Antonio Monestiroli  
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QUANDO È L'ARCHITETTURA A FARE LA CITTÀ


Cosa ho imparato da Milano



Antonio Monestiroli


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Vi parlerò di Milano come città dell'architettura in particolare dell'architettura moderna che forse, in Italia, non poteva che nascere qui. Ve ne parlerò in modo tendenzioso, interessato. Quella che vi propongo è una visione distorta della storia, una visione che sceglie, nella storia, quel che serve al proprio progetto. Senza particolari criteri se non uno: quello dell'utilizzazione dell'esempio. Naturalmente l'esempio per essere utilizzato deve avere un valore generale, un valore capace di attraversare la storia e non essere valido solo nel momento in cui viene prodotto.

Quando, all'inizio del mio lavoro, mi sono trovato di fronte il tema della parete finestrata sono andato a vedere le finestre di Asnago e Vender e ho cercato di capire la loro logica compositiva, perché una logica esiste, una ragione delle loro forme e della loro disposizione sulle facciate. A volte al limite del formalismo come già diceva Giolli su "Casabella" nel '43, ma sempre rivolta a farci riconoscere l'identità di questo elemento, identità che cambia secondo le sue misure e le sue proporzioni, secondo la sua collocazione ed il suo rapporto con le altre finestre. Una logica che rende quelle finestre e la loro composizione una sorta di patrimonio comune al quale tutti possono attingere.

Ho capito che questo non succede con tutti gli autori. Non tutti producono forme che vanno ad aumentare il patrimonio comune delle forme. Molti producono forme personali che non sono a disposizione di nessuno. Capita a tutti [gli architetti] di accorgersi di poter usare senza problemi alcune forme e di provare invece un senso di fastidio a usarne altre. Le forme che entrano senza forzature nel patrimonio comune sono di solito forme semplici, prive di particolarità, forme che coincidono con la ragione che le ha generate. Sono forme di autori che non sono interessati a lasciare un loro segno e che addirittura vogliono che il loro linguaggio venga usato da altri. Giuseppe Pagano considerava forme libere di essere usate da altri le forme dell'architettura rurale.

Questa è una prerogativa dell'architettura antica ma lo è stata anche di certa architettura moderna, specialmente in Italia, e specialmente a Milano. Pensate a Pagano, Albini, Figini e Pollini, Asnago e Vender. Penso che nessuno di noi avrebbe il problema di riprenderne le forme, così generali, così appropriate e giuste da non consentire alternative al momento della loro proposizione. Questi autori milanesi e altri che condividono la ricerca di forme giuste, forme senza alternative, fondano il loro lavoro su alcuni principi che possiamo definire razionali. Una razionalità che ci riconduce all'Illuminismo lombardo come è stato detto tante volte, al pensiero di Pietro Verri, al Discorso sulla felicità, pubblicato a Milano alla fine del XVIII secolo.

Verri nel Discorso sulla felicità scrive che "la felicità del saggio incomincia da lui stesso e si estende poi agli oggetti che lui crea", e continua dicendo che "la felicità di ognuno di noi si compie nella felicità pubblica". Ho sempre pensato che questo pensiero fosse molto legato al nostro lavoro. Con Pietro Verri possiamo dire che il fine del nostro lavoro è la felicità pubblica. La cultura di alcuni architetti milanesi affonda proprio in quel periodo ed è cresciuta nel tempo andando ben oltre, fin da principio, a ogni tipo di funzionalismo che invece circolava nella cultura architettonica in Europa. Avete mai pensato perché è impossibile considerare funzionalista il lavoro di Franco Albini o di Giuseppe Pagano e a cosa c'è in più nelle loro forme, appunto, qual è la finalità delle loro forme? Franco Albini - il mio primo maestro - ci ha insegnato a mettere in opera, in forme semplici, l'identità di ogni cosa, ciò che ogni cosa è. Non solo Albini, anche altri architetti milanesi in quel periodo sono accomunati da questo impegno alla conoscenza della natura di ogni cosa: di ciò che ogni cosa è, andando al di là di ogni funzionalismo. Possiamo dire che l'impegno alla conoscenza è proprio della cultura di una città. Nel caso di Milano è un patrimonio straordinario, non ancora valutato pienamente. Un patrimonio al quale hanno attinto da tutte le parti del mondo.

