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IL NUOVO UMANESIMO DI TZVETAN TORODOV


La passione civile e il pensiero critico






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Vorrei ragionare sul Todorov che ho personalmente conosciuto e sull'importanza della sua elaborazione per la nostra attività in Casa della Cultura: un autore che ha interagito e - mi sento in dovere di aggiungere - ha profondamente influenzato la nostra attività, forse più di ogni altro. Due volte nostro ospite (per discutere il film "Izkor, la memoria ostinata" di Eyal Sivan e per discutere di "Incontro delle culture"). Volevamo invitarlo anche per il nostro Settantesimo: non stava bene: avremmo dovuto risentirci. Notiamo bene, però: quando, in occasione del nostro Settantesimo, abbiamo cercato di sintetizzare la nostra proposta culturale abbiamo usato e messo in circolazione l'espressione: umanesimo illuminista, un'espressione che abbiamo ripreso di peso da uno scritto di Antonio Banfi, ma era assolutamente evidente che questa espressione poteva rimandare anche ai testi e al pensiero di Tzvetan Todorov.

Proviamo a mettere a fuoco la sua figura, innanzitutto: un bulgaro che sceglie da giovane di emigrare in Francia. Si tratta di un dato biografico che segnerà profondamente il suo percorso culturale. Dalla sua esperienza di vita sviluppa una critica serrata del "socialismo reale" che riconduce dentro la categoria del "totalitarismo" (le sue critiche radicali riguardano l'incertezza del diritto, l'insicurezza della vita dei cittadini, l'arbitrio del potere ). Fin qui nulla di originale: è il percorso di tanti. La sua particolarità sta nel fatto che non dimentica mai di sviluppare una critica altrettanto puntuale del fascismo (ecco il suo ragionamento a tutto campo sul totalitarismo come grande male del XX° secolo) e soprattutto che sa adottare uno sguardo critico anche sulle società europee e occidentali, quelle società uscite vincenti e trionfanti dallo scontro che ha segnato larga parte del secolo scorso.

Da qui un suo percorso particolare, assai originale, talmente originale da essere difficilmente definibile. Cos'è stato Todorov? Un filosofo? Non direi: nella sua produzione non vi nessuna sistematicità. Uno storico? Magari uno storico delle idee? Forse, ma neppure: non si confronta con altre teorie e neppure traccia nessuna storia delle idee. Forse avremmo potuto definirlo un "moralista", come i "moralisti" del Seicento, ma anche questa definizione è impropria, in primis perché risulterebbe incomprensibile e soprattutto perché in Todorov non c'è nessuna traccia della patina di conservatorismo dei "moralisti". Alla fine, per trovare un titolo per l'incontro promosso in Casa della Cultura, sono riuscito solo a definirlo: umanista. Definizione vaga, del tutto desueta, ma indiscutibile, perché al centro di tutta la sua attività sta proprio la ricerca attorno alla natura, all'attività, alla dignità degli esseri umani.

Vorrei provare a rimettere a fuoco anche quando e perché ho scoperto Todorov. Bisogna tornare indietro all'inizio di questo secolo, a un evento cruciale, l'11 settembre. Proviamo a ricordare cosa si mise in moto: esso innescò una sequenza di guerre che furono precedute e accompagnate da un autentico delirio identitario. Esso ebbe proprio qui, in Italia, a Milano, una delle sue espressioni più radicali, quando il Corriere - incredibilmente - iniziò a pubblicare le forsennate incitazioni all'odio antislamico di Oriana Fallaci. Bisognava reagire: lo facemmo immediatamente e da allora non mollammo più la presa. Ma cercammo anche qualche solido fondamento teorico con cui impostare il confronto e il dialogo con l'Altro. Fu in questo passaggio che divenne inesorabile l'incontro e l'interazione con Todorov. Nella sua opera vi era l'elaborazione contemporanea più sistematica e interessante di questa questione dirimente. E fra i suoi lavori ve ne era uno che spiccava in particolare e su cui merita che ci soffermiamo anche adesso: "La conquista dell'America".

