Salvatore Veca  
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SULLA DISUGUAGLIANZA


Equità sociale per uno sviluppo economico per tutti, non per pochi



Salvatore Veca


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1.   Nella discussione pubblica degli ultimi anni la questione della disuguaglianza economica e sociale, entro le società e fra le società, ha assunto un rilievo crescente. E in un mondo attraversato, al tempo stesso, da processi di interdipendenza e da linee di conflitto che rendono porosi i confini, il rilievo crescente della questione ha assunto inevitabilmente un carattere globale. Se si considera il semplice fatto che le disuguaglianze di reddito e ricchezza sono state insieme una delle cause e uno degli effetti della grande crisi sistemica in cui siamo stati intrappolati almeno negli ultimi otto anni, è naturale che la teoria economica abbia rimesso al centro dell'analisi e delle prognosi il tema della distribuzione di reddito e ricchezza e degli effetti che le crescenti disuguaglianze hanno sia sul piano della crescita economica sia sul piano delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali.

   Basta pensare, in proposito, ai contributi di Paul Krugman, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz o Anthony Atkinson. Si tratta di esiti di ricerche che in vario modo si basano sul rifiuto del dogma centrale della teoria mainstream, coincidente con il principio di autoregolazione dei mercati come criterio sia positivo sia normativo per l'analisi del funzionamento dei sistemi e per le raccomandazioni di politiche economiche. Ciò che emerge dalle ricerche economiche eterodosse sulla dinamica delle disuguaglianze è spesso una domanda che riguarda le ragioni per cui dovremmo impegnarci nella loro riduzione.

   Nella prefazione all'edizione italiana di Inequality di Atkinson, Chiara Saraceno richiama un passo eloquente del sociologo Goran Therborn che all'inizio del suo The Killing Fields of Inequality asserisce: "La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in se stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale"(1).

   Quello di Therborn è una sorta di catalogo degli effetti che un'ampia classe di disuguaglianze genera entro la struttura sociale. Si tratta di effetti che coinvolgono la qualità di vita di persone e che riguardano congiuntamente i loro modi di vivere le proprie vite e i loro modi di convivere con altre persone, entro una qualche società. In questa prospettiva, di nuovo, la teoria sociale mira a individuare le ragioni a favore della riduzione delle disuguaglianze.

   Una classe di ragioni distinte, anche se non indipendenti, che militano a favore del contrasto alle disuguaglianze crescenti, emerge dagli studi di scienza politica e, in particolare, da quelle ricerche che hanno come tema le trasformazioni e i mutamenti delle democrazie contemporanee. Sullo sfondo delle analisi delle post-democrazie alla Colin Crouch e della democrazia sfigurata di Nadia Urbinati, del paesaggio sociale in tensione con la forma di governo democratico di Pierre Rosanvallon, della democrazia del pubblico di Bernard Manin, viene messo a fuoco - inter alia - l'insieme di effetti che la disuguaglianza esercita sul classico rapporto fra potere economico e potere politico. E qui sono in gioco, ancora una volta, ragioni a favore della riduzione della disuguaglianza.

 

2.  Del resto, in un pamphlet di qualche tempo fa, dedicato a una riflessione filosofica su aspetti della grande crisi che mirava a smontare il dogma del "non c'è alternativa", mi ero impegnato a redigere un catalogo impressionistico degli effetti plurali delle disuguaglianze(2). A proposito degli effetti politici, osservavo che noi abbiamo ragioni fondamentali contro lo spettro che ritorna e si aggira, entro le nostre democrazie costituzionali, dell'ancien régime di una società castale e cetuale. Una società dominata dal privilegio di qualcuno e non dall'interesse di chiunque, caratterizzata dalla crescente forbice delle disuguaglianze economiche e sociali e dal blocco della mobilità sociale, che erodono e rendono ipocrita la solenne promessa costituzionale della pari dignità delle persone, in quanto cittadine e cittadini, in quanto partner di eguale dignità della polis.

