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Quando Renzo Riboldazzi mi ha suggerito di scrivere una recensione al libro di Arturo Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (FrancoAngeli, 2015), sapeva benissimo che sulle sue premesse teoriche - tutta la prima parte - non ero per niente d'accordo, ma mi ha costretto ad argomentare il mio dissenso in modo più esaustivo riprendendo molti dei temi sviluppati nei miei libri degli ultimi trent'anni, e dandogli questo titolo sintetico che, ne sono certo, sarebbe stato condiviso da Karl Popper. Ma occorre prima di tutto mettersi bene in testa quanto tutti quegli storici che sono andati immergendosi nel vivo della società europea a partire da dieci secoli or sono - da Le Goff a Edith Ennen a Roberto Sabatino Lopez - hanno rilevato, come cioè gli stati d'animo pervasivi dei cittadini delle città europee di allora sono i medesimi di oggi - se appena prescindiamo da ovvie differenze nel concreto della loro sfera strumentale - e medesimi sono i conflitti generati da quegli stessi stati d'animo: a questa letteratura farò soltanto qualche riferimento per rendere più vivace questa recensione.
La città nata nel Mille è nata sotto l'insegna della libertà, l'aria della città rende liberi, e la libertà del cittadino consisterà nella libertà del desiderio: se fino all'anno Mille esistevano specifiche e separate sfere di comportamento corrispondenti ai tre gruppi sociali nei quali i fedeli erano chiamati a conquistare la vita eterna - i guerrieri, i religiosi, i contadini - ora tutti i cittadini dei liberi comuni hanno legittimamente accesso a tutta la più ampia gamma del desiderio. La libertà del desiderio ha cancellato l'ambito ristretto del bisogno, e ciascun cittadino mostra la consapevolezza della propria identità nella sfera del superfluo sovrimpressa a quella del necessario fin quasi a nasconderla: come constaterà re Lear redarguendo Regana che gli contestava il suo bisogno di una corte di cento cavalieri: "Non metterlo in discussione, il bisogno. Anche i poveri più poveri hanno qualche povera cosa di superfluo. Se alla natura non concedi qualcosa che ecceda il suo bisogno naturale, l'uomo si ridurrà come una bestia". Nell'IX secolo il canonico Liprando - che pure era un sostenitore della Pataria - rimprovererà aspramente il nuovo arcivescovo di Milano per la modestia del suo comportamento pubblico: "Questa città per suo costume fa uso di pellicce di scoiattolo e di martora, di altri preziosi ornamenti e di vivande delicate. Sarebbe quindi per noi disonorevole se gli stranieri e i pellegrini ti vedessero in mezzo a noi irsuto e mal vestito". Il desiderio di mostrare la propria identità appartenendo a un gruppo connotato dai medesimi abiti sarà all'origine del nostro spettacoloso progresso tecnico, perché i mercanti di tutta Europa cercheranno dovunque le lane e il lino tessuti poi nelle case e negli atelier artigiani, con telai sempre più sofisticati, per provvedere a soddisfare questo desiderio: e Bordeaux camperà commerciando nelle Fiandre l'indaco provenzale. E la rivoluzione industriale consisterà poi nella produzione su larga scala della cotonina, come osserverà acutamente alla metà dell'Ottocento Jules Michelet: "La grande e capitale rivoluzione è stata la cotonina stampata all'indiana. È stato necessario lo sforzo combinato della scienza e dell'arte per forzare un tessuto ribelle, ingrato, il cotone, a subire ogni giorno così tante trasformazioni brillanti, poi così trasformate mettendole a disposizione dei poveri. Tutte le donne indossavano un tempo una veste bleu o nera che portavano per dieci anni senza lavarla, nel timore che se ne andasse in brandelli. Oggi suo marito, un povero operaio, al prezzo di una giornata di lavoro, la copre di una veste fiorita. Tutto questo popolo di donne che presenta sulle nostre passeggiate un emozionante sfolgorio di mille colori". Quanto ai cibi sofisticati Bonvesin de la Riva elencherà orgoglioso la straordinaria disponibilità degli alimenti nel mercato di Milano, comprese qualche ricetta con quel pepe che, adottato a man salva dalle donne di casa in tutta Europa, farà la fortuna di Venezia - che lo importerà dai paesi arabi - e poi di Vasco de Gama e della Compagnia delle Indie Olandesi con tutte le loro sofisticate tecniche di vele e cannoni. La democrazia della società comunale dell'anno Mille non consiste tanto nelle sue procedure formali - alla assemblee civiche era già tanto partecipasse il 15% degli aventi diritto e oggi va poco meglio - ma nel fatto che vi maturano progressivamente desideri così diffusi da costringere i maggiorenti a fare il possibile per esaudirli, con le spedizioni oceaniche per provvedere di pepe le donne nel dominio della cucina e con le piantagioni di cotone in India o in Egitto per soddisfare il loro desiderio di apparire eleganti nelle strade cittadine.
