Come ricorda Justin Gillis sul New York Times del 28 novembre, dopo quasi vent’anni d’incontri, convegni, seminari, pubblicazioni, inviti pubblici di tutti i tipi che hanno mancato completamente l’obiettivo di rallentare l’ampliamento continuo del riscaldamento globale, delegati di circa 200 paesi sono chiamati a discutere, negoziare e forse firmare nel corso delle prossime due settimane un accordo per definire passi concreti per diminuire le emissioni dannose.
La promessa implicita di qualsiasi forma o modalità di progresso ha riscosso ampio plauso; a fine ottobre Christiana Figueres, segretario esecutivo della United Nations Framework Convention on Climate Change dichiarò che “i consensi e gl’impegni che sono già stati annunciati rappresentano una specie di caparra chiara e determinata per una nuova era di ambizioni per il clima da parte della comunità delle nazioni”. (http://unfccc.int/2860.php)
Tuttavia, dai programmi e dal tenore degli interventi resi noti, è chiaro fin d’ora che i delegati-negoziatori che si riuniranno a Parigi non prevedono di discutere alcuno dei piani che in qualche modo potrebbero avvicinarsi a raggiungere gli obiettivi da loro stessi indicati al fine di voler limitare l’aumento delle temperature globali a un livello ragionevole di sicurezza.
Va sottolineato che i partecipanti non hanno indicato in nessun modo di voler riprendere e sostenere le raccomandazioni, espresse anni or sono da numerosi scienziati di diverse nazionalità, di definire in modo imperativo un tetto alle emissioni che provocano l’effetto serra come lo strumento indispensabile per raggiungere quegli obiettivi, e determinare come distribuire equamente i livelli di emissioni ammessi. Le diverse nazioni indicano impegni su basi puramente volontarie, indipendentemente le une dalle altre, e tali impegni sono quasi sempre il risultato di un compromesso tra il voler apparire pubblicamente ambiziose ai fini del raggiungimento degli obiettivi e i costi e le difficoltà politiche che implicano i tagli delle emissioni dannose. E anche questi impegni sono generalmente assai al di sotto delle soglie minime necessarie per raggiungere gli obiettivi indicati.
L’argomentazione scientifica parte dalla considerazione, comprovata da numerose simulazioni indipendenti, che la quantità di carbonio che l’atmosfera può assorbire – prima di entrare in un processo irreversibile e rendere inabitabili vaste aree della Terra – è limitata.
Nel 2013 gli scienziati sottoposero ai diplomatici che si occupavano del clima la raccomandazione di considerare la nozione di “carbon budget” per dare una forma alle discussioni e delimitarle in modo chiaro. La proposta fu disattesa come “impraticabile politicamente” e richieste, anche recenti, di riprenderla in considerazione sono state ignorate.
Il “carbon budget” non sarà sul tavolo a Parigi per varie, semplici ragioni: ad esempio, iniziare un serio, approfondito dibattito su tale budget obbligherebbe i delegati a portare all’attenzione generale le ineguaglianze su scala globale che sono al centro della crisi climatica. E costringerebbe i delegati a portare alla superficie qual’è la dimensione reale del problema, quanto è alto il costo dell’aver rinviato le decisioni nel tempo e quanto sono inadeguati i piani per limitare i rischi che sono in discussione a Parigi.
Si consideri per esempio quali impegni hanno offerto l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina per la riduzione delle emissioni: sono i piani più ambiziosi mai offerti prima d’ora, eppure, anche se i piani fossero implementati e gli obiettivi realizzati, una recente analisi indica che quelle tre aree del mondo utilizzeranno la quasi totalità di quel che resta di credito di emissioni nell’atmosfera, lasciando ben poco per il futuro agli altri cinque miliardi di abitanti del pianeta o ai loro discendenti.
In altri termini, i maggiori responsabili delle emissioni dannose dovrebbero impegnarsi a dei tagli che sarebbero difficili da raggiungere, sarebbero potenzialmente disastrosi per le loro economie e impossibili da realizzare politicamente.
E ancora: un dibattito serio, impegnato e aperto su “carbon budget” aprirebbe la porta a un elemento fortemente contezioso – “ingiustizia climatica” (“climate injustice”): si fa riferimento all’argomentazione che i paesi poveri hanno ben poca responsabilità per il passato del cambiamento climatico, ma sono in prima linea nel sopportarne le conseguenze, e senza possibilità reale di proteggersi.
Molti di questi paesi vogliono sviluppare le loro economie utilizzando combustibili fossili, necessariamente in quantità crescenti nei prossimi anni, ma, dati i rischi provocati dai paesi più ricchi nel corso di anni e anni di emissioni dannose, si trovano sotto forti pressioni di adottare forme di energie più “verdi”, ma certamente più costose.
La nozione di “carbon budget” è basata su di un obiettivo che i paesi decisero di comune accordo nella speranza di evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico: nel 2010 a Cancún fu concordato di mantenere il livello di riscaldamento del pianeta entro il limite di 3,6° Fahrenheit ovvero 2° Celsius al di sopra del livello prevalente prima della Rivoluzione Industriale.
Molti scienziati sono assai scettici che questo limite rappresenti un limite di sicurezza, ma c’è ampio consenso che sorpassare tale limite provocherebbe una serie di catastrofi in tutte le regioni della Terra. La nozione di “carbon budget” fu messa in evidenza nel rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change pubblicato a Stoccolma nel 2013
I partecipanti al Panel calcolarono che il budget globale era già stato utilizzato per circa due terzi da un numero assai limitato di paesi ricchi, ai quali andava aggiunta la Cina. Ai ritmi attuali di livelli di emissioni, la totalità del “carbon budget” sparirebbe in trenta anni, e forse meno.
È ormai chiaro che, in base a dati e analisi pubblicati da diversi gruppi indipendenti, le promesse e gli impegni attuali di diminuire le emissioni non permetteranno mai di arrivare all’obiettivo del “carbon budget”. Di fronte alle realtà politiche di moltissimi paesi, parecchi gruppi di scienziati sembrano aver rinunciato a veder preso in considerazione il “carbon budget” a COP 21, ma sostengono che è comunque meglio continuare le negoziazioni piuttosto che smettere di discutere e confrontarsi. Questo nonostante Ms. Christiana Figueres, segretario esecutivo della United Nations Framework Convention on Climate Change, abbia dichiarato a The Guardian, poco dopo la pubblicazione del rapporto di Stoccolma, che “Politicamente sarebbe molto difficile”, di fatto togliendo il “carbon budget” dal tavolo della discussione.
COP 21 di Parigi è la ventunesima edizione; ogni conferenza ha costruito sugli esiti della precedente: l’obiettivo dei 2° Celsius fu stabilito a Copenhagen nel 2009; il Protocollo di Kyoto del 1997, nel quale fu redatto il primo trattato di riduzione delle emissioni paese per paese, fu anch’esso il risultato di esiti precedenti.
A Parigi tuttavia la barra sembra esser posta assai più in alto rispetto alle conferenze precedenti, e una delle ragioni è l’accordo raggiunto nel 2014 dalla Cina e dagli Stati Uniti: U.S.-China Joint Announcement on Climate Change – Beijing, China, 12 November 2014.
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