   Per questo, richiamavo l'attenzione sulle politiche dell'uguale rispetto, dipendenti dal riconoscimento dell'uguale importanza delle vite delle persone, come sostiene Amartya Sen, politiche che devono rispondere tanto ai funzionamenti delle persone, ai loro deficit, quanto alle capacità delle persone. Alle capacità delle persone di scegliere il loro progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell'uguale rispetto mirano a ridurre le circostanze dell'umiliazione e della degradazione delle persone, le circostanze della coercizione arbitraria e tirannica, le circostanze dello sfruttamento e dell'uso di persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell'esercizio dispotico di poteri sociali, le circostanze in cui si erodono le basi sociali del rispetto di sé per le persone. In una parola, le circostanze dell'umiliazione e della dignità ferita, di cui ci parla Therborn nel suo passo eloquente. Le politiche dell'uguale rispetto dipendono strettamente dall'ideale difficile e ineludibile dell'equa eguaglianza delle opportunità e delle capacità dei cittadini e delle cittadine di essere, per quanto possibile, padrone della proprie vite, e non suddite o schiave di altre persone e di poteri arbitrari e dispotici. Sullo sfondo descritto vividamente da Jean-Paul Fitoussi nell'incipit del suo Il teorema del lampione: "Viviamo in tempi irragionevoli, nei quali la più grande miseria vive accanto alla più grande ricchezza e ciascun Paese è un modello in scala del mondo, diviso in diversi livelli di povertà(3).

   Il vertiginoso aumento delle disuguaglianze di condizioni economiche e di status sociale ha generato una sorta di ancien régime postmoderno. Il compianto Luciano Gallino ha messo a fuoco in modo esemplare la duplice natura delle disuguaglianze crescenti come causa ed effetto, al tempo stesso, della grande crisi innescata dalla finanziarizzazione dell'economia capitalistica in un limpido saggio, Globalizzazione e diseguaglianze, che è il vero e proprio terminus a quo della sua appassionata e occhiuta ricerca sul finanzcapitalismo e sulla democrazia sotto attacco. Noi siamo il 99%, ci hanno ricordato le donne e gli uomini di Occupy Wall Street. E i fuochi di indignazione, che ciclicamente si accendono qua e là per il mondo, inverno arabo, primavera europea, autunno americano come si diceva qualche anno fa, si accendono quando la percezione delle ineguaglianze è patente nelle volte di crisi, e i costi sociali e morali si scaricano su ampie frazioni di popolazione senza voce e senza più diritti. O senza ancora diritti. Per questo, ogni volta che le ondate contestative si infrangono e l'ordine torna duramente a regnare nelle piazze e gli equilibri di potere sfidati si ricostituiscono, si avverte come una sensazione di spreco e dissipazione di una ricchezza umana possibile. Si avverte, ai tempi dell'ancien régime che ci è contemporaneo, lo scippo di speranza per le persone. Ed è per questo che l'ombra del futuro si contrae, lasciando spazio alla dittatura del presente. A questo punto, l'espressione ancien régime è appropriata, e non è un semplice slogan emotivo. Perché uno degli effetti sociali più vistosi e dirompenti delle disuguaglianze è il fatto radicale dell'ingiustizia: nessuno sceglie di nascere, da una parte o dall'altra, in una famiglia o in nessuna famiglia, in un sesso o in un altro, con un colore della pelle piuttosto che un altro. Ma quando il tuo destino di vita, il tuo progetto di vita è plasmato e dominato dall'arbitrarietà morale della tua nascita, qualsiasi idea di eguale considerazione e rispetto per le persone è cancellata dalla lavagna. E l'idea, che ne deriva, dell'eguaglianza delle opportunità per chiunque è violata e derisa.

   Ha scritto in proposito il più grande teorico della giustizia sociale del secolo scorso, John Rawls: "la distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti. Le società aristocratiche o castali sono ingiuste perché fanno di questi fatti contingenti la base ascrittiva su cui assegnare l'appartenenza ad una classe sociale più o meno chiusa e privilegiata. La struttura fondamentale di queste società incorpora l'arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana. Secondo la giustizia come equità, gli esseri umani accettano di condividere i propri destini"(4).(Sulla prospettiva di Rawls tornerò nel prossimo paragrafo.)