Il possesso della casa era la condizione essenziale per essere cittadini, ma poi il sentimento della propria identità era affidato al superfluo, alla sua decorazione esteriore, dove ciascuno - come osserva Filarete - era in grado di esprimerla. "La testa dell'uomo, o vuoi dire la faccia, è quella che ha in sé la bellezza principale e per la quale si conosce ciascheduno. Tu non vedesti mai edificio o casa d'abitazione che totalmente fosse l'una come l'altra, né in similitudine, né in forma né in bellezza: chi è grande, chi è piccolo, chi è mezzano, chi è bello e chi è men bello, chi è brutto e chi è bruttissimo". È Dio stesso che ha voluto ciò: "Iddio, che l'uomo come che in forma fece a sua similitudine, così e partecipasse in fare qualche cosa in sua similitudine mediante l'intelletto gli concesse. E quando si crede di vedere case uguali, a guardar bene sono invece tra loro differenti: anche se si volesse fare molte case che si assomigliassero in una forma e in una similitudine, non mai farebbe che fosse l'una come l'altra". L'affresco del Buongoverno a Siena è troppo noto per sottolineare qui lo sfolgorio delle case dei maggiorenti, ma spesso non facciamo attenzione al decoro della casa più povera e meno ancora al volto delle ragazza alla finestra, così agghindata e tutta intenta ad ammirare lo sfolgorio degli abiti in un corteo di nozze. Era poi radicata fin dai primi secoli la consuetudine, anche dei più modesti artigiani, di procurarsi una piccola casa in campagna con un suo podere, talvolta davvero per coltivarlo e coglierne quotidianamente i frutti e comunque per godersi i giorni di festa. E le pacifiche schiere delle case lungo le strade erano poi la solida metafora delle schiere armate dei loro cittadini pronti a scendere in campo per difendere la loro civitas: perché la libertà della città era fondata sulla sua giurisdizione, strappata da quella dell'impero con qualche battaglia, come a Legnano o a Courtrai, o comunque acquisita di fatto dopo qualche tempo, come giusto al tempo della pace di Costanza riconosceva a Bologna il giurista Azzone, "è evidente che oggi qualsiasi sovrano detiene sul proprio regno un potere pari a quello dell'imperatore e che nella sua città qualsiasi magistrato ha il potere di stabilire un nuovo diritto". Durante questi dieci secoli, questa libertà verrà quotidianamente insidiata dai suoi nemici, nemici ricorrenti nelle più diverse forme ma ogni volta riconoscibili nel loro pervasivo ripresentarsi: e senza ripercorrerne qui le vicende secolari, nel campo della libertà alimentare e in quella del vestiario la riconosciamo oggi ancora una volta nel disprezzo per l'impeto del desiderio con il rimando alla curiosa idea di derubricare la secolare virtù del desiderio a un deprecabile "consumismo": e per fortuna gli immensi supermercati e i fantasiosi outlet che nelle campagne hanno riproposto la gloria delle fiere dello Champagne sono lì ancora a mostrare la secolare vitalità del desiderio - siete già stati ad Arese? - sulla quale campa ancora oggi la nostra vitalità e che consente di sperperare il pubblico denaro negli emolumenti di categorie sociali di dubbia utilità come gli ingrati professori di urbanistica e i vati della decrescita.
Quanto più specificamente concerne la libertà di costruire, anche qui possiamo rintracciare il continuo riemergere del tentativo di limitarla, sempre lo stesso pur nelle forme e nelle argomentazioni ricorrenti nel mutare del clima culturale. Il possesso della casa è la manifestazione del proprio individuale e compiuto riconoscimento di quella libertà promessa dalla città, ma spesso i suoi cittadini non intendono spartire questo loro privilegio temendo che i nuovi venuti sconvolgano le consolidate gerarchie locali, e per impedire a chi volesse diventare un nuovo cittadino di costruirsi una casa verrà fatto mancare, semplice espediente, il terreno edificabile entro le mura, terreno in larga misura proprietà di quelle medesime famiglie, selezionando in questa maniera i nuovi arrivati - spesso più o meno il 50% degli abitanti di una città non erano nati lì, la crisi demografica non è nata oggi - tra quanti potevano permettersi di affrontarne la spesa. Rimedio a questo artificio sarà per molti aspiranti cittadini l'adattarsi a costruire una casa nei sobborghi fuori delle mura, lungo le strade di accesso alle porte principali, che non faceva di voi un cittadino a tutti gli effetti ma vi metteva nella condizione di esercitare i medesimi mestieri degli artigiani di città senza sottostare alle regole delle rispettive corporazioni, intorno a una locanda dove qualche mercante di passo preferiva offrire lì le proprie merci evitando il dazio, sicché poi in tutta Europa le mura delle città più prosperose dovranno venire ampliate per inglobare questi sobborghi nella cittadinanza riconosciuta.