Forse è il suo capolavoro. Scritto in tempi non sospetti (1984) è un libro non definibile: il "suo" libro di storia, forse, ma nel contempo un libro che difficilmente è catalogabile come un saggio storico: le sue motivazioni sulle ragioni della vittoria di Cortes difficilmente reggerebbero una verifica storiografica (attribuisce la vittoria di Cortes alla superiorità nell'uso della comunicazione: gli storici hanno sempre usati altri argomenti e assai più convincenti, quali le divisioni dell'impero Atzeco, la schiacciante superiorità tecnologica degli spagnoli, l'incomprensibile titubanza di Montezuma). Eppure le argomentazioni di Todorov hanno un fascino straordinario perché danno a quel passaggio storico una profondità e una ricchezza di implicazioni che non si trovano in nessun'altro trattato storico.

Cosa fa Todorov? Egli fa della scoperta e della conquista dell'America il paradigma perfetto dell'incontro con l'altro. Quando gli europei scoprono l'America si imbattono - più che in ogni altra occasione precedente e come mai più sarebbe accaduto nei secoli successivi - nell'altro per eccellenza. Gli europei avevano sempre avuto almeno un filo di contatto, per quanto vago ed esile, con le atre civiltà del continente euroasiatico: non parlo solo dell'Islam che - come non smette di ricordarci Massimo Campanini - alla fin fine non è altro che una variante delle civiltà mediterranee. Gli europei almeno un'idea degli indiani dell'India e dei cinesi l'hanno sempre avuta. Ma questa volta era diverso: gli indigeni americani erano davvero una realtà del tutto, totalmente, sconosciuta. L'incontro con loro fu il più sconvolgente impatto della civiltà europea con un'altra cultura. Curioso: avveniva a ridosso del fatidico 1492, quando i re cattolici cacciarono dai loro domini ebrei e moriscos. Riflettendo su quella eccezionale congiuntura storica, su quell'impatto si possono mettere a fuoco tutte le complesse problematiche dell'incontro - scontro, dell'interazione tra civiltà.

Facciamo parlare le cifre: quando Colombo tocca l'America vi erano all'incirca 80 milioni di amerindi, dopo cinquant'anni erano ridotti all'incirca a 10 milioni: il più forte ridisegna di fatto anche demograficamente il più debole.

Le dinamiche che portano gli europei alla vittoria sono altrettanto illuminanti e, osservato in questa chiave, il ragionamento di Todorov sulle ragioni della vittoria di Cortes è tutt'altro che stravagante e appare anche sorprendentemente penetrante. Dice Todorov: Cortes vince, a differenza di Colombo, perché capisce che bisogna comunicare con gli indigeni. E comunicare significa innanzitutto conoscere: Cortes cerca di conoscere. In questa ricostruzione un ruolo chiave verrebbe svolto dalla Malinche, l'indiana Maya schiava degli atzechi, che impara lo spagnolo e diventa l'interprete di Cortes con Montezuma e con gli Atzechi. La Malinche fino ad ora era stata il simbolo del tradimento: la traditrice del suo popolo, che per di più diventa l'amante di Cortes. Todorov ne ribalta l'interpretazione: essa è la chiave della superiorità comunicativa degli spagnoli. A suggellare questa superiorità accadde anche un fatto drammatico: gli dei degli Atzechi precipitarono nel silenzio: travolti dall'impatto sconvolgente con il mondo nuovo degli spagnoli essi persero la capacità di rispondere alle domande dei loro fedeli: il silenzio dei loro dei era il segno della fine dell'impero atzeco.