Mi è difficile pensare a Aldo Rossi, un architetto conosciuto in tutto il mondo, al di fuori della cultura della sua città: una città che Rossi ha voluto conoscere analiticamente, distinguendone le parti, riconoscendo una legge nei modi della sua crescita. Aldo Rossi ha saputo saldare la forma fisica della città con il pensiero che l'ha prodotta nella storia. Lui più di ognuno di noi ha imparato da Milano quel che poi ha saputo raccontare con una nuova e straordinaria maestria. Tutto questo accadeva attraverso il passaggio, da un autore all'altro, di un'unica ostinata ricerca sulla natura delle cose.

 

Ignazio Gardella / Ernesto N. Rogers

Forse i due più importanti interpreti di questo pensiero sono stati Ignazio Gardella e Ernesto Rogers. Due maestri, almeno per me, di grande valore. Due maestri del tutto diversi fra loro. Gardella era concentrato sul suo lavoro di architetto, Rogers era un intellettuale che sapeva tradurre la sua ricerca in architettura. Gardella aveva un rapporto forte con Milano, diceva che "l'aveva nel sangue, respirava la sua aria e dunque gli apparteneva". Un modo molto particolare di parlare di una città, un rapporto legato alle sensazioni, un rapporto istintivo che si tramuta in un sentimento di appartenenza. Gardella trova a Milano quel che gli serve per fare l'architetto, non tanto nelle forme, che prenderà anche altrove - pensate alla sua ammirazione per Alvar Aalto - ma nel modo di affrontare il rapporto con la realtà.

Gardella ha costruito, fra le altre cose, tre case bellissime. La Casa al Parco a Milano, casa Borsalino ad Alessandria, casa in via Marchiondi a Milano. Tre case che raccontano un modo di vivere nella casa borghese contemporanea. Non ha proposto solo un linguaggio, che peraltro è diverso in ognuna delle tre case, ma ha stabilito una relazione fra le parti della casa che ne definisce l'identità. Questa è una ricerca propria dei grandi maestri che hanno raggiunto un livello di definizione alto della casa, come Adolf Loos o Mies van der Rohe. Pensiamo solo alla Casa al Parco costruita a Milano nel 1948. Questa casa - di cui Gardella non era contento perché è stata costruita in modo diverso dal suo progetto - è straordinaria per la sua concezione prima che per la sua forma. Se guardiamo la pianta di questa casa vediamo che è divisa in due parti circa uguali e parallele fra loro, una destinata al soggiorno e l'altra alle notti. Fra loro, nella zona di congiunzione delle due parti, i servizi. Le due parti sono costruite diversamente una dall'altra. Quella dei soggiorni è costruita con un sistema di travi e pilastri che consente un'apertura totale del fronte verso il Parco Sempione. Quella delle notti è costruita con un sistema murario, una parete finestrata dove le finestre vanno dal soffitto al pavimento per favorire l'affaccio delle singole stanze sul giardino. "Importante - diceva Gardella - è vedere il giardino anche stando seduti".

Ma perché questa casa è fatta in questo modo? Cosa ha fatto decidere a Gardella questa distribuzione delle parti della casa? Certamente un'idea forte, che si imponeva a Milano in quel momento, che è alla base del progetto Milano Verde, dove tutte le case affacciano su un parco o su un giardino. Tutto nel progetto della casa andava verso quella finalità, una finalità generale, quella di assicurare il rapporto della casa con la natura. Questa ricerca, interessata a conoscere non tanto come funziona la casa ma cosa è la casa, vale per tutti gli edifici di Gardella, vale anche per il teatro di Vicenza che forse è la sua opera più importante. Nel teatro di Vicenza in un'unica forma concisa sono contenuti due concetti: l'unità del luogo - il teatro è racchiuso nel recinto quadrato - e l'individuazione di due parti - (palco/platea) distinte dalla loro diversa altezza -. Gardella è un grande maestro che con una sola mossa ci racconta la complessità del teatro moderno.

