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Un Paese in guerra, dentro e fuori. Una nazione fino a qualche anno fa strategica, ma ora diventata un grave fattore di instabilità per i già precari equilibri del Mediterraneo. Un leader sempre più autoritario, pronto a dettare le condizioni a un'Unione Europea allo sbando e incapace di trovare una posizione comune per affrontare una crisi migratoria che non ha precedenti.
Molto semplicemente, da grande opportunità, la Turchia si è trasformata in un problema.
Dal punto di vista interno, ormai da mesi, si assiste a un progressivo accentramento di poteri da parte del Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan. A maggio si è verificato un fatto molto grave, l'ennesimo colpo di mano sul sistema democratico da parte di un uomo solo al comando, che sostanzialmente ormai può fare quello che vuole. L'ex premier, Ahmet Davutoglu è stato costretto a dimettersi, dopo un incontro con il capo dello Stato durato nemmeno due ore. La sua colpa era quella di avere iniziato a voler gestire autonomamente la sua carica, ottenuta per decisione di Erdogan dopo che lui era stato eletto Presidente della Repubblica. Da burattino, Davutoglu aveva iniziato ad acquisire sempre più autonomia, portando a casa anche risultati di una certa importanza come la liberalizzazione dei visti che, se l'accordo con l'Unione Europea tiene, dovrebbe divenire effettiva nei prossimi mesi. Non solo. Il premier si era anche opposto alla degenerazione della situazione nel sud-est del Paese, della quale si parlerà poco più avanti. Una politica troppo filo-occidentale e un'apertura verso la minoranza curda. Due motivi più che sufficienti per togliere di mezzo l'accademico, prima che avesse il tempo di costruirsi una sua corrente all'interno dell'Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che guida il Paese dal 2002. Il suo posto è stato assunto da Binali Yildirim, uomo vicinissimo a Erdogan, che di certo farà di tutto per non limitarne il potere.
Intanto, il sud-est del Paese brucia. Le ostilità con il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, sono riprese con una violenza senza precedenti. Ad accendere la miccia è stato l'attentato di Suruç del 24 luglio 2015, quando 33 ragazzi, curdi e aleviti, sono stati uccisi da un kamikaze dello Stato Islamico, mentre cercavano di portare aiuti alla popolazione di Kobane, la cittadina curda in territorio siriano per messi sotto assedio da parte dello Stato Islamico. Da quel momento, è partita una escalation di violenza, una vera e propria guerra della quale hanno fatto le spese in prima battuta le popolazioni che abitano nel cosiddetto 'Kurdistan' turco e subito dopo l'Hdp, il Partito curdo del popolo democratico, che ha visto prima aumentare e poi diminuire sensibilmente I propri consensi e di conseguenza la presenza in parlamento. Si è trattato di un colpo molto duro, per il co-segretario Selahattin Demirtas, che negli ultimi anni ha cercato progressivamente di smarcare l'azione politica da quella del gruppo separatista e portare la richiesta di maggiori diritti da parte della minoranza in assemblea. Il presidente Erdogan sta approfittando della situazione non solo per cercare di indebolire un partito che iniziava a riscuotere simpatie non più solo fra I curdi, ma anche fra I curdi, grazie al suo programma altamente riformista. La defenestrazione di Davutoglu, l'abbattimento della minoranza curda a vari livelli, serve al Capo dello Stato per accelerare l'iter per cambiare la Costituzione in senso presidenziale sul modello francese, che gli garantirà, a quel punto anche per legge, un potere pressoché illimitato.
Questa la situazione dal punto di vista interno. Da quello estero, non è meno preoccupante, anzi. La Turchia al momento è impegnata in una serie di 'azioni di rattoppo' per riparare ai danni compiuti dal 2009 al 2015, quando la Mezzaluna, sulla spinta proprio dell'ex ministro degli Esteri e premier Davutoglu, che godeva della piena fiducia di Erdogan, ha portato avanti una politica estera di stampo neottomano/panislamico. La conseguenza è stata l'allontamento dal blocco occidentale e da alleati storici come gli Usa, per prediligere i Paesi del Golfo e altre nazioni che gravitano nell'orbita dell'Islam sunnita. A farne le spese, è stato soprattutto Israele, un tempo un riferimento per Ankara e che proprio a causa del suo ex alleato ha rischiato di aumentare sia l'isolamento nella regione, sia un susseguirsi di attacchi. Questo per quanto riguarda una prima fase della politica estera turca. Il fenomeno delle cosiddette 'primavere arabe' ha portato profondi rivolgimenti nel Mediterraneo. Un avvenimento complesso, senza precedenti, che avrebbe richiesto un'azione ragionata e coordinata da parte dell'Unione Europea e dei suoi alleati e dove invece la Turchia si è buttata con una politica estera esuberante, priva di una visione sul lungo termine, con conseguenze che stiamo pagando ancora adesso. Se nel caso della Libia la posizione è stata interlocutoria e si è preferito solo portare soccorsi e non partecipare ad azioni belliche, nel caso della Siria la condotta è stata a dire poco scellerata. Prima Erdogan e Davutoglu hanno usato l'emergenza umanitaria per convincere Obama, risultante, a muovere guerra a Bashar al-Assad. Hanno anche iniziato a collaborare con lo stesso Stato Islamico, con cui hanno due obiettivi in comune. Il primo è la caduta del regime siriano. Il secondo l'annientamento dei curdi siriani che, insieme con quelli iracheni e turchi, sono stati gli unici a difendere i confini della Nato dalle milizie di Al-Baghdadi. Quando si sono resi conto che non avrebbero mai ottenuto l'effetto desiderato, con l'iniziare dell'emergenza migratoria, hanno cercato di sfruttare al meglio la situazione, complice anche un'Unione Europea dove gli egoismi nazionali hanno prevalso su una gestione comune di un fenomeno senza precedenti.
Adesso, però, Ankara rischia di trascinare nel gorgo tutto il Vecchio Continente. Il Presidente Erdogan sembra sempre più intenzionato a internazionalizzare il conflitto siriano, o almeno una parte. Sui tavoli internazionali, sta cercando di fare passare i curdi siriani del Pyd-Ypg, come un nemico comune, alleati del Pkk che sta mettendo a ferro e fuoco il territorio di un alleato Nato. Una situazione incandescente, alla quale si è arrivati a causa dell'insipienza dell'amministrazione Obama e della mancanza di unità dell'Ue nella politica estera. Il rischio, è quello di farci ricattare dal dittatore al momento di più di successo del Medio Oriente. In quest'ottica, avrà grande importanza capire quanto la Ue riuscirà a fare rispettare le regole dell'accordo siglato a marzo. Se Ankara riuscirà a ottenere sconti sulla legge antiterrorismo, che poi serve anche per limitare la già precaria libertà di stampa nel Paese, allora si potrà ben dire che l'Europa, per non prendersi le sue responsabilità, si è venduta la sua anima. © RIPRODUZIONE RISERVATA 23 GIUGNO 2016 |