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All'indomani del referendum, mentre i partiti si mobilitano in vista di elezioni più o meno prossime o si leccano le ferite, chi da cittadino ha partecipato al dibattito avversando, per ragioni di merito e di metodo, la riforma proposta al voto, ha, credo, il diritto e il dovere di invocare un "cambio di passo".
In primo luogo, si può prendere atto con soddisfazione - dopo due referendum dall'esito analogo (2006 e 2016), e questa volta con una partecipazione molto elevata - che si chiude la lunga stagione dei tentativi di dar vita ad una "grande riforma" della Costituzione, avanzati da varie parti sul presupposto (sbagliato) che la carta del 1948 fosse "vecchia" e perciò superata dai tempi, improntata a troppi poteri di veto e a pochi poteri di decisione, foriera di instabilità politica. La Costituzione è e resta segno di unità, sulla cui salda base può e deve svilupparsi la dialettica democratica per affrontare i veri problemi del paese. Non è tempo di costituenti, che richiederebbero peraltro un clima di concordia oggi ben lontano dal manifestarsi: il che naturalmente non significa che specifiche e puntuali modifiche della Carta non possano essere perseguite, sulla base di un largo consenso.
È tempo di politica, da costruire con pazienza e con coraggio, in un mondo che pone sfide epocali: dalle ineguaglianze crescenti all'interno della società, ai grandi movimenti migratori, alle minacce del fanatismo terrorista, alle crescenti difficoltà di governare un'economia sempre più tecnologica e condizionata da attori inafferrabili e irresponsabili come i "mercati finanziari". Gli strumenti fondamentali a disposizione dei cittadini per "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" sono i partiti (art.49 della Costituzione). Ma se questi si riducono a gruppi di potere o a comitati elettorali al servizio di questo o di quel candidato a cariche pubbliche, il sistema non può funzionare bene. Oggi è forse questo il punto più dolente del nostro sistema.
Sul "mercato" elettorale il consenso viene perseguito per lo più cercando di raccogliere e assecondare umori, rabbie, desideri di rassicurazione che affiorano nella società, anziché cercare di costruire un consenso orientate da idee forti sui fini della politica. In una intervista a Pandora Giuseppe de Rita ha rievocato una discussione degli anni Settanta fra Moro e Andreotti: il primo affermava che la politica dovesse "orientare i processi, accompagnarli verso un fine, dare loro un orientamento, una direzione", dovesse cioè "guidare la società". Il secondo rispondeva che "compito della politica non era quello di orientare la società ma solo di rassomigliarle, perché solo rassomigliandole si prendono i voti". Oggi questa seconda visione sembra prevalere. Ma non è intorno ad essa che si possono motivare le giovani generazioni, per superare il diffuso sentimento di distacco se non di disprezzo per la politica.
È un paradosso che nel recente dibattito referendario, in cui pure tanto spazio hanno trovato dalla parte del No le posizioni "populiste", venissero da parte dei massimi artefici della riforma sollecitazioni della stessa matrice, evidenti già nel titolo volutamente allusivo attribuito alla legge in nome del "taglio delle poltrone" o dei "costi della politica", o del fastidio per le procedure deliberative. Il rifiuto della riforma ha espresso anche un no a questi atteggiamenti, come a una concezione " muscolare" del confronto politico, all'idea che la competizione politica sia esclusivamente scontro, in cui l'importante è che "uno vinca", anche se non rappresenta la maggioranza del Paese.
In nome della Costituzione, segno di unità, può svilupparsi invece la ricerca paziente, dal basso, di una politica meno arrogante, meno sicura di sé, più "umile", anche più orientata alla ricerca dell'incontro al di là dello scontro, della convergenza possibile al di là della contrapposizione; più capace, anche per questo, di parlare il linguaggio della verità, magari scomoda, dell'unità e della solidarietà. Una politica che guardi avanti e in alto, pur mantenendo i piedi bene per terra e individuando i passi che si possono fare ogni giorno. Di una politica così ha bisogno l'Italia, e ha bisogno l'Europa, la cui unità, come intuita e perseguita dai fondatori, non cessa di rappresentare un obiettivo da costruire, senza cedimenti alle risorgenti tentazioni nazionaliste o particolaristiche. Chi sa che le tante iniziative giovanili e di base, che in questa campagna referendaria hanno trovato espressione e luogo per svilupparsi e sono state utili strumenti di informazione e di riflessione, non possano costituire l'humus capace di alimentare nuovi modi di costruire politica. Questa sarebbe la strada vera per uscire dalla "palude" in cui si dice che siamo invischiati.
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 14 dicembre 2016 con il titolo La strada per uscire dalla palude
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 DICEMBRE 2016 |