L'impatto con l'altro, come è noto suscitò nel mondo spagnolo e tra gli europei una enorme discussione. Todorov si sofferma in particolare sulla controversia di Valladolid: sono passati cinquant'anni dalla conquista, siamo nel 1550: si confrontano Gines De Sepulveda e Bartolomé De Las Casas. De Sepulveda sostiene l'inferiorità degli indigeni: non gli è difficile costruire questa argomentazione. Alle spalle vi erano gli insegnamenti di Aristotele sulla "schiavitù naturale" e davanti i vantaggi per i conquistadores della riduzione in servitù - nelle encomendias - dei nativi. De Las Casas, invece, è l'amico degli indigeni: egli sostiene la loro eguaglianza. Il suo argomento ruota attorno al fatto che possono diventare ottimi cristiani e si tratta, a ben guardare, della prima moderna argomentazione per una politica assimilazionista

La contesa, ecco il punto, ruota attorno a due possibili strategie: l'inferiorità dell'altro oppure l'esigenza della sua assimilazione. Nessuno riesce allora a concepire l'idea che l'altro è un diverso e in quanto diverso, non in quanto uguale, è altrettanto umano quanto il conquistatore e vincitore. Todorov scriveva queste cose nel 1984: una ventina di anni dopo, mentre imperversavano le teorie di Huntington sul conflitto di civiltà, esse divennero argomenti decisivi da spendere nel conflitto politico, ideale e culturale. Ed è superfluo sottolineare che esse mantengono la loro stringente attualità. 

Altrettanto affascinante è in Todorov la costruzione narrativa del nuovo umanesimo, del "nuovo umanesimo europeo", come lo definisce a un certo punto in uno dei suoi scritti più noti "La paura dei barbari". Il tema passa attraverso tutta la sua ultima produzione, ma vorrei enuclearlo facendo ricorso a un suo testo che a me è sempre apparso particolarmente affascinante: "Memoria del male e tentazione del bene". Il fascino sta nel titolo stesso che bisogna riuscire capire nel suo reale significato. Todorov dice che bisogna fronteggiare il male ma bisogna stare attenti anche alla "tentazione del bene" perché molto male è stato fatto proprio partendo dal presupposto di fare e imporre il bene (sono più le vittime in nome del bene - annota a un certo punto - che quelle dovute alla ferocia dei portatori di male!).

Il fascino del libro è dovuto alla risorsa narrativa cui ricorre Todorov: l'argomentazione è accompagnata da brevi biografie. In esse egli ricostruisce la figura di alcuni esemplari tesmoni del bene. Todorov ne sceglie sei: vorrei qui ricordarne almeno tre perché aiutano a capire la sua operazione di rottura degli schemi.

Cominciamo con Margarete Buber Neumann: comunista tedesca, moglie di Buber, il figlio del grande filosofo Buber, e poi di Neumann, dirigente del Partito Comunista tedesco. Dopo il 33 si deve rifugiare in Russia, me nel 38 lei e il marito vengono arrestati: il marito muore e lei, nel 40, dopo il patto Molotov - Ribbentrop, viene consegnata alle SS: passa quindi dal gulag ai lager. Dopo la guerra denuncerà, a prezzo di una rottura dolorosissima con pezzi del suo mondo, con parti della sinistra, la sua incredibile storia. Margarete troverà al forza di denunciare il gulag proprio perché passata anche dai lager!

Vassily Grossman era invece l'inviato speciale dell'Armata Rossa: il più famoso giornalista russo impegnato sul fronte. Nel dopoguerra viene sconvolto dalla campagna antiebraica scatenata da Stalin, matura una critica profonda dello stalinismo e scrive così un testo straordinario, "Vita e destino", uno dei grandi capolavori della letteratura della seconda metà del Novecento. Questo romanzo è al tempo stesso l'epopea di Stalingrado e una critica serrata delle follie e della degenerazione dello stalinismo. Il suo capolavoro verrà pubblicato solo dopo la sua morte.

Infine, Germaine Tillon, etnologa francese che, dopo la disfatta del 1940, entra nella Resistenza: nel 1942 viene arrestata e internata nel lager di Ravensbruck. Nel 1954 va come etnologa in Algeria: da allora al sua battaglia pubblica si raddoppia, per ravvivare la memoria della Resistenza e della deportazione nel Lager e per denunciare i crimini e le aberrazioni del colonialismo francese in Algeria. Insomma, ella denuncia il male dovunque vi si imbatta. 