Così, quando gli storici di una città europea vi racconteranno delle sue successive cerchie di mura siete subito in grado di intravedere la traccia dei quartieri così accorpati, spesso ancora oggi clamorosamente distinguibili come a Milano il quartiere fuori porta Ticinese con la chiesa domenicana di Sant'Eustorgio. Ma non tutti saranno d'accordo su questa strategia repressiva: a Firenze, alla fine del Duecento il governo della città passerà nelle mani del nuovo ceto dei mercanti - "la gente nova e i subiti guadagni" così invisa a Dante - convinti che i nuovi cittadini e le loro capacità professionali avrebbero rappresentato comunque un arricchimento della civitas nel suo complesso, e chiederanno ad Arnolfo di Cambio un piano regolatore che facesse una città cinque volte più grande, una città che offrirà terreni edificabili sufficienti fino al tardo Ottocento e che rimarrà il tratto fondamentale della sua riconosciuta superiorità estetica - Roma "santa", Napoli "nobile", Venezia "ricca", Genova "superba", Milano "grande", Firenze "bella", riferirà il Magini nel 1620 - tanto che duecentocinquant'anni dopo Cosimo I farà affrescare dal Vasari, sul soffitto del salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, proprio Arnolfo nell'atto di mostrare ai maggiorenti il tracciato delle nuove mura, quelle mura così sgradite alla vocazione conservatrice di Dante
Fiorenza, dentro la cerchia antica,
ond'ella toglie ancora e terza e nona
si stava in pace, sobria e pudica
Che poi non credo saranno molti gli urbanisti contemporanei glorificati da un monumento, come ne esiste uno al Marqués del Campo a Valencia, uno a Charles Buls a Bruxelles, uno a Giuseppe de Nava a Reggio Calabria. A Pistoia sono leggibili le prime successive cerchie di mura, ma agli inizi del Trecento i fiorentini, inclusa la città nel loro dominio, suggeriranno una nuova larga cerchia con il medesimo principio del piano quasi contemporaneo di Arnolfo, sicché anche qui ancora alla metà dell'Ottocento non sarebbero mancati i terreni edificabili al suo interno.
Sullo sfondo di queste restrizioni dell'edificabilità dei suoli vediamo in filigrana il conflitto tra un ceto conservatore, ben rappresentato più tardi, nel Cinquecento, dai sovrani dei nuovi Stati, e un insofferente ceto mercantile che rivendicava anche in questo campo la propria libertà, di fatto con un diffuso abusivismo spesso legalizzato: conflitto sottolineato dall'iterazione periodica dei medesimi vincoli che ne denuncia, come le grida sui bravi ricordate dal Manzoni ne I Promessi Sposi, la sostanziale inefficacia. A Parigi nel 1548 Enrico II proibirà di costruire fuori delle mura palazzine civili con una porte cochére, ma sembra proprio senza molte conseguenze. Così il divieto verrà rinvigorito da Luigi XIII nel 1627, poi nel 1633, poi ancora nel 1638 - quando verranno piantati nuovi cippi - finché nel 1670 Luigi XIV, compilato un consuntivo degli effetti della proibizione del 1638 e constatate 1882 palazzine fuori legge - rinnoverà nel 1674 il divieto piantando altri cippi e promettendo stavolta salate ammende ai trasgressori. D'altra parte, se quel che preme è tener fuori gli aspiranti cittadini non desiderati, le persone abbienti potranno sì costruire ma riscattando la giurisdizione del re, una disposizione poi rinnovata nel 1724 ma senza miglior esito che nei casi precedenti: finché nel 1765, visto che in effetti la città continuava a ingrandirsi e non succedeva nulla, verrà lasciata a tutti la libertà di costruire dovunque. A Londra nel 1580 Elisabetta riterrà che gli immigrati accalcati in una piccola casa o in una sola stanza corrano un grave rischio di mortalità in caso di pestilenza, sicché proibisce di costruire nuove case in un raggio di cinque chilometri dalle porte della città - nel 1592 addirittura dentro alla City e fino a Westminster - e proibisce anche più di una famiglia per casa, ma nel 1583 risulterà che tutti continuavano a costruire e forse ad affollarsi e, come in seguito a Parigi, verrà fatto ricorso a strategie finanziarie, con il decreto del 1588 - rinnovato nel 1592, nel 1602, nel 1603 quando risulteranno 1361 case abusive, poi da Giacomo I nel 1604, nel 1607, nel 1615 - nel quale verrà prescritto che il lotto di una nuova casa non possa essere più piccolo di 4 acri (16.000 metri quadri), e che le nuove case avrebbero potuto sorgere soltanto su vecchie fondazioni, ma pagando una cospicua tassa di 5 sterline: e comunque dal 1628 il re rinuncia a demolirle - ma quando mai? - e ricorre a un radicale condono, beninteso come sempre oneroso, seppure poi se queste ammende siano state davvero incassate la storia non dice. La più fantasiosa restrizione sarà quella di Ginevra che, moralmente obbligata ad accogliere gli ugonotti esuli dalla Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes nel 1685, non chiederà soltanto ai nuovi arrivati di costruirsi una casa in città ma anche una casa in campagna: il desiderio di una casa e di un podere - una capanna e un campo - serpeggia fin dal Mille tra i cittadini delle città, ma in questo caso viene evocato per discriminare i nuovi arrivati secondo il censo. Ma se a Napoli dal 1555 lo sviluppo edilizio era stato contenuto con pene detentive e pecuniarie, e con la minaccia di demolire le fabbriche abusive, quando nel 1560 il viceré proporrà un provvedimento generalizzato analogo a quello di Enrico II, Filippo II lo respingerà per un motivo di principio - non sta al re limitare la libertà dei propri sudditi - e forse per quello pratico di non respingere nelle campagne vagabondi e virtuali briganti.