Rogers, al contrario, costruisce il suo pensiero partendo da una concezione generale del mondo, che vuole tradurre, questa è una parola sua, in architettura. L'architettura per Rogers è traduzione di un pensiero, per Gardella è costruzione di un pensiero. Il teatro di Vicenza è la costruzione di un pensiero sul teatro, la Torre Velasca di Rogers è la traduzione di un pensiero sulla città, sul suo passato, sul suo futuro, sulla torre come elemento di quella città. Io credo che Gardella e Rogers non fossero amici come invece lo erano Gardella e Albini. Rogers preferiva frequentare i filosofi. Il suo amico filosofo era Enzo Paci, come tutti sanno, e il maestro di entrambi era Antonio Banfi, suo professore al liceo Parini, che dalla cattedra dell'Università Statale di Milano si contrapponeva a Benedetto Croce rivendicando la conoscenza della realtà come finalità ultima dell'arte e quindi dell'architettura. Banfi diceva: "Quel nobile scopo dell'arte che è la conoscenza della cosa in sé, della cosa che si costruisce".

 

Razionalismo e immaginazione

Il razionalismo di Banfi, come quello di Rogers, Albini e Gardella non esclude certo l'immaginazione dal processo di conoscenza, al contrario considera la ragione l'unico veicolo dell'immaginazione. Sempre, per Rogers e per Gardella, la motivazione di un pensiero sull'architettura si basa sull'immaginazione, l'immaginazione di un mondo migliore, di un mondo non inventato o frutto di una vaga fantasia individuale ma risultato di un giudizio sulla realtà, di una critica della realtà. Utopia della realtà per Rogers vuol dire che la realtà nel suo insieme si muove verso l'utopia. Il motore di questo movimento è il desiderio di un mondo migliore. Io credo che sempre, anche disegnando una semplice maniglia, quel che guida la mano agli architetti milanesi di quegli anni sia il desiderio di un mondo migliore.

Anche Gardella è insofferente alla nozione corrente di razionalismo. In un'intervista del '95, quando aveva già compiuto 90 anni, dice: "Mi sono allontanato dal razionalismo ortodosso perché ho sempre pensato che nell'architettura ci fosse qualcosa di più, qualcosa di inafferrabile razionalmente". Gardella, che non ha gli strumenti concettuali di Rogers, non sa definire questo qualcosa in più, o non vuole, ma dalla descrizione del suo lavoro si capisce che questo qualcosa in più è la spinta iniziale, il movente del progetto che mette in moto la ragione. Pensate al progetto per la torre di piazza del Duomo del '34. La spinta iniziale del progetto non viene certo dalla razionalità della struttura, che pure è importante ma che viene dopo, ma dalla volontà di salire in alto, di far salire i cittadini, per vedere dall'alto, dall'altezza della Madonnina, l'intera città di Milano. Questo è il programma che l'architetto si dà autonomamente e per realizzare questo programma si mette alla ricerca dei modi della costruzione e delle forme che sappiano raccontarlo in tutti i suoi aspetti.

Anche per Rogers, come per Gardella, per Albini, Figini e Pollini, Asnago e Vender, il razionalismo non poteva esaurirsi in un solo linguaggio ma è stato un pensiero che ha indotto la ricerca di un nuovo linguaggio. Tutto questo grazie all'istanza iniziale, una istanza morale legata al desiderio di un mondo migliore.Tutto questo è legato a Milano, città produttiva. E a questo pensiero è legata l'idea di modernità.

 