   Ma vi è almeno un altro effetto sociale dirompente, su cui richiamavo l'attenzione nel mio pamphlet: la lesione e la rottura del vincolo o del legame sociale nelle società della sfiducia. La distruzione del sociale, per dirla con Alain Touraine. La società divisa di Stiglitz. Il processo di erosione dei legami che Karl Polanyi aveva messo a fuoco nelle circostanze dell'insorgenza del capitalismo, conosce oggi una vistosa accelerazione. Viene meno la consapevolezza civile che siamo sulla stessa barca e che ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro. La società come unione di unioni sociali si lacera e, come per sporulazione, lo spazio sociale si frammenta in cerchie o clan o tribù o compagnie di ventura o ghetti di segregazione. Per il resto, condanne alla sorte della solitudine involontaria. Così, il patto sociale è infranto e torna sulla scena il contratto iniquo fra chi ha e chi non ha, che Jean-Jacques Rousseau tratteggiò nel diciottesimo secolo nel suo fondamentale Discorso sui fondamenti e l'origine della disuguaglianza fra gli uomini. In una democrazia decente è naturale riconoscere, quale che sia la nostra interpretazione politica dell'interesse pubblico, che il sistema delle libertà fondamentali di cittadinanza deve essere eguale per chiunque. E che libertà per qualcuno o per pochi è semplicemente privilegio. Abbiamo, se l'abbiamo, come dovremmo averla, libertà eguale, ma - fortunatamente o sfortunatamente - abbiamo redditi e ricchezza, capitale sociale diseguali. La mia libertà è uguale alla tua, ma il suo valore può essere enormemente disuguale per te o per me. Se crediamo che la libertà uguale per le persone sia il valore prioritario, abbiamo ragioni fondamentali per chiederci quanto e se sia accettabile la disuguaglianza del suo valore per le persone. Per i cittadini e le cittadine, cui spettano uguale considerazione e rispetto.

   Non è difficile riconoscere che tutto ciò è nel cuore della questione sociale, vecchia e nuova. La diagnosi di Karl Marx resta, in proposito, insuperata. Nella prima metà dell'Ottocento, all'indomani delle grandi Dichiarazioni dei diritti e sullo sfondo del capitalismo manchesteriano, Marx metteva a fuoco la tensione e la contraddizione fra l'uguaglianza nel cielo del citoyen e la disuguaglianza sulla terra del bourgeois. La disuguaglianza economica e sociale può trasformare la comunità democratica di cittadinanza in una comunità "illusoria".

   È proprio per mantenere la promessa fondamentale dell'uguale libertà che una politica democratica ha il dovere di ridurre -per quanto è possibile- le vistose disuguaglianze del suo valore per cittadini che spesso e volentieri sono riconvertiti nello status di sudditi, quando non nella condizione servile d'ancien régime, anche nella parte ricca o meno povera del mondo. Certo, oggi noi siamo osservatori e partecipanti della trasformazioni della questione sociale. Entro le nostre società e fra le differenti società nella gran città del genere umano. È naturale che siano mutati i termini della questione sociale. Come potrebbe essere altrimenti? Ma riconoscere il mutamento e le trasformazioni non equivale a sostenere, condividendo il dogma centrale della teoria economica mainstream, che la questione sociale si sia dissolta nelle magnifiche sorti e progressive del mercatismo. Il mercatismo delle società di mercato e non con mercato, su cui si è interrogato Michael Sandel nel saggio, Quello che i soldi non possono comprare. Nel suo libro del 2012 Sandel si è chiesto se, anche e soprattutto alla luce della crisi e degli effetti delle crescenti disuguaglianze, non valga la pena di tracciare e ritracciare i limiti morali del mercato per almeno due ragioni: per una ragione che fa perno sull'equità sociale e per una distinta ragione che risponde alla erosione e alla distruzione del senso e del significato dei beni sociali.

   Entro il contesto degli effetti sociali, infine, ho messo a fuoco una gamma di esiti della crisi che hanno a che vedere con alcune trasformazioni culturali. In particolare, sono due i punti che mi stanno a cuore; due punti distinti ma non indipendenti fra loro. Il primo ha a che vedere con l'idea del sapere utile. Il secondo, con la cultura e la pratica del breve o brevissimo termine. Entrambi i punti cospirano nel generare una sorta di effetto da dittatura del presente e contraggono l'ombra del futuro sul presente. Consentitemi un breve cenno, in proposito.

