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Riportiamo uno stralcio del report di Paolo Lago sul seminario che si è svolto a Livorno il 13 marzo scorso. Per la lettura completa dell'articolo rimandiamo a il lavoro culturale
In Occidente – continua Latouche – dopo la caduta del Muro di Berlino non c’è più un secondo e neppure un terzo mondo: è l’epoca della globalizzazione. Non esiste più un’alternativa di sinistra: ci sono due destre e una si chiama sinistra, come nota anche Marco Revelli. Questo processo si verifica quasi in ogni paese europeo: “sinistra” diventa un altro nome della destra (e a quest’affermazione il teatro scoppia in un applauso). Addirittura, in Occidente, si è inventato il termine ossimorico “sviluppo sostenibile”, creato dai peggiori inquinatori e devastatori dell’ambiente.
Non c’è da stupirsi, dice Latouche, perché all’interno della società dello spettacolo vi è solo una battaglia di vuote parole, svuotate di senso e di significato; viviamo in un tempo, d’altronde, in cui quasi si realizza la neolingua preconizzata in forma distopica da George Orwell in 1984: che differenza c’è tra l’affermazione del “Grande Fratello” orwelliano “la guerra è pace” e termini come “guerra giusta” o “guerra pulita”?
Se la nostra società è una società dell’economia e il nostro immaginario, ormai, non è più determinato dalla religione ma dalla stessa economia, mentre le banche si sono sostituite alle chiese nel ruolo dominante all’interno del territorio urbano, oggi più che mai dobbiamo diventare «atei della crescita», «agnostici dello sviluppo».
È di estrema importanza, perciò, decolonizzare il nostro immaginario dall’economia e immaginare un altro mondo, un’altra civiltà dove si può vivere bene con poco senza distruggere il pianeta. Viviamo infatti in una società dello spreco, non certo dell’abbondanza, una società in cui bisogna sempre rinnovare un desiderio di cose nuove, come l’ultimo modello di smartphone o di tablet. Questo è il risultato della colonizzazione dell’immaginario da parte della pubblicità, alfiere del «Grande Fratello» dell’economia.
Come si può, quindi, decolonizzare l’immaginario dalle reti in cui esso è rimasto impigliato? Tutto sta, intanto, a dedicare più tempo all’immaginario stesso: l’antropologo Marshall Sahlins, ad esempio, afferma che l’unica società che può essere definita «di abbondanza» è quella del paleolitico, perché in essa l’uomo aveva pochi bisogni. Poco tempo veniva dedicato ad attività come la caccia e la pesca e molto all’immaginario. Nella nostra società “colonizzata”, invece, siamo dominati dall’idolo del lavoro, secondo lo slogan “lavorare di più per guadagnare di più”. Per dedicarci di più alla “vita contemplativa” e rivestire di nuovo significato ed importanza “conviviale” la sfera dell’immaginario, occorre ridurre drasticamente il tempo dedicato al lavoro, come già aveva mostrato Paul Lafargue nel suo arguto pamphlet Il diritto alla Pigrizia (1881).
È necessario, quindi, riscoprire il valore dell’«abbondanza frugale» che, in questo caso, non è certo un ossimoro: l’abbondanza vera si ha quando possiamo limitare i nostri bisogni. La necessità di porsi dei limiti, del resto, la ritroviamo un po’ in tutte le saggezze: dalla filosofia greca fino al taoismo e al buddismo zen e al buen vivir dei popoli amerindi. La crescita è una piccola parentesi nella storia del pensiero umano.
È estremamente importante uscire da questa dismisura che i Greci chiamavano hybris, cioè una «tracotanza» capace di distruggere lo stesso ethos greco (ovvero la percezione del far parte di una comunità che non ha mai dubitato dei propri fondamenti e valori): nessun rappresentante politico o economico, d’altronde, vuol sentire questo discorso perché esso mette in discussione l’attuale stato di cose. La parola decrescita, perciò, ha un forte valore provocatorio, diventa uno slogan (come Latouche afferma in Uscire dall’economia) «che serve a spezzare il gergo, il rumore dominante dell’ideologia economicista, che è l’ideologia della necessità della crescita».
Nel dibattito che segue l’incontro, infine, mi è sembrata particolarmente interessante una domanda che pone l’attenzione su come si può attuare una politica di decrescita a livello locale. Come si possono affrontare i problemi del futuro come la fine del combustibile o delle risorse? Parole-chiave, dice Latouche, sono «autonomia energetica» e «resilienza»: occorre sviluppare a livello locale le resilienze, cioè le capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici. Non meno importante è l’idea della pedagogia delle catastrofi: una crisi può essere un’opportunità per riacquistare potere.
Il testo integrale su il lavoro culturale © RIPRODUZIONE RISERVATA 02 OTTOBRE 2016 |