Spesso per dare ragione a queste restrizioni verrà evocato il timore che avrebbe potuto diventar difficile provvedere al rifornimento quotidiano dei necessari prodotti alimentari di una grande capitale, proprio come in questi ultimi anni una drastica limitazione alla libertà di costruire è stata messa in campo dai reazionari di oggi con il principio di evitare il consumo di suolo, sul cui sfondo vediamo come allora la volontà di impedire ai nuovi arrivati di diventare a pieno titolo cittadini, e questa strategia verrà giustificata ventilando la possibile scarsità di terreno agricolo: proprio come ai tempi di Luigi XIV la medesima rarefazione di terreni edificabili era stata motivata evocando lo spettro di una eventuale scarsità nella capitale di quei prodotti alimentari che costituiscono un altro essenziale campo della libertà del desiderio. Nuovi arrivati che premono e irrompono nelle nostre città, migranti di paesi lontani, cui ancora una volta come nel Duecento noi europei negheremo quella piena cittadinanza che i progressisti nei loro manifesti vorrebbero concedere, facendo drasticamente mancare, nel nome di un astratto principio di contenere il consumo di suolo, la condizione essenziale della cittadinanza nella città europea, il possesso di una casa e la condivisione di quanto resta del fluttuante velo del decoro.
Quanto poi alla libertà espressiva nella facciata della propria casa così sottolineata da Filarete verrà tempo che gli architetti rinascimentali sosterranno che i loro criteri compositivi costituissero la vera essenza della bellezza di una facciata, un rigore compositivo che non dipendeva più dalla ricchezza dei materiali e delle bifore ma dalla sua proporzione, un progetto se volete democratico nella misura in cui metteva alla portata anche del più umile lavoratore il canone di una perfetta bellezza. Solo che se da un lato i criteri della perfetta bellezza erano stati ormai così stabiliti dai canoni rinascimentali e dall'altro la bellezza delle case era anche un termine visibile del decoro dell'intera città, allora sarebbe stato doveroso ridurre tutte le facciate delle case a rispettare quel canone, disponendo al controllo dei loro progetti funzionari municipali e commissioni edilizie: quelle commissioni edilizie che, dopo il dissolversi della certezza di un consolidato e indiscutibile canone della bellezza architettonica nel corso del Novecento, sono ormai organismi senza alcuna base condivisa di giudizio e rispondenti soltanto al ricorrente desiderio di limitare quell'originaria libertà del cittadino.
E di recente circola l'aberrante programma di privilegiare il riuso degli stabili esistenti come se le regole della città fossero quelle della convenienza economica e non quelle della sfera simbolica, dove ogni cittadino non dovrebbe mai venire obbligato ad andare ad abitare in un sito e in un manufatto deciso dagli uffici di Pol Pot ma dovrà essere libero di scegliere il sito e l'aspetto esteriore della casa nella quale ha affidato non tanto le prospettive di propri investimenti ma il sentimento della propria identità, quello che i fautori di questa strategia ignorano: come se le case fossero solo quel riparo dalle intemperie disegnato sulla prima pagina del trattato di Vitruvio e non invece la componente e il presidio essenziale del sentimento di identità di ogni cittadino, della libertà di sentirsi tale. Perché poi in questo programma i processi di partecipazione popolare sembrano più che altro le tecniche descritte da Arthur Koestler in Buio a mezzogiorno, per convincere gli innocenti a confessare la loro colpevolezza, nel nostro caso a convincere chi sarebbe stato felice - come quel 40% degli altri cittadini europei - in una casetta con giardino, a cacciarsi in una fabbrica ristrutturata in un quartiere qualunque, dove magari sarebbe stato invece tutto contento di andare ad abitare un altro cittadino se solo lasciassimo fare a quella pericolosa e millenaria istituzione che chiamiamo mercato. Il seme totalitario non sarà mai spento dal rogo di Savonarola, serpeggerà come un fenomeno carsico, per chi abbia la lucidità di riconoscerlo nelle pieghe dei comportamenti quotidiani dei predicatori contemporanei di una qualche nuova verità. Non vuol dire beninteso che la partecipazione di cittadini già residenti alla riorganizzazione di una piazza o di una strada o di un giardino non sia efficace e benvenuta, nella misura in cui rinsalda la consapevolezza della propria appartenenza a un quartiere.