   Considerate gli effetti dell'idea del sapere utile come sapere problem solving di breve termine sulla cultura dell'educazione. È a questo punto che entra in gioco il modello prevalente dell'educare persone, qua e là per il mondo. Un'educazione incentrata sull'idea di sapere utile è destinata a modellare e disciplinare le menti di persone, addestrandole al problem solving con una scatola degli attrezzi, che paradossalmente si svaluta ciclicamente a fronte del mutamento continuo delle competenze, generato dalle frotte della incessante e pervasiva innovazione tecnologica. L'etica dell'impatto che, come ha sostenuto Dworkin, è orientata solo al risultato e alle conseguenze di breve, si rivela o può riverlarsi un boomerang. Gli addestrati alla routine avrebbero bisogno che fosse vera, persistente e inossidabile la dittatura del presente, perché per loro le cose funzionassero alla grande. L'addestramento al sapere utile contrae e inaridisce le capacità delle persone di orientarsi riflessivamente nel mondo, le capacità delle persone di fiorire e svilupparsi grazie al padroneggiamento dei vocabolari d'identità, su cui vertono i saperi interpretativi. Si opera, in questo modo, una specie di scippo della comprensione e dell'interpretazione delle cose umane. E si azzera il retaggio variegato e meticcio d'umanità. Si assiste come al macero dei mille libri delle grandi tradizioni del mondo che condividiamo.

   Viene in mente, per contrasto, il celebre elogio dei libri del cardinale Bessarione che nel 1468 conclude la lettera d'accompagnamento del lascito della sua biblioteca alla città di Venezia, affermando che senza i libri, senza la loro dignità e la loro santità, noi saremmo "senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo alcuna conoscenza delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi, cancellerebbe anche la memoria degli uomini.

   Considerate ora la logica del breve termine che contraddistingue il nostro paesaggio mentale e culturale. Non c'è più ombra di futuro sul nostro presente. Intrappolati sistematicamente e alle prese con una specie di dilemma del prigioniero persistente, abbiamo dimenticato la differenza fra una singola partita e un torneo. Abbiamo dimenticato la differenza essenziale che dipende dalla ripetizione o, come si dice nel gergo della teoria dei giochi, dalla iterazione del dilemma in una serie di partite fra giocatori nel tempo. È l'iterazione che, estendendo l'ombra del futuro sul presente, può consentire giochi di reciprocità. In questo senso preciso, l'esperienza inversa della contrazione dell'ombra del futuro fa sì che gli esiti delle nostre scelte siano destinati inesorabilmente a sprecare la risorsa della razionalità collettiva e ci inducano a strategie che risultano individualmente convenienti e sono di fatto socialmente e collettivamente fallimentari.

   Il futuro non è più quello di una volta, per dirla con Paul Valéry e i suoi eredi creativi che hanno cominciato a scriverlo da un po' di anni sui muri delle nostre città.                                                                                                       

   È in questo senso preciso che noi siamo come inchiodati e asserviti alla dittatura del presente. Un presente in cui quasi ciascuno di noi, fatto salvo l'1%, ha la percezione di avere solo da perdere. Il mantra suona: non c'è alternativa. Lo spazio del possibile è contratto e come dissolto. La densità e la rigidità dei vincoli sono tali che non abbiamo più risorse né intellettuali, né morali, né motivazionali per prenderci per mano e ragionare e operare insieme su forme più decenti di convivenza.

   Scippati del senso della possibilità e inchiodati nella trappola della falsa necessità, noi abbiamo perso fiducia. Non abbiamo futuro e abbiamo dimenticato o rimosso il passato. In parole povere: non c'è alcuno spazio per esercizi di immaginazione e di visione politica. Il mio invito all'immaginazione politica, morale e sociale si basa sulla convinzione che l'idea che non vi sia alternativa dipenda dall'ignavia, quando non dall'ipocrisia cognitiva. La necessità è molto spesso l'esito della mancanza di fantasia, come accade nella scienza, nell'arte, nella ricerca della verità e nell'indagine sulle cose politiche e sociali. L'invito all'immaginazione politica prende le mosse dallo smascheramento e dal sospetto critico e illuministico nei confronti della falsa necessità. Prende le mosse dalla voglia di verità e veridicità. E di giustizia. Di giustizia come equità sociale, come vedremo.

