. Quaderni", a cura di L. Falco, a. I, n. 6, pp. 94-104, INU, Roma 1995
(3) Il più noto è il caso del cosiddetto rito ambrosiano praticato in quel periodo dal Comune di Milano.
(4) È da notare lo spirito prettamente "corporativo" in senso letterale (cioè di rinvio al sussidio dell'interesse collettivo da parte della corporazione tecnico-disciplinare) che permea la legge del 1942. Questa si limita infatti a definire i percorsi procedurali mentre i contenuti disciplinari sono demandati al sapere tecnico. Un compito rispetto al quale la corporazione degli urbanisti (architetti o ingegneri) si dimostrerà ampiamente inadeguata tanto da rendere necessario imporre ex lege limiti edificatori e dotazioni pubbliche minime nei decreti attuativi del 1968, in base al disposto della Legge Ponte del 1967.
(5) L'estensione dei Piani di Zona doveva essere tale da coprire dal 40% al 70% del fabbisogno abitativo stimato in un decennio.
(6) Il valore di indennità fissato dalla L. 865/71 era tra quello agricolo e 10 volte tanto a seconda che le aree fossero o meno all'interno del perimetro già urbanizzato e del grado di urbanizzazione pregressa raggiunta. Successive sentenze della Corte Costituzionale, a seguito di ricorsi giurisdizionali degli espropriati, indussero il legislatore a riportare i valori dell'indennità prima a un criterio simile a quello della Legge di Napoli del 1885 (media tra valore venale e 10 volte il valore catastale) e infine al valore venale, come già previsto dalla L. n. 2349/1865 sugli espropri per pubblica utilità. In realtà, la sentenza della Corte Costituzionale n. 384/2007 obbliga all'indennizzo del valore venale per espropri di pubblica utilità generica (strade, scuole, edifici pubblici, ecc.) mentre lascia aperte possibilità di valori ridotti per scopi di utilità sociale, cioè i PdZ dell'EEP e, forse, i Piani per gli Interventi Produttivi (PIP), le cui previsioni però nel frattempo si sono andate esaurendo e raramente vengono aggiornate nonostante permanga l'obbligo di coprire quote del 40-70% del fabbisogno decennale.
(7) L'obbligo di allocare gli oneri urbanizzativi in un conto vincolato alla realizzazione di opere urbanizzative fu eliminato dall'azione congiunta prima del Ministro della Funzione Pubblica Bassanini (secondo Governo Amato, di centro-sinistra) che non trasferì il disposto dell'art. 12 della Legge Bucalossi del 1977 nel Testo Unico dell'Edilizia del 2001 e poi dal Ministro delle Finanze Tremonti (Governo Berlusconi, di centro-destra) che nel 2004, interpellato al riguardo dall'Associazione delle Tesorerie comunali, avallò il fatto che il mancato trasferimento della norma costituisse sua abrogazione. Da allora in poi per i Comuni si aprì il pozzo senza fondo delle nuove urbanizzazioni come risorsa finanziaria corrente.
(8) È pur vero, tuttavia, che i Piani di Lottizzazione di iniziativa privata, ancorché conformi ai Piani Regolatori Generali per quantità edificatorie e dotazioni di spazi pubblici, tesero sempre più a conformarsi sull'assetto fondiario originario, lasciando il disegno urbano conseguente come esito residuale incontrollato.
(9) Minimo 18 mq/abitante, ex DM 1444/68, ma con molte Regioni - quali Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia, Lazio, ecc. - che seguendo l'esempio lombardo della Legge Regionale n. 51/75 - 26,5 mq/abitante - l'hanno aumentato a 24÷28 mq/abitante. Non si capisce (o forse sì) perché la Lombardia di Formigoni/Maroni - considerata la locomotiva d'Italia - con la Legge Regionale 12/2005 da sola sia tornata ai 18 mq del 1968!
(10) Questo, oltre ai 17,5 mq/abitante di verde e servizi territoriali che, tuttavia, sarebbe più utile venissero "monetizzati" sempre a 2,500 €/mq, per contribuire a remunerarne la realizzazione altrove: Goccia, Parco Sud, Arexpo, ecc.
NdC - Sergio Brenna è professore ordinario di Urbanistica del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Il ritorno al futuro della cité industrielle. Dopo Ford torniamo a Garnier (Euresis, Milano 2000); Fabbriche di futuro. Innovazione tecnologica, innovazione sociale, innovazione tipologico-insediativa (Euresis, Milano 2001); De Finetti 1946-1952. L'urbanistica dilatata di un pubblico amministratore schumpeteriano (Euresis, Milano 2003); La città: architettura e politica. Fondamenti teorico-pratici di urbanistica ad uso dei progettisti e pubblici amministratori (Hoepli, Milano 2004); Milano, dall'esterno e da lungi (Gangemi, Roma 2006); La strana disfatta dell'urbanistica pubblica. Breve ma veridica storia dell'inarrestabile ma controversa fortuna del privatismo nell'uso di città e territorio (Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2009); La strada lombarda. Progetti per una Milano città madre della propria cultura insediativa (Gangemi, Roma 2010). I grassetti nel testo sono nostri.
RR
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