L'apprendistato

Prima di compiere 18 anni ho visto, e in qualche modo frequentato, tre edifici molto diversi fra loro per me egualmente importanti. Il primo è l'Ospedale del Filarete in via Festa del Perdono che vedevo dal balcone della mia prima casa a Milano. Un edificio enorme rispetto agli altri che più che altro mi incuteva timore. Subito dopo la guerra funzionava ancora come ospedale per cui era inaccessibile. Vedevo dall'alto la successione delle sue corti e, tornando a casa, ero sempre intimorito dalle dimensioni del lunghissimo porticato sulla strada. Un sentimento di timore che si confondeva con un sentimento di rispetto dovuto alle dimensioni dell'edificio e, certamente, alla sua destinazione. Il secondo edificio l'ho visto costruire con i miei occhi, e ho anche incontrato l'architetto che ne era l'autore, quando avevo 14 anni, un'età in cui si pensa a cosa fare da grandi. Era il complesso Palmolive, progettato da Luigi Moretti in corso Italia e costruito da mio padre. Mi ricordo che quel che mi colpiva durante le visite settimanali con mio padre e con Moretti alla domenica mattina, era la costruzione. Il cantiere era quello di un intero isolato formato da cinque edifici di cui due molto alti e altri tre verso corso Italia più bassi, della stessa altezza di quelli esistenti. Uno di questi tre, appoggiato con un forte sbalzo su un edificio a ponte, ha reso celebre in tutto il mondo questo progetto. Anche in questo caso si tratta di un complesso di grandi dimensioni, della costruzione di un intero isolato urbano come un'unica architettura. Io non ero in grado allora di capire la ricchezza di quell'architettura ma ricordo i grandi problemi che dava la costruzione. Ricordo i casseri in legno che salivano piano dopo piano, domenica dopo domenica. In cantiere c'era un modello del progetto che mi affascinava almeno quanto quell'intricato intreccio di armature in ferro. Credo di aver scelto di fare l'architetto durante quell'esperienza. Il terzo edificio costruito poco più tardi è la Torre Velasca che ho visto liberata dai ponteggi nel 1958, lo stesso anno in cui è uscito il libro di Rogers Esperienza dell'architettura. La Torre Velasca è un altro edificio notevole per le dimensioni oltre che per la struttura, opera di Arturo Danusso: un bravo ingegnere e un bravo professore di Scienza delle Costruzioni al Politecnico di Milano. Tre edifici vicini fra loro, paragonabili per le dimensioni. Tre giganti che ancora oggi definiscono il carattere di una parte di Milano. I tre edifici sono costruiti in una zona della città molto vicina al Duomo, una zona che faccio sempre visitare agli ospiti stranieri quando voglio spiegare loro Milano.

All'inizio di corso di Porta Romana vi sono diversi punti di vista dell'Ospedale del Filarete e della Torre Velasca ai quali dà la misura il confronto con un edificio rinascimentale, la Cappella Trivulzio, costruito dal Bramantino nel Cinquecento circa. Un'opera di straordinarie misure, che fa da atrio alla chiesa romanica di San Nazaro. Cito questo edificio perché il suo rapporto con la Torre Velasca, ma anche con l'Ospedale del Filarete, ci fa capire l'importanza delle dimensioni in architettura. Aldo Rossi negli anni Ottanta guardando le operazioni di montaggio della grande copertura in acciaio dello stadio Meazza progettata da Leo Finzi, un altro ingegnere del Politecnico, mi diceva che "tutte le opere molto grandi sono belle". Naturalmente non è così ma io so che Aldo pensava al Duomo di Milano, alla magnificenza della sua mole che produce un sentimento di orgoglio, un sentimento di appartenenza a una comunità che il Duomo rende riconoscibile. Nei giorni di festa la piazza si riempie di gente che cerca in quell'edificio un attestato di cittadinanza.

"A Milano la costruzione più tipica è il Duomo. Sembra il giudizio di uno scolaro o l'inizio di una guida della città scritta nel modo più didascalico o ingenuo possibile e forse lo è. Ma mi riferisco al Duomo come quel suo essere fabbrica di se stesso. Un'opera che nei secoli insegue la sua immagine e la cui bellezza possiamo cogliere proprio in questa continuità, sovrapposizione, costruzione e scempio di tipologie e di pietre, insieme di decisioni diverse e contrapposte." Aldo Rossi, Quaderni azzurri.

Credo che alla base di tutti e tre gli edifici di cui ho parlato ci sia un sentimento di orgoglio civile e che in fondo sia un sentimento presente nel lavoro di molti bravi architetti milanesi, un sentimento che dà la spinta iniziale a un progetto, la spinta necessaria a renderlo autentico, fondato su un'aspirazione autentica, necessaria a renderlo moderno. Rossi parlando di grandi dimensioni pensava allo stadio, un luogo di incontro di migliaia di persone, un luogo collettivo nelle cui forme si legge la sua finalità. Diceva che gli piaceva vedere la folla salire lungo le rampe che avvolgono i torrioni sui quali appoggia la grande copertura metallica. Penso che tutti provino lo stesso sentimento di festa, un sentimento provocato da un grande edificio collettivo.