   Credo che questi cenni alle mie osservazioni sugli effetti plurali della disuguaglianza entro le società e fra le società possano bastare. Ora mi propongo di chiarire la natura delle differenti ragioni che militano a favore di una riduzione della disuguaglianza, mettendo a fuoco quelle della filosofia politica, intesa come teoria politica normativa.

 

 

3.  Nella narrazione impressionistica a proposito della disuguaglianza e dei suoi molteplici effetti ho fatto riferimento a una varietà di ragioni secondo cui la disuguaglianza è un male sociale e la sua riduzione è un obiettivo di valore degno di lode. Analiticamente possiamo definire i) una classe di ragioni come ragioni politiche che investono centralmente il deficit delle risorse di legittimità dei sistemi e dei processi democratici; ii) una classe di ragioni sociali che mettono a fuoco il deficit di coesione e di inclusione delle persone entro una qualche società; iii) una classe di ragioni economiche che riguardano i deficit della crescita o dello sviluppo di sistemi caratterizzati dal patrimonialismo intergenerazionale, dal predominio della ricerca della rendita e dal blocco della mobilità sociale; iv) una classe di ragioni culturali, in cui gioca un ruolo decisivo la logica del breve termine con le sue molteplici implicazioni; v) una classe di ragioni filosofiche che chiamano in causa questioni di giustizia sociale, alla luce di una varietà di principi che mirano alla giustificazione imparziale o impersonale della distribuzione di costi e benefici della cooperazione sociale in presenza di disuguaglianze del tipo di quelle cui mi sono riferito nei paragrafi precedenti. È a proposito di quest'ultima classe di ragioni che vorrei esplicitare una convinzione meditata e abbozzare una congettura.

   La convinzione meditata è questa: la questione della giustizia sociale è tornata prepotentemente al centro della ricerca e della controversia intellettuale in quanto genuina questione di giustizia distributiva. Dopo qualche decennio in cui il paradigma dominante è stato quello della giustizia commutativa di una qualche versione di libertarismo, la domanda normativa fondamentale si formula ora come una domanda a proposito della giustificazione o meno delle disuguaglianze in termini di reddito, ricchezza o risorse. E questo ce lo suggeriscono, nelle recenti ricerche e nei loro sviluppi, la stessa teoria economica, sociologica o politologica. Del resto, il nucleo di qualsiasi filosofia politica come teoria normativa di una società giusta consiste nel problema della giustificazione. Questioni di efficienza, di coesione sociale o di legittimità delle forme di governo (nel caso delle differenti forme di governo democratico) si connettono strettamente alla richiesta di giustificazione delle istituzioni fondamentali e delle pratiche sociali, per gli effetti distributivi che esse hanno sulla qualità di vita delle persone che hanno entro il loro sfondo una vita con tante altre persone da vivere. Così, la convinzione meditata ci induce a riconoscere, a fronte dei costi morali della crescente disuguaglianza, che la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali.

   Abbozziamo ora la congettura. Slittando a un livello di maggiore astrazione e generalità, chiediamoci che cosa dobbiamo presupporre perché il problema della giustificazione della disuguaglianza sia un genuino problema per la teoria politica normativa. È facile rispondere, con Amartya Sen, che il presupposto fondamentale coincide con un'assunzione previa di uguaglianza. L'ideale di uguaglianza può naturalmente essere variamente interpretato e sappiamo che non abbiamo solo il problema del "perché eguaglianza?" ma anche quello di "eguaglianza di che cosa?". In un saggio ormai classico del 1978 Thomas Nagel ci ha mostrato in che senso non vi è teoria della giustizia che non incorpori una qualche (divergente) interpretazione morale dell'eguaglianza. John Ralws ha introdotto nella sua celebre e controversa teoria della giustizia come equità il principio di differenza come principio di giustificazione di una classe di disuguaglianze in coerenza con l'idea normativa di uguale cittadinanza democratica. Lo stesso libertarismo presuppone un'idea di uguaglianza dei diritti morali negativi degli individui.

