Peppino Caldarola  
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ERMANNO REA E IL SUD CHE NON C'È PIÙ


Addio allo scrittore urbano e di fabbrica rimasto fino all'ultimo a sinistra



Peppino Caldarola


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Che cosa ci ha lasciato Ermanno Rea, lo scrittore napoletano scomparso di recente? E' una domanda che potremmo farci per qualunque scrittore e rispondere, genericamente e pigramente, "le sue opere" oppure cercando di consegnare ai suoi vecchi lettori, e a quelli che lo scopriranno, un suo messaggio, una sua filosofia, una visione. Per Ermanno Rea questa seconda strada è sicuramente assai impervia perché ci porta dentro la principale contraddizione italiana. Ovvero, a mio parere, dentro le due gradi contraddizioni che sono alla base, sono le fondamenta, della "questione italiana".

Lo scrivo così, con brutale sintesi. Rea è e racconta un Mezzogiorno che non c'è più ma che è anche un Mezzogiorno diverso da quello rappresentato da tanta letteratura e filmografia. Non in contrapposizione, semplicemente da un'altra angolatura, a mio parere più moderna ovvero più vicina a sognare di veder realizzato l'ingresso del Sud nella modernità. Ma Rea racconta anche la storia, per tanti anni indicibile, del Partito comunista, di quello napoletano, tanto "speciale" nel panorama nazionale, ma anche tanto rappresentativo delle potenzialità umane e politiche e delle miserie burocratiche nonché della ferocia dei rapporti umani.

Non credo vi sia, nessuno si offenda, scrittore meridionale , nostro contemporaneo, con tanta capacità di leggere il mondo che racconta tenendo assieme grandezza e meschinità, appunto "miseria e nobiltà". 

Il Mezzogiorno di Rea è raccontato nel suo tragico epilogo industriale. Rea è un figlio del comunismo napoletano e meridionale (se ne andò nel '56 dal Pci dopo la repressione sovietica della rivolta ungherese) che aveva chiaro in testa che l'industria avrebbe dinamizzato il Mezzogiorno e gli operai lo avrebbero democratizzato. Quegli operai, come ha detto in un bel ricordo Antonio Bassolino, che in sedicimila erano presenti in tutti i quartieri, anche fuori Napoli, che convivevano nei palazzoni con il professore, l'artigiano e tanti di quelli che si arrangiavano. Erano una traccia di vitalità, di futuro e, perché no, di ordine nel caos del Sud, caos che non sempre è stato un disvalore.

Quando chiude la più grande fabbrica, Rea ne racconta "La dismissione" facendo parlare l'operaio Bonocore che si sta trasformando in un tecnico ma sta smontando il vecchio impianto industriale. Nostalgia? Operaismo? Ditelo, se volete. Ma c'è altro, c'è quello che c'è in tutte le storie di Rea: c'è una persona concreta e la sua storia e la sua storia fa parte di una vicenda collettiva.

Rea è scrittore urbano e di fabbrica, diverso dagli scrittori di campagna e di mafie. Sono due Sud, spesso conviventi, a Napoli ad esempio, ma il punto di vista è diverso. Il Sud di Rea, anche quando deve arrendersi, si dà un futuro. Gli altri Sud spesso si arrendono e basta, tranne nelle figure di qualche magistrato eroe, di poliziotti e carabinieri con senso dello Stato.

Si può dire che nel declino assoluto della "questione meridionale", centrale negli anni 70, favorita dalla crescita di una imbarbarita "questione settentrionale", Rea non abbia mai perso di vista i suoi attrezzi intellettuali e politici. Il suo Sud non si lagna, persino a Napoli, anche se vive la sofferenza di un cambiamento che involve in un peggioramento lo logora tutto attorno.

L'altra caratteristica della letteratura di Rea è senza dubbio l'unicità dei suoi personaggi. Abbiamo detto dell'operaio di Bagnoli, ma il centro del suo lavoro è una figura femminile, Francesca Spada, anticonformista giornalista dell'Unità napoletana e tutto intorno a lei altri personaggi, diremmo oggi, fuori dalle righe, dalle righe tracciate da un partito occhiuto.

Ma anche un uomo mite che mitemente ci ha lasciati, come Federico Caffè, incontra lo sguardo di Rea che cerca di raccontarcelo sempre alla maniera di chi parla di personaggi che piegano il proprio lavoro, in questo caso lo studio dell' economia, a vantaggio di comunità più larghe. Le donne e gli uomini di Rea non sono mai appagati, non si fermano in alcun momento, neppure Francesca, protagonista del Mistero Napoletano in cui si racconta la sua vita fino al suicidio e la sua apparizione come fantasma nel romanzo La comunista. Sono personaggi drammaticamente positivi, come il Sud e l'Italia che Rea vuole, ma che un certo punto possono arrendersi, come Francesca e Federico Caffè perché la sofferenza è troppo forte e il mondo tutto attorno si rifiuta di contenere i loro dubbi, la loro vitalità, anche il loro dolore.

Infine c'è il Pci. Dovrei scrivere, il Pci napoletano. Era un partito dominato dalla personalità di Giorgio Amendola. E' curioso che, negli anni successivi, questa componente, ricca di personaggi di primissimo piano, si sia guadagnata la fama di essere "liberal" mentre dove diresse il partito usò sempre il pugno di ferro. Nel partito napoletano poteva capitare al grande matematico, Renato Caccioppoli, al grande medico protagonista de "Il caso Piegari", alla giornalista dell'Unità di essere lentamente sospinti border line fino a farli impazzire ovvero fino a far credere al mondo intero che erano impazziti.

La durezza di quel partito nasceva da tante ragioni, anche di autodifesa estrema da infiltrazioni e attacchi. Nasceva però soprattutto da una doppia concomitante circostanza: l'essere un partito -comunità, l'essere una formazione politica ultra-centralizzata. Molti di noi sono entrati in un Pci in cui le maglie si erano finalmente allargate, scrivo "finalmente" e non scrivo "definitivamente". Ma gli anni di cui parla Rea e i personaggi che mette in primo piano erano donne e uomini che sono andati a sbattere contro il muro di uno stalinismo spietato che non accettava deviazioni. Non accettava deviazioni sul piano dell'analisi politica, il povero Piegari contestava il meridionalismo di Giorgio Amendola e per questo fu tormentato, e non accettava deviazioni sul piano dei comportamenti. La chiusura era simile a quella di una realtà religiosa di tipo catecumenale. Non abbiamo mai capito come avrebbe potuto quel  partito liberare energie positive.

Rea, lo ho già ricordato, dal quel partito se ne andò, assieme a tanti intellettuali, nel momento giusto, in quel '56 ungherese che il gruppo dirigente del Pci, tranne Di Vittorio, considerò una controrivoluzione. Ma Rea rimase a sinistra. E' rimasto fino all'ultimo a sinistra, con la generosa e sfortunata candidatura all'europee per la Liste per Tsipras.

Ho letto che su "Left" è apparsa una sua intervista in cui criticava severamente Renzi per l'idea di partito della Nazione contrapponendogli la necessità di rimetterla insieme questa nazione, Sud con il Nord. L'uomo, il giornalista, l'intellettuale, lo scrittore non ha mai cambiato la sua scelta di vita.

 

 


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15 SETTEMBRE 2016