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All’approssimarsi dell’appuntamento referendario si intensifica il dibattito sui giornali, in TV e su internet. L’argomentare però ruota attorno a poche questioni: buona parte mi paiono sollevate ad arte per spaventare il possibile votante, paralizzandolo a casa e quindi mandando a pallino l’istituto democratico del referendum.
Purtroppo nella narrazione prevale la paura. Vuoi quella dell'incubo sotteso di non poter più prendere l’auto perché si chiudono anzitempo i rubinetti di una ventina di piattaforme. Vuoi quello dei posti di lavoro che qui vengono artatamente utilizzati, ma altrove dimenticati (quanti posti di lavoro si bruciano in agricoltura quando si costruiscono inutili strade e autostrade? Quanto lavoro di qualità si potrebbe generare recuperando il nostro patrimonio artistico? Quanto lavoro in più nel settore delle rinnovabili?).
Il rischio di incidente petrolifero è pregiudizialmente non considerato perché, si dice, senza provarlo, che non può accadere e che comunque le navi cariche di greggio in arrivo nei porti sono ben più pericolose (beh, ma allora perché non provvedete comunque visto che ne arrivano a migliaia già oggi?). E via di questo passo lavorando solo su alcuni selezionati argomenti.
Ma c’è qualcosa che ascolto poco nel dibattito e che vorrei invece ribadire perché mi sembra quasi più importante e per cui vorrei che tutti addirittura corressero a votare. Quella del 17 aprile è una piccola ma significativa prova generale per far crescere il nostro pensiero ambientale e per far crescere la nostra coscienza collettiva su questo tema. Dire "Sì" significa togliere un po’ di bavaglio al pensiero ecologico dandogli più voce e forza, strappandolo dall’angolino in cui sistematicamente viene ficcato, deridendolo anziché capire che va trattato con la dignità che merita e considerato come una fonte di spunti e percorsi anticrisi capace di rigenerare la politica italiana. E la politica farebbe bene a interrogarsi profondamente sulla questione.
Il pensiero ambientale non è solo riducibile al rimedio tecnologico, ma è proprio un pilastro di quello che dovrebbe essere il pensiero politico di oggi (del post-modernismo) basato sul rapporto tra uomo e natura, facendo di questo rapporto il riferimento culturale prioritario per la società. Dire "Sì", significa sostanzialmente dare uno strattone al conducente per fargli cambiare direzione generale. Significa dirgli che siamo stufi dell’economia del petrolio, di tutti i suoi derivati e soprattutto dell'ideologia a cui continua ad abituarci. Significa che non vogliamo che in questo Paese ci siano investimenti tanto in rinnovabili quanto in petrolio, ma solo nelle prime e, dico di più, che vi sia investimento serio e robusto ad esempio nella cultura del risparmio energetico e non solo nel risparmio energetico. La differenza non è banale. Significa che non basta dire agli italiani di cambiare lampadine, ma occorre un progetto culturale che gli fornisca quegli strumenti di senso che modificano il loro stile di vita e le loro scelte pratiche e politiche, rendendoli felicemente convinti di ciò. Significa chiedere ai governi di oggi e domani di essere molto più determinati a sostenere l’interesse ambientale in generale, il quale, lo sappiamo, non coincide affatto con quello dell’economia del profitto TSPT (Tanto, Subito, per Pochi ma a spese di Tutti). Significa smettere di precarizzare sistematicamente l’opzione ambiente.
E scegliere di andare da tutt'altra parte rispetto a quella che sembra l'unica via ma che unica non è affatto, si può. Ce lo racconta Johan Rockstrom, il guru della resilienza, nel suo recente libro Grande mondo, piccolo pianeta (Edizioni Ambiente, 2015).
Davanti alle decisioni su come ridurre le emissioni di CO2 la Svezia decise, dopo consultazioni interne e con i propri scienziati, che il prezzo della Carbon Tax sarebbe stato pari a 100 euro per tonnellata, la più alta in Europa. Si trattava di un prezzo politico ben al di sopra di quello stabilito dalle Borse (stiamo parlando di 4-6 euro per tonnellata). Ci immaginiamo una confindustria svedese saltare su tutte le furie minacciando licenziamenti e delocalizzazioni. Sappiamo che la politica non mollò. E oggi, non solo l’economia nazionale svedese non ne ha risentito, ma per non cadere sotto i colpi di quella decisione politica, l’industria si è fatta letteralmente smart riuscendo a inquinare molto meno, a usare meno energia senza ridurre le produzioni ovvero si è stimolata l'innovazione verde.
Qualcuno dirà, come sempre in queste occasioni: “Lassù hanno un’altra cultura”. È vero. Ma è vero anche che la cultura non nasce dal caso (anche, a volte) ma dalle buone intenzioni e dall’ostinazione di andare in una certa direzione (nel bene o nel male, ahimè). Noi verso quale direzione vogliamo puntare? Cosa aspettiamo a cambiare mentalità? Se siamo indietro, culturalmente parlando, dobbiamo affrettarci e non sbagliare mosse.
Lo ripeto. Quella del 17 aprile è, di nuovo, una sfida il cui sapore è e deve essere culturale. E invece si sta di nuovo scendendo di livello giocando ai saldi quando invece dovremmo cogliere l'occasione per concederci l'onestà di mettere in dubbio certe pseudo-verità. Il tempo che precede quella data potrebbe essere usato per far capire, per insegnare, per dibattere, per alimentare l’avvio della transizione ecologica che stenta a venire, per ridare vigore a un pensiero ecologico che langue ed è continuamente ferito a morte. Ed è anche un’occasione per la politica: potrebbe "sfruttare" l’occasione per costruirsi una maggior distanza tra sé e gli interessi economici che la comprimono e culturalmente la corrompono, riguadagnando così gradi di libertà decisionali importantissimi da usare per governare meglio domani.
Di questo abbiamo sicuramente bisogno, come pure abbiamo bisogno che la nostra transizione ecologica abbia una data da cui iniziare.
Pubblicato su ALTRAECONOMIA Ringraziamo l'Autore per averci concesso la pubblicazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA 16 APRILE 2016 |