   Quindi, possiamo dire che la disuguaglianza non ha bisogno di giustificazione solo nelle circostanze in cui sussista un'assunzione previa a favore della disuguaglianza stessa, come accade sullo sfondo di società a gerarchia ascrittiva. Società cetuali o castali, appunto: ancien régime, come suggerivo nelle osservazioni sugli effetti delle disuguaglianze contemporanee. L'esservi disuguaglianze è un fatto sociale che cambia radicalmente natura, e da dato si converte in problema, quando si è anche solo un passo oltre un qualche ancien régime, come sostiene Rawls nella pagina che ho citato prima. In parole povere, è perché, per noi, una qualche ideale di uguaglianza morale conta e vale che ha senso porsi la questione della giustificazione o meno delle disuguaglianze.

   Nel suo recente On Inequality, Harry Frankfurt sostiene che l'ideale morale dell'uguaglianza non conta, che la disuguaglianza non è un problema e che il vero problema è quello della povertà e della deprivazione delle persone(5). Frankfurt è convinto che la società debba offrire a chiunque una vita "soddisfacente". Dal punto di vista dell'etica, ciò che è importante non è che ciascuno abbia lo stesso ammontare di risorse di ciascun altro, ma che ciascuno abbia "abbastanza". Naturalmente, applicare il principio di "autosufficienza" costa e Frankfurt propone argomenti a favore di manovre redistributive che garantiscano alle persone di avere abbastanza e di sfuggire così alla trappola della povertà. Tuttavia, una delle principali difficoltà per le politiche che mirano a ridurre la povertà dipende, come lo stesso Frankfurt riconosce riferendosi agli Stati Uniti, dalla resistenza opposta dai detentori dell'"enorme ricchezza".

   Frankfurt dovrebbe allora riconoscere che la disuguaglianza è un problema e conta, dato che l'enorme ricchezza "resiste per i suoi interessi" a provvedimenti e misure di riduzione della povertà. E dovrebbe anche riconoscere che l'ideale morale dell'eguaglianza conta. Perché altrimenti argomentare a favore di politiche redistributive e non praticare l'elogio della virtù della compassione? Il punto è che Frankfurt interpreta l'ideale morale dell'eguaglianza come un ideale che prescrive politiche di egualitarismo alla Babeuf. Ma questo non è affatto necessario, come sappiamo. Dopo tutto, è un grande leader socialdemocratico europeo Olof Palme ad aver chiarito da molto tempo che "noi non combattiamo la ricchezza, combattiamo la miseria". Il sufficientarismo di Frankfurt si basa su una critica all'ideale morale dell'uguaglianza che implicherebbe un obiettivo di egualitarismo stretto nella distribuzione di risorse (un egualiarismo degli esiti). Ma questo non è l'obiettivo dell'uguaglianza democratica, esemplificata dal principio di differenza di Rawls; né del modello dell'uguaglianza di risorse di Ronald Dworkin; né dell'approccio delle capacità di Sen; né di una qualche versione dell'uguaglianza delle opportunità; né, infine, dell'egualitarismo della sorte di Richard Arneson o John Roemer.

   Sono convinto che l'ideale morale dell'uguaglianza implichi prevalentemente una qualche forma di prioritarismo, come ha mostrato Derek Parfit nel suo classico contributo del 1997, Equality and Priority(6). La priorità va all'urgenza del bisogno di chi è più svantaggiato in una determinata distribuzione. Al di là delle differenze analitiche fra una regola di maximin, di leximin e una regola di priorità, l'idea intuitiva di base è quella di valutare le distribuzioni adottando il punto di vista di chi in esse, senza sua responsabilità, è più svantaggiato. La disuguaglianza crescente nelle nostre società deve essere sottoposta al test suggerito dal prioritarismo. In altri termini, è un must, e non un optional, definire quali disuguaglianze sono moralmente e socialmente accettabili o giustificabili. In questo senso preciso la disuguaglianza non è un dato, ma un problema. Forse, il principale problema con cui dobbiamo misurarci. Se manteniamo lealtà a un nucleo elementare di valori che è incorporato nei fondamentali della convivenza democratica. Così, la congettura si connette alla convinzione meditata sulla rilevanza delle questioni di giustizia sociale, intesa propriamente come giustizia distributiva.