Cancellato l'intrico delle giurisdizioni radicate fin dai tempi carolingi la convenzione del 1789, in una calda notte d'estate, decreterà che la proprietà individuale di tutti i terreni di Francia fosse inviolabile e libera da ogni vincolo giurisdizionale, e che tutti i loro proprietari potessero costruirvi liberamente senza chiedere alcuna licenza, cancellando nel contempo il fedecommesso dei possessi fondiari dell'aristocrazia e vendendo i vasti domini cittadini del clero. In questo contesto così radicalmente liberale, il solo vincolo ammissibile e d'altra parte necessario alla libera edificazione dei terreni rimarrà quello di assicurare i futuri tracciati stradali, sicché le città più grandi predisporranno piani regolatori estesissimi costituiti da un reticolo di strade e di piazze sui cui allineamenti chiunque avrebbe potuto costruire la propria casa rispettando peraltro le norme edilizie - dove esistevano - sull'altezza massima dei fabbricati stabilita in rapporto alla larghezza degli spazi antistanti, e non a caso la scacchiera estesissima di New York nel 1811 sembrerà ai visitatori il paradigma stesso di una società liberale e Ildefonso Cerdà, che nel 1864 redigeva il piano regolatore di Barcellona, sosteneva che la sua quadrettatura stradale avrebbe dovuto venire estesa a tutta la Spagna. Ogni comune ricorreva, per disegnare il proprio piano regolatore, a sequenze costituite dalle strade e dalle piazze tematizzate - larghe passeggiate, successioni di boulevard, avenue, strade trionfali, square -, quegli addensamenti della volontà e della percezione del decoro cittadino fluttuante sulle città, sulle quali disporre un giardino pubblico (o magari una chiesa come a Lione o a Bruxelles, o il palazzo di un arrondissement come a Parigi e appunto anche a Bruxelles), con un disegno ispirato alle regole dell'arte, di una tradizione estetica continuamente confrontata, nei congressi internazionali dei tecnici comunali, con i piani regolatori delle altre città.
A pagina 76 del suo recente libro Arturo Lanzani ha la cortesia di riconoscere, in una breve nota, a Stefano Moroni e all'autore di questa recensione di essere sostenitori di - sottintese deprecabili - prospettive neoliberiste. Allo stato delle cose sostengo che i piani regolatori redatti fino alla metà del Novecento, con le regole ricordate, consentivano a tutti i cittadini di costruire una casa corrispondente ai propri desideri rispettando le previsioni planimetriche del piano regolatore e i suoi regolamenti edilizi, conseguendo così quel poco di felicità connesso a un alloggio corrispondente al proprio desiderio di identità. Il termine "liberista" non ha nulla a che vedere con questa tradizionale edilizia rigorosamente regolamentata, che è soltanto il modo consolidato con il quale da mille anni la civitas europea ha costruito le proprie ammirevoli città che splendono tuttora come confortanti opere d'arte, espressione della libertà promessa dall'aria della città. La sfera della libertà e del desiderio del decoro è stata per secoli l'esito delle intenzioni dei cittadini, che hanno aggregato spontaneamente le loro botteghe nelle strade e nelle piazze che sembravano più promettenti - strade principali cittadine e strade principali di quartiere, piazze di mercato cittadine e piazze di mercato di quartiere -, hanno aperto i loro laboratori artigiani l'uno accanto all'altro e hanno edificato i loro palazzi a formare il cuore economico e finanziario della città, le loro case dove sembrava loro più conveniente a rappresentare il proprio status, a volte nel cuore di queste strade vivaci nella loro operosità, a volte magari in un quieto quartiere signorile o nelle ville sui nuovi boulevard. Ma tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento prenderà lentamente piede una teoria urbanistica che immaginerà le città come il trionfo dell'utilitas senza più il decoro, un aggregato di zone ciascuna caratterizzata da una propria destinazione d'uso - abitare, lavorare, riprodursi - in un insieme equilibrato e ben connesso: solo che questo principio distruggerà la democrazia originaria dell'urbs europea, perché la città futura non sarà più l'esito della volontà dei suoi singoli cittadini di disporre una casa o una fabbrica o un atelier o un negozio o un ufficio a loro piacimento, dove l'istinto e il desiderio lo suggeriva creando tutti insieme una città davvero organica, ma verrà affidata a un gruppo di esperti che la distenderanno su un tavolo operatorio proprio come Frankestein aveva costruito il suo mostro: il monumento all'urbanista contemporaneo dovrebbe venire eretto a Mary Shelley, la sua inconsapevole annunciatrice.