 

L'idea di modernità

Ho voluto ricordare questa mia esperienza perché ha certamente influito sulla mia formazione ma anche per introdurre il concetto di modernità, così importante a Milano negli anni del mio apprendistato. Tutti e tre gli edifici che ho incontrato nel mio periodo di apprendistato si possono considerare moderni. Il più moderno è stato certamente l'Ospedale del Filarete: Filarete voleva costruire l'ospedale del suo tempo. È questa volontà innovativa che dà la spinta necessaria a costruire l'architettura. Negli anni Cinquanta e Sessanta a Milano era del tutto scontato che il primo obiettivo di un bravo architetto dovesse essere quello di costruire un'architettura moderna, intesa semplicemente come l'architettura del tempo in cui viviamo. Era una specie di impegno morale che legava il progetto alla cultura di un certo periodo. Anche l'isolato di Moretti in corso Italia è un esempio di architettura moderna. La sua modernità, ancora una volta, non consiste tanto nel linguaggio ma nell'impianto degli edifici e nelle loro relazioni, nella costruzione dello spazio interno all'isolato, aperto verso strada. Sulla modernità della Torre Velasca si è molto discusso a partire dall'accusa di tradimento lanciata nel famoso Ciam di Otterlo del 1959. Non voglio entrare in questa discussione che ci porterebbe fuori strada. Ho citato la Torre Velasca come terzo edificio della mia formazione perché da quella torre ho imparato due cose: la prima è il ruolo espressivo della costruzione, la costruzione intesa come lo scheletro dell'edificio, che nella Torre Velasca non solo non viene nascosto ma gli si affida un ruolo primario, espressivo, appunto del significato dell'edificio. La seconda è la trasmissibilità del linguaggio, in un certo periodo e all'interno di una certa cultura del progetto. Il tema della costruzione è il tema di quel tempo e non solo a Milano. La Torre Velasca dà una risposta architettonica e non solo tecnica a quel tema. A proposito del linguaggio ho raccolto la confessione di Gardella che mi ha detto che avrebbe voluto esser lui l'autore della Torre e che l'avrebbe voluta fare proprio come l'hanno fatta i BBPR: questo per dire che quel linguaggio apparteneva a un gruppo più largo di architetti a Milano, era un linguaggio condiviso. Intendo dire che il concetto di modernità a Milano è sempre stato declinato in rapporto all'obiettivo generale di un progetto di architettura. Non sono mai esistite per gli architetti milanesi forme moderne, non hanno mai pensato - almeno gli architetti che sempre mi piace citare - di fare un edificio in forme moderne ma hanno sempre cercato di fare edifici moderni, moderni di concezione prima che di forma. Credo che non ci sia rapporto fra l'idea di modernità e una determinata epoca. Credo che la modernità sia propria di tutte le epoche della storia. Come diceva Gardella: "anche gli antichi erano moderni".

 

Aldo Rossi

Ho parlato del rapporto con la realtà, della razionalità del pensiero e della modernità come tre pilastri della cultura architettonica a Milano nella seconda metà del Novecento. Dopo Albini e Gardella, che hanno tenuto insieme questi tre aspetti del progetto con la naturalezza propria della tradizione, è certamente Aldo Rossi che ha dato un corpo teorico a questa convergenza di temi. La scuola di Aldo Rossi - la si può chiamare così - è stata la chiave necessaria per stabilire un rapporto chiaro e felice con Milano. Se ci penso oggi, a cinquant'anni di distanza, le passeggiate fatte insieme a Rossi a Milano, e il suo modo sempre imprevedibile di parlare degli edifici che si fermava a guardare, sono state vere lezioni di architettura. La differenza con il giudizio che convenzionalmente si dava di quegli edifici consisteva nel saper escludere tutto ciò che gli sembrava secondario e cogliere il nucleo concettuale di ognuno di essi. Quel che Aldo Rossi sapeva fare era riconoscere quel nucleo e farlo riconoscere a tutti coloro che lo ascoltavano. Ho capito più tardi che questo procedimento di astrazione, che Rossi metteva in atto osservando un edificio, era lo stesso che usava nei suoi progetti. I modi di osservazione della realtà esistente erano gli stessi che usava per progettare la realtà nuova, mettendone in opera i significati più profondi.