 

 

4. Una conclusione provvisoria delle mie osservazioni sulla disuguaglianza è la seguente: proviamo a connettere le distinte ragioni che militano a favore di una riduzione della disuguaglianza economica e sociale, cercando di costruire, passo dopo passo, un quadro di sfondo per l'idea di giustizia sociale.

   Possiamo dire che l'intuizione di base coincide con l'idea dell'uguale status di cittadinanza democratica. Una interpretazione di questa idea definisce l'assioma da cui inferire un teorema di equità sociale dettato dall'adozione di una qualche forma di prioritarismo, che dà un peso rilevante alle circostanze dello svantaggio economico e sociale e promette sviluppo economico inclusivo per tutti e non per pochi. Un corollario è quello dell'uguaglianza relazionale, che ha a che vedere con la coesione e l'inclusione sociale e che mostra la connessione stretta fra giustizia nella distribuzione e giustizia nel riconoscimento o, meglio, nei mutui riconoscimenti entro la cerchia della cittadinanza democratica. (A proposito del rapporto fra giustizia nella distribuzione e giustizia nel riconoscimento, è bene ricordare che nel suo pionieristico saggio, From Redistribution to Recognition, Nancy Fraser aveva già sottolineato la stretta connessione fra le due dimensioni di giustizia).

   Potremmo evocare, in proposito, la preziosa ed elusiva idea di egalité des conditions di Alexis de Tocqueville, il grande osservatore partecipante di transizioni fra ancien régime e modernità, alle nostre spalle. E, almeno nel difficile contesto europeo, sono convinto che il teorema di equità sociale dovrebbe indicarci alcuni obiettivi per politiche coerenti, incentrate da un lato sull'idea di un basic income e, dall'altro, sull'idea di beni comuni nell'indice dei beni sociali primari di cittadinanza europea.

   Certo, il nostro quadro di sfondo si addice alla costellazione nazionale, per dirla con Juergen Habermas. Altre, e più radicali, sono le questioni della disuguaglianza che affollano il paesaggio della costellazione postnazionale. E qui siamo alle prese con gli scopi, tanto difficili quanto ineludibili, della questione sociale globale e, quindi, di una concezione di giustizia globale, come avevo accennato all'inizio di queste osservazioni. In tempi di transizioni, in cui i punti di non ritorno sono più rari di quanto sia abituale pensare e si aggira in più angoli di mondo lo spettro di un inedito ancien régime, possiamo forse evocare l'immagine di uguaglianza che ci consegna un grande illuminista europeo di fine Settecento, Pietro Verri: "L'uomo è come nel deserto quando non trova i suoi simili. Il vivere è noioso o si viva co' superiori o cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammette società, gioia, cordialità"(7).

 

1) C. Saraceno, Prefazione a A. B. Atkinson, Disuguaglianza, trad. it. di V. B. Sala, Milano, Cortina, 2015, p. VII.

2) Cfr. "Non c'è alternativa" (Falso!), Roma-Bari, Laterza, 2014, di cui riformulo in questo paragrafo alcuni passi.

3) J.-P. Fitoussi, Il teorema del lampione, trad. it. di M. L. Chiesara, Torino, Einaudi, 2013, p. 7.

4) J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it. di U. Santini, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 99.

5) Cfr. H. Frankfurt, On Inequality, Princeton, Princeton University Press, 2015. Il volume raccoglie, con qualche variazione e aggiornamento, due saggi dell'autore del 1987 (Equality as a Moral Ideal) e del 1997 (Equality and Respect).

6) Cfr. D. Parfit, Equality and Priority, in "Ratio", 10, 3, 1997, pp. 202-221.

7) P. Verri, Lettera del filosofo N.N. al monarca N.N., 1797, cit. in G. Francioni, Gli Illuministi e lo Stato, Como-Pavia, Ibis, 2012, p.162. 

 

 


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20 MAGGIO 2016

Articolo pubblicato sulla rivista

Iride, Filosofia e discussione pubblica (Il Mulino)

numero 1 2016 - pp. 23-34

Si ringraziano l'Autore, il Direttore e l'Editore per averne autorizzato la pubblicazione