Se Le Corbusier, il paladino di questa dottrina, aveva invocato per realizzarla l'autorité di Mussolini o di Stalin, sarà poi paradossale che quanti hanno preteso di combattere ogni tentazione totalitaria - gli architetti di sinistra dell'ultimo mezzo secolo - abbiano adottato una procedura e un modello di pianificazione che cancellava i principi e gli esiti della democrazia cittadina: e se si racconta che i coccodrilli piangano dopo avere divorato qualche altro animale, tutti costoro, dopo avere distrutto la libertà dei cittadini progettando quelle periferie che sappiamo, vadano poi a consolarsi di quanto di quella democrazia che hanno distrutto nei suoi stessi principi si è salvato, nei centri storici. La nuova teoria urbanistica implicava poi di per se stessa una dimensione limite, proprio come il corpo umano è per l'appunto riducibile a un aggregato di organi con una propria funzione a costituire poi nell'insieme un organismo complesso ma unitario, implicava una dimensione della città oltre la quale non sarebbe stato congruo costruire: una teoria adottata qui in Italia, con una legge del 1942, che rinnovava, dopo la parentesi liberale, i vincoli non aedificandi del Seicento e del Settecento, con il sottinteso di porre così quel limite all'immigrazione dalle campagne che figurava tra i principi del programma sociale del fascismo. Questa legge ha demolito d'un tratto quelle libertà giurisdizionali sul proprio territorio conquistate dalle città nel corso di dieci secoli, quelle libertà riconosciute a suo tempo da Azzone, e per quanto la radice della libertà sia da secoli nata nella città i governi centrali delle nazioni - che hanno nazionalizzato quel welfare state consapevolmente praticato dalla città fin dai tempi di Ludovico Vives - hanno preteso, fondando questa pretesa sulla legislazione centralizzatrice e autoritaria del fascismo, di fornire direttive omogenee a tutti i comuni d'Italia, avocando così la loro libertà nel nome appunto di una prospettiva profondamente contraria alle libertà alla base della nostra Repubblica. E su per la schiena mi serpeggia un brivido quando mi capita di sentir invocare ancora una volta leggi nazionali che pretendano di regolamentare la libertà di ogni comune di decidere da solo il destino della propria giurisdizione territoriale - invece di chiedere l'abrogazione della legge del 1942 e di quelle del 1968 - e sento clamorosa serpeggiare la medesima necessità di essere consapevoli di queste derive totalitarie che toccano sia il corpo sia l'anima dei liberi cittadini.
Del resto la nostra Costituzione all'articolo 47 recita che "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme e favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione": ne conseguirebbe che limitare la disponibilità dei terreni edificabili sia di fatto contrario alla Costituzione e che l'esercizio della libertà di costruire anche quando manchino le condizioni legali sia legittima, più legittima ancora di quanto lo fosse dal Cinquecento all'Ottocento: e più o meno legalizzato sarà un programma quasi attuato per intero, se oggi l'80% degli italiani (più o meno la medesima percentuale di altri paesi europei) è riuscita a consolidare con la proprietà della casa la propria inviolabile appartenenza giurisdizionale a una qualche città, ha anche mostrato nel suo sito e nel suo aspetto esteriore il sentimento della propria identità appartenendo così a un proprio particolare gruppo di cittadini. E ora - vedi come va il mondo! - è lo schieramento progressista a voler cancellare proprio quello che i suoi stessi antenati avevano voluto allora nella Costituzione, accogliendo invece oggi le supposte istanze degli agricoltori nella versione amabile di Carlin Petrini: ed essendo stato e credendo di essere tuttora socialista l'autore di questo saggio ha una chiara visione di quale sia ora in questo paese e in questo campo - quello della libertà di costruire - lo schieramento conservatore e di fatto reazionario. Così, giorno per giorno e senza neppure qualche autentico libertario a lamentarsene ma con il concorso di un establishment sostanzialmente reazionario, è andata declinando la nostra libertà nelle città, e quel ch'è peggio quanto è comunque riuscito a filtrare da questo apparato repressivo viene considerato da un gruppo sociale un attentato alla bellezza del nostro paese, un gruppo la cui legittimità poggia soltanto sulla propria pretesa di detenere una competenza tanto più rivendicata quanto meno fondata. Ma quale bellezza?
Il libro di Arturo Lanzani è poi permeato da un altro ricorrente refrain, il disastro del nostro paesaggio, del quale non è facile rintracciare un qualche fondamento disciplinare: questa tiritera sul paesaggio degradato è concettualmente insostenibile. Fin dai suoi primi secoli la città europea è un cantiere - sostiene Le Goff - il fervente cantiere di una sperimentazione tecnica a larghissimo spettro, popolato dal giurista intento a stilare gli scenari istituzionali del Comune, dall'architetto alle prese con le volte delle sue cattedrali, dall'intellettuale che insegna a tutti il sillogismo e le altre regole del logos, dal calzolaio e dal sarto curvi sui propri deschetti ma anche dall'operaio dell'atelier, dal falegname, dall'idraulico, dal carpentiere, tutti impegnati in un lavorio inventivo fondato sull'apprezzamento dell'efficienza, immersi nella Weltanschauung della razionalità strumentale dell'homo oeconomicus, in una attività orientata a conseguire uno scopo che il mercato medesimo ha delineato: e dunque il governo stesso delle città verrà affidato alla sfera di questa razionalità economica, alle corporazioni dei mestieri. Ma anche la campagna, quel contado che impegna giusto metà dell'affresco del Buongoverno, è coinvolta nella medesima Weltanschuung: che i contadini seminino sicuri - ammonisce un cartiglio - ché il loro arrivo in città con i loro asini carichi di derrate sarà una festa, in quel Campo di Siena che i maggiorenti negli statuti chiamavano appunto piazza del mercato, e soprattutto il paesaggio dei campi coltivati verrà rappresentato con la medesima gloria delle case cittadine. Come sottolineerà Francesco Petrarca, la gloria del lavoro dei campi è una vera novità, è la gloria del lavoro di uomini liberi e non quello servile dei romani antichi - che neppure la manierata poesia di Tibullo intendeva riscattare - e il suo paesaggio merita tutto il nostro apprezzamento:
Se non sbaglio, passate venti miglia, ti troverai davanti un promontorio - lo chiamano Capo del Monte - che si protrae tra le onde e il porto di Delfino, o come dicono i marinai di Alfino, molto piccolo, ma tranquillo e nascosto tra colli solatii.