La figura di Germaine Tillon apre a Todorov la strada per analizzare e pronunciarsi sulla guerra nel Kossovo: nel 2000, un solo anno dopo la guerra, Todorov scrive così la prima e più lucida disanima della narrazione con cui in Occidente è stata accompagnata l'avventura nel Kossovo. Chi vuole può trovare qui alcune della pagine più splendide, dense di ironia, sulla "guerra umanitaria", sulle "bombe umanitarie" e può ricostruire come è stata costruita una potentissima copertura mediatica a un'azione priva di buon senso e di legittimità.

IL messaggio di Todorov, al fondo, è semplice: bisogna guardare la realtà "pulendosi le lenti", un'espressione potente nella quale riassume la sua determinazione nell'andare oltre ogni pregiudizio, per esercitare sempre il pensiero critico, per andare sempre ostinatamente alla ricerca della verità.

Anche per questo i testi di Todorov sono pieni di considerazioni spiazzanti, che sfidano i luoghi comuni. Quando ad esempio parla dei palestinesi lascia cadere un'espressione straordinaria: "vittime delle vittime", un'espressione rispettosa dell'immensa tragedia storica su cui si fonda la legittimità di Israele, ma che non si ritrae dinnanzi al trattamento insensato riservato ai palestinesi.

Oppure, ancora, nel parlare del sistema della giustizia internazionale Todorov usa un'espressione tanto semplice quanto eloquente: "essa, scrive, è l'equivalente della "giustizia del più forte". Quanta retorica viene riposizionata e liquidata con questa espressione. 

Così pure, in "La paura dei barbari", sviluppa un ragionamento che diverrà di drammatica attualità in tragiche vicende degli ultimissimi anni. Scrive: "la libertà di espressione non è il più importante dei valori: prima di essa viene la tolleranza integrale". Provate a rileggere la vicenda di Charlie Hebdo in questa chiave e cogliete subito l'inevitabile problematizzazione dell'impostazione dominante. (Per altro - mi permetto di ricordare - qui in Casa della Cultura abbiamo gestito quella discussione esattamente con lo spirito qui indicato da Todorov).

Concludo con un'ultima considerazione. Penso che Todorov stesso non avrebbe nulla da obiettare se il metodo di "ripulire le lenti" venisse usato anche nei confronti della sua opera. Mettiamola così: la lezione di Todorov è potente, ma vi è qualcosa che manca in essa. Nei suoi scritti non troverete una parola sulla globalizzazione liberista, sulla finanziarizzazione del mondo, sulla precarizzazione dei lavori e delle vite.

Me ne ero accorto anche nei colloqui personali. Mi capitò, l'ultima volta che cenammo assieme, di accennare con preoccupazione alla deriva autoliquidatoria della sinistra italiana: percepii subito che quel tipo di questione era molto lontana dai suoi interessi.

Potremmo dire che il suo pensiero critico, così potente e penetrante, si arrestava dinanzi ad alcune soglie. Probabilmente, questa è la mia impressione, nella vita e nel pensiero di Todorov non è mai stato rimosso il suo impatto giovanile con la realtà del socialismo reale, la lontananza abissale - sono sue parole - tra la retorica del regime e la realtà. Egli annota che questa lontananza, questo divario imperdonabile, era una fucina micidiale di nichilismo. Todorov voleva tenersi lontano da ogni rischio di questo genere.

Insomma, la sua passione civile e il suo pensiero critico si indirizzavano verso alcuni problemi e non verso altri: severo critico di ogni abuso del potere politico e statale non dedicava altrettanta attenzione agli abusi del potere economico e finanziario. Un limite, sicuramente, ma il fatto stesso che possiamo vedere questo limite ci fa risaltare ancora di più il debito che abbiamo nei suoi confronti

Grazie a Todorov la ricerca di un nuovo, moderno umanesimo, l'impegno di fare rivivere l'antica lezione per trattare "ogni essere umano come un fine e non come mezzo", per non permettere che i mezzi vengano anteposti ai fini, per tornare a ragionare sulle finalità di fondo attorno a cui costruire il nostro impegno pubblico, ha trovato voce e ascolto anche in questi anni. Non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma di certo è molto. Per questo penso valga la pena impegnarsi per dare continuità e fare vivere la straordinaria lezione di Tzvetan Todorov.

 


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18 FEBBRAIO 2017