Aldo Rossi ha proposto una nuova versione del razionalismo. Gli ha dato addirittura un nome, lo ha chiamato razionalismo esaltato mettendo insieme due termini, razionalismo e esaltazione, apparentemente antitetici, che in realtà antitetici non sono nel senso che il razionalismo esaltato è quel procedimento che esalta, che mette in luce il nucleo concettuale di un'opera. La coniugazione dei due termini stabilisce che il razionalismo non è uno solo ma può assumere aspetti diversi. Per Aldo Rossi esiste un razionalismo convenzionale che è quello del pensiero logico-deduttivo e un razionalismo esaltato in cui attraverso un procedimento analogico viene esaltato un aspetto del reale. Anche di Rossi voglio citare un edificio milanese ormai famoso in tutto il mondo, l'edificio al quartiere Gallaratese progettato con Aymonino. Anche questo è un edificio lunghissimo, più lungo di ogni normale edificio di abitazione. Questa sua smisurata lunghezza vuole esaltare l'elemento su cui si costruisce, il ballatoio: un lungo ballatoio di distribuzione degli alloggi, che ne rende immediatamente riconoscibile il carattere.

Tra le tante costruzioni a Milano da cui ho imparato qualcosa, quelle di cui ho parlato qui sono sempre presenti davanti ai miei occhi quando lavoro e in qualche modo mi lascio influenzare da queste: non tanto dalle forme ma dal modo in cui sono state generate. Ho pensato che forse avrei potuto continuare la ricerca, più o meno nello stesso modo.

Antonio Monestiroli

 

 

NdC - Antonio Monestiroli, architetto, è stato professore ordinario di Composizione architettonica, direttore del Dipartimento di Progettazione dell'Architettura (dal 1988 al 1994) e preside della Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano (dal 2000 al 2008). Ha insegnato anche alla Facoltà di Architettura di Pescara, allo IUAV di Venezia e, come visiting professor, alla Syracuse University di New York e alla Delft University of Techology.

Tra le sue pubblicazioni: Realtà e storia dell'architettura. Note per una teoria della progettazione architettonica (Milano: Clup, 1977); L'architettura della realtà (Milano: Clup, 1979, 1985; ed. in lingua spagnola: Barcellona: Ed. del Serbal, 1993; Torino: Allemandi, 1999, 2004); L. Hilberseimer, Mies van der Rohe (cura dell'edizione italiana, Milano: Clup, 1984; Città Studi, 1993); L'architettura secondo Gardella (Roma-Bari: Laterza, 1997, 1998, 2006; Santarcangelo di Romagna: Maggioli, 2010); La metopa e il triglifo. Nove lezioni di architettura (Roma-Bari: Laterza, 2002, 2006, 2010; ed. in lingua inglese: Amsterdam: Sun, 2005); Lo stupore delle cose elementari (Bologna: Ogni uomo è tutti gli uomini, 2007); Ernesto Nathan Rogers. L'architettura come esperienza (Bologna: Ogni uomo è tutti gli uomini, 2009); Ignazio Gardella (Milano: Electa, 2009); La forma rispondente. Lezione breve di architettura (Bologna: Ogni uomo e tutti gli uomini, 2010); La ragione degli edifici. La scuola di Milano e oltre (Milano: Marinotti, 2010); (a cura di) con Luciano Semerani, La casa. Le forme dello stare (Milano: Skira, 2011); Il razionalismo esaltato di Aldo Rossi (Bologna: Ogni uomo è tutti gli uomini, 2012); In compagnia di Palladio (Siracusa: LetteraVentidue, 2013); La scuola di Mies van der Rohe. I tre livelli della conoscenza (Bologna: Ogni uomo è tutti gli uomini edizioni, 2013); Il mondo di Aldo Rossi (Siracusa: LetteraVentidue, 2015).

Sulla sua opera architettonica: Antonio Monestiroli. Progetti 1967-1987, (Roma: AAM, Architettura Arte Moderna - Kappa, 1988); M. Ferrari (a cura di), Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura (Milano: Electa, 2001, 2007); M. Ferrari (a cura di), Il cimitero maggiore di Voghera (Milano: F. Motta, 2004); M. Ferrari et al. (a cura di), Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura (Padova: Il Poligrafo, 2012); F. Visconti, R. Capozzi (a cura di), Saper credere in architettura. Trentatre domande a Antonio Monestiroli (Napoli : Clean, 2014)

Lo scritto pubblicato sopra è il testo di una conferenza tenuta a Milano il 28 gennaio 2015 a Casabella Laboratorio. Titolo originale: Cosa ho imparato da Milano. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