Da lì raggiungerai Rapallo e Sestri e il grande porto che reca il nome di Venere, al sicuro da tutti i venti e in grado di ospitare tutte le flotte che ci sono al mondo, vicino a Erice nostra (ce n'è un'altra in Sicilia). Al centro del golfo c'è una rada, adatta alle barche stanche del lungo viaggio.
E tutto questo litorale, coperto di palme e di cedri, tanto avverso a Cerere, quanto caro a Bacco e a Minerva, non è certo inferiore ad alcun luogo sulla terra. E per ciò ancor più mi meraviglio che sia stato trascurato dagli scrittori antichi e soprattutto dai poeti.
Proprio lo stesso paesaggio di Camogli che entusiasmava quattro secoli dopo Montesquieu - Lungo quasi tutta la costa, specie verso Genova, si vedono le montagne coperte di casette, che fanno un bellissimo effetto: e ancora oggi chi sceglie una casa sulla collina di Camogli non sembra così afflitto da vederla affollata di quelle case che dovrebbero degradarla, ché non soltanto l'ha scelta ma è anche confermato nella propria predilezione nel vederla condivisa da altri. Se poi aveste avuto la pazienza di scendere ancora nella penisola avreste incontrato il paesaggio ammirato da Montaigne - Firenze è in una piana circondata da infinite colline assai ben coltivate, bello è invero contemplare l'infinita moltitudine di case che riempiono i colli tutt'in giro per due o tre leghe almeno, e questa piana dove essa s'adagia e che si estende, a occhio e croce per due leghe in lunghezza, giacché par che si tocchino, tanto sono fittamente disseminate - quelle case oggi diventate quasi dovunque per i filistei contemporanei la manifestazione di un irrimediabile degrado del nostro paesaggio. Ecco dunque che il paesaggio non è mai stato un tema di apprezzamento estetico, e quando i pittori francesi sembrano accanirsi nel Seicento e nel Settecento sulle vedute romane rispecchiano soltanto il loro desiderio di cercare temi nuovi - che non saranno soltanto le vedute silvestri, come ha messo in evidenza il recente bel libro di Anna Ottani Cavina - tant'è che quei medesimi paesaggi erano ignorati dai loro contemporanei, che pure a Roma risiedevano mesi.
Che l'apprezzamento della campagna fosse connesso alla percezione della sua fertilità sarà nei viaggiatori stranieri in Italia tema ricorrente, non disgiunto tuttavia dall'apprezzamento per l'affollarsi delle case a punteggiare il territorio che sanno benissimo essere spesso le case di vacanza dei cittadini. Daccapo. La tiritera contemporanea di una certa letteratura italiana sul degrado del paesaggio comporta invece che il paesaggio sia l'esito di un'intenzione estetica, e dunque apprezzabile come tale, ma Benedetto Croce rilevava come il paesaggio non sia certo l'esito di un'intenzione estetica e dunque non possa costituire il campo di un simile apprezzamento. A questa obiezione Rosario Assunto - il più sistematico autore sul tema con i suoi due volumi su L'estetica del paesaggio - in certi lunghi seminari organizzati all'IUAV da Alberta Bianchin replicava sostenendo che se nel pensiero crociano l'estetica è la forma dominante dello spirito allora siamo noi stessi che attribuiamo un significato estetico alle cose del mondo, non necessariamente riconoscendone un'intenzione originaria, sicché è legittimo esaltare lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò declina, oppure anche la dolce Lombardia coi suoi giardini / e il monte Rosa è un grande macigno. In effetti il punto forte di questa argomentazione era la teoria di Edmond Burke, il quale sosteneva che la bellezza di un paesaggio o di un'opera d'arte stesse tutta nell'animo di chi fosse capace di apprezzarla davvero, distinguendo la quieta bellezza classica cui ci hanno abituato da secoli dall'emozionante percezione del sublime: e proprio Rosario Assunto contrapporrà, nel suo libro Il parterre e i ghiacciai, la quieta bellezza della pianura lombarda al paesaggio emozionante delle Alpi: e in effetti tutto il Settecento sarà intriso di questa percezione del sublime che suggerirà ai viaggiatori - una volta soltanto spaventati dalla traversata - la loro emozionante suggestione.
Occorre riconoscere che il seme di questa emozionante scoperta del sublime nel paesaggio selvaggio doveva pur serpeggiare anche prima di Burke, se Isabella d'Este nel 1494, a vent'anni, in visita alla cognata, la duchessa del Montefeltro, che la conduce a Camerino e nei dintorni vedrà "Il Piorico, luogo tanto ameno quanto la natura avesse potuto fare fra due altissimi monti due laghetti con due isolette in mezzo, non si crederebbe mai che fra due asperrimi monti la natura avesse insito un luogo tanto ameno". Non ho mai visto - ahimè - il Pioraco, ma l'immagine che ne ho tratto dalla meritevole Wikipedia mostra piuttosto un paese asserragliato tra le montagne che quel paesaggio aperto delle campagne tanto apprezzato da tutti quegli altri viaggiatori. Questo è lo stato dell'arte, non può esistere un teoria estetica che fondi su solide basi teoriche - cioè razionalmente espresse - l'apprezzamento del paesaggio, ma siamo subito nel campo della percezione soggettiva e dell'espressione di uno stato d'animo, e più precisamente di un punto di vista sul quale fondare la consapevolezza della propria appartenenza a un gruppo: sostanzialmente è quel che sosteneva Spinoza, che a raggruppare gli uomini non è un sentimento di esercizio della razionalità ma soltanto la superstizione - la chiamava lui. Il paesaggio non può costituire lo sfondo di un apprezzamento estetico, è l'espressione visibile dell'ethos di un popolo, e quello della nostra civiltà europea è stato quello di esaltare quel lavoro che ha consentito a tutti i suoi cittadini di perseguire liberamente i propri desideri, e se - seguendo le impressioni di Isabella - qualche suggestivo quadro paesistico dovremmo preservarlo, saranno i cittadini medesimi delle città, a deciderlo, e di certo non imposte dal medesimo ricorrente governo qualche po' dittatoriale assistito dai medesimi esperti all'orizzonte del Platone totalitario. Ma ho già scritto troppo, e se sono per Arturo Lanzani un deprecabile neoliberista, forse Arturo Lanzani è soprattutto un simpatico reazionario, nostalgico di uno Stato autoritario che la Costituzione della nostra Repubblica dovrebbe avere per sempre cancellato.
Marco Romano
NdC - Marco Romano (1934) ha insegnato Estetica della città a Ginevra, Mendrisio e soprattutto allo IUAV di Venezia dove, tra il 1978 e il 1982, ha diretto il Dipartimento di Urbanistica. Tra il 1977 e il 1986 è stato direttore di "Urbanistica" - l'organo ufficiale dell'Istituto Nazionale di Urbanistica di cui è stato segretario - e, nel 1988, direttore scientifico della sezione italiana della XVII Triennale di Milano sul tema: Le città del mondo: il futuro delle metropoli. Ha fatto parte del Consiglio superiore del Ministero dei Beni Culturali e scrive sul "Corriere della Sera".
Tra le sue pubblicazioni: L'urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo: 1942-1980 (Venezia: Marsilio, 1980; 1983; 1986; 1991); Il linguaggio urbanistico. Teoria, piano, città (Firenze: Medicea, 1983); L'estetica della città europea. Forme e immagini (Torino: Einaudi, 1993; 2005); Costruire le città (Milano: Skira, 2004); La città come opera d'arte (Torino: Einaudi, 2008); (a cura di) con Marco Trisciuoglio, Città, casa, paesaggio (Torino: UTET, 2009); (a cura di) Le piazze d'Italia. Dagli archivi storici dei fratelli Alinari (Milano: BPM; Firenze: Alinari 24 ore, 2009); Ascesa e declino della città europea (Milano: Raffaello Cortina, 2010); Liberi di costruire (Torino: Bollati Boringhieri, 2013); La piazza europea (Venezia: Marsilio, 2015). Su quest'ultimo libro leggi il commento di Paolo Colarossi e il commento di Franco Mancuso.
Per "Città Bene Comune", Romano ha tenuto una lectio magistralis su La città come opera d'arte (Casa della Cultura, 27 maggio 2013); è intervento come discussant all'incontro con Stefano Moroni su La città responsabile (19 maggio 2014) e ha pubblicato in questa rubrica: Urbanistica: "ingiustificata protervia" (12 dicembre 2015).
Sul libro di Arturo Lanzani - di cui si è discusso alla Casa della Cultura il 16 maggio 2016 in un incontro a cui sono intervenuti Roberto Camagni, Giuseppe Civati e Anna Marson - si vedano anche anche i commenti di Gabriele Pasqui (Pensare e fare urbanistica, oggi) e Rosario Pavia (Il suolo come infrastruttura ambientale).
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 09 SETTEMBRE 2016 |