05 LUGLIO 2016

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri

- 2016: programma /presentazione

- 2015: programma /presentazione

- 2014: programma /presentazione

- 2013: programma /presentazione

 

Interventi, commenti, letture

- F. Ventura, Urbanistica: né etica, né diritto, commento a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- G. Ottolini, Arte e spazio pubblico, commento a: A. Pioselli, L'arte nello spazio pubblico (Johan & Levi, 2015)

- G. Laino, Se tutto è gentrification, comprendiamo poco, commento a: G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (il Mulino, 2015)

- F. Gastaldi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, recensione del libro di G. Semi (il Mulino, 2015)

- G. Consonni, Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante, commento a G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

- V. Gregotti, Bernardo Secchi: il pensiero e l'opera

- R. Pavia, Il suolo come infrastruttura ambientale. Commento a: A. Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (FrancoAngeli, 2015)

- G. Tagliaventi, L'arte della città 100 anni dopo. Commento a: R. Milani, L'arte della città (il Mulino, 2015)

- A. Villani, Disegnare, prevedere, organizzare le città…, Commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- R. Milani, Per capire bisogna toccare, odorare, vedere... , Commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- M. Ponti, Il paradiso è davvero senza automobili? Commento a: A. Donati e F. Petracchini, Muoversi in città (Ed. Ambiente, 2015)

- S. Brenna, La strana disfatta dell'urbanistica pubblica. Note sullo stato della pianificazione italiana

- F. Ventura, Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito

- G. Tonon, Città e urbanistica: un grande fallimento, intervento all'incontro con P. Berdini del 18 maggio 2015

- R. Mascarucci, A favore dell'urbanistica, commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- P.Colarossi, Fare piazze, commento a: M. Romano, La piazza europea (Marsilio 2015)

- J.Gardella, Mezzo secolo di architettura e urbanistica, dialogo immaginario sulla mostra "Comunità Italia", Triennale di Milano, 2015-16

- G.Pasqui, Pensare e fare Urbanistica oggi, recensione a A.Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (Franco Angeli, 2015)

- L.Colombo, Urbanistica e beni culturali, Riflessione a partire da La Cecla, Moroni e Montanari

- L.Meneghetti, Casa, lavoro, cittadinanza. Seconda parte

- F.Ventura, Urbanistica: tecnica o politica?, commento a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- P.C.Palermo, Per un'urbanistica che non sia un simulacro, commento a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- S.Moroni, Governo del territorio e cittadinanza, commento a L.Mazza, Spazio e cittadinanza.(Donzelli, 2015)

- P.Berdini, Quali regole per la bellezza della città?, commento a S.Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- R.Riboldazzi, Perchè essere 'pro' e non 'contro' l'Urbanistica, commento a F.La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- P. Maddalena, Addio regole. E addio diritti e bellezza delle città, prefazione a: P. Berdini, Le città fallite (Donzelli, 2014)

- S. Settis, Beni comuni fra diritto alla città e azione popolare, introduzione a: P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Casa, lavoro cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane

- M. Romano, Urbanistica: 'ingiustificata protervia', recensione a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- P. Pileri, Laudato si': una sfida (anche) per l'urbanistica, commento all'enciclica di Papa Francesco (2015)

- P. Maddalena, La bellezza della casa comune, bene supremo. Commento alla Laudato si' di Papa Francesco (2015)

- S. Settis, Cieca invettiva o manifesto per una nuova urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- V. Gregotti, Città/cittadinanza: binomio inscindibile, Recensione a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- F. Indovina, Si può essere 'contro' l'urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- R. Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall'uomo (e dai suoi rifiuti)? Recensione a: R. Pavia, Il passo della città (Donzelli 2015)

- R. Riboldazzi, Suolo: tanti buoni motivi per preservarlo, recensione a: P. Pileri, Che cosa c'è sotto (Altreconomia, 2015)

- L. Mazza, intervento all'incontro con P. Maddalena su Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Dov'è la bellezza di Milano? , commento sui temi dell'incontro con P. Berdini su Le città fallite(Donzelli, 2014)

- J. Muzio, intervento all'incontro con T. Montanari su Le pietre e il popolo(mimum fax, 2013)

- P. Panza, segnalazione (sul Corriere della Sera dell'11.05.2014)