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La Rai, dalle sue origini fino all'ultimo scorcio degli anni Ottanta, ha prodotto e mandato in onda una valanga di sceneggiati. E scorrendone i titoli in serie, ci si ritrova a contemplare un organismo composito evolutosi nel corso dei decenni.
Sugli schermi domestici, ogni sera, le epoche storiche si intrecciavano, l'alta letteratura si lasciava contaminare dal romanzo d'appendice, il finto reportage si tingeva di giallo, il teatro classico si mescolava all'avanguardia più estrema: compassati studiosi byroniani, stretti in modelli Facis, si lasciavano inghiottire dai vicoli di una Trastevere metafisica; scienziati in girocollo esistenzialista, chiusi in futuristici laboratori inglesi ricreati tra l'hinterland milanese e la Gallura, creavano androidi cotonati, interrogandosi sui pericoli dell'intelligenza artificiale; rappresentanti di libri porta a porta cercavano mogli sparite nel nulla, scoprendo i feroci lati indiscreti della borghesia italiana; tigri della Malesia ed eroi greci vibravano della stessa, feroce sete di vendetta; ectoplasmi dostoevskiani, ebbri di vodka e follia, convivevano con Amleti luciferini, declamatori beffardi dei versi di Guido Gozzano. E così via.
Nell'alveo marmoreo della Rai pedagogico-fanfaniana di Ettore Bernabei, prendeva forma un hellzapoppin prismatico, non sempre controllabile ma fondamentale per la creazione di cultura e linguaggio comuni. Era un'Italia ancora semianalfabeta che, di colpo, si ritrovò costretta a una salutare terapia d'urto, scervellandosi sui sofismi pirandelliani, calandosi negli inferni domestici di casa Strindberg, o misurandosi con l'ironia sottile di Cechov. L'adesione di pubblico era spesso plebiscitaria, accostabile al successo della nazionale di calcio o di una serata sanremese.
Nello stratificarsi di sceneggiati, adattamenti teatrali e originali televisivi, sono rintracciabili segni molteplici dell'autobiografia di una nazione. Un aspetto affrontato con passione e rigore storico da Leopoldo Santovincenzo e Carlo Modesti Pauer, autori di Fantasceneggiati, Sci-Fi e giallo magico nelle produzioni Rai 1954-1987, appena uscito per Edizioni Elara. Il testo ricostruisce l'eccentrica evoluzione di un linguaggio inedito, di una televisione nazionale che cerca, venendo alla luce, i canoni del proprio specifico. Saccheggiando e rielaborando ogni ambito culturale, dalla tradizione letteraria alla musica sperimentale, dalla pittura informale al cinema d'autore, senza snobbare la visceralità plastica del cinema di genere. Affrontando, con sapienza pionieristica, i limiti tecnici imposti da un medium nuovo, ancora da inventare.
I primi sceneggiati infatti vanno in onda in diretta, ripresi da telecamere ancora mastodontiche. Per non correre ulteriori rischi si punta sull'affidabilità di attori di razza, strappati all'élite del teatro italiano, gli unici in grado di portare in scena testi classici di filato - senza nemmeno un'interruzione. L'imperativo morale era quello dell'alta qualità.
Ricordava Giorgio Albertazzi, all'epoca ricercato attor giovane: "Ho fatto trentasette commedie in diretta, poi il primo sceneggiato, Delitto e castigo di Dostoevskij. Era un programma che durava quattro ore e un quarto di seguito, in diretta. Per terra avevo 270 segnali da rispettare. A volte alzavo i cavi delle camere per passarci di sotto, approfittando dell'inquadratura". Nasce così il primo cortocircuito generato dalla televisione, negli anni della sua nascita: mattatori di stampo ottocentesco, armati di intonazioni stentoree e volti di chissà quale altra epoca, vengono catturati dalle telecamere e risputati dal tubo catodico in forma di ombre elettriche, irrompendo nelle case e nei bar degli italiani.
Nel 1959 per esempio, sul primo canale, va in onda L'idiota. Giacomo Vaccari, giovane e visionario, dirige Giorgio Albertazzi nei panni di un principe Myskin in perenne estasi mistica. Il bianco e nero acuisce i contrasti: il pallore accecante del suo volto smarrito è speculare e opposto alla barba nera e agli occhi di brace di Rogozin, interpretato da un Gian Maria Volontè che si presenta con un'inflessione ancora vagamente lombarda, utile forse a renderlo più familiare ai telespettatori. Il magnetismo è invece già sconcertante, febbrile: le risatacce perverse prefigurano l'Indio leoniano che verrà. Vaccari esalta la potenza espressionista dei volti, imperniando lo stile di regia su lunghi primi piani, da cui trapela tutta l'abissalità dei rovelli interiori.
Nei claustrofobici salotti di una San Pietroburgo ricostruita in studio, sfilano altri grossi calibri come Anna Proclemer, Gianni Santuccio, Sergio Tofano e Lina Volonghi. Una coralità preziosa, forse irripetibile, che contribuirà al primo caso di ipnosi collettiva: l'Italia si incolla al piccolo schermo, sacralizzato in ogni casa come un monolite. Tra i quindici milioni di spettatori sedotti, si registra anche l'entusiasmo del cipiglio austero di Luchino Visconti, che si sbilancia - a sorpresa - dopo la messa in onda dell'ultima puntata: "Nel finale, Albertazzi e Volontè, mi sono apparsi giganteschi, in quella lunga scena, davanti al cadavere di Nastasja Filippovna. Sembravano vegliare la propria morte".
Il neonato piccolo schermo solletica la curiosità del più magniloquente dei cineasti. Da visionario qual è, Visconti inquadra perfettamente quella che si avvia a essere la peculiarità degli sceneggiati: l'ipnosi straniata del tempo sospeso. Una dilatazione che continuerà a persistere anche quando la Rai deciderà di inglobare il rivoluzionario formato "due pollici", introdotto dalla ditta americana Ampex; gli sceneggiati potranno sottrarsi al capestro della diretta: dopo essere stati registrati, verranno montati in post-produzione.
Il nastro è però spesso due centimetri: tagliarlo e incollarlo è un'operazione chirurgica, da ridurre al minimo indispensabile. Il montaggio televisivo rimane lontano dalle infinite sincopi del cinema, limitandosi al mero accostamento di smisurati piani sequenza. Il telespettatore può continuare a sprofondare in un'immagine cristallizzata, in una faglia spazio-temporale che lo irretisce. Un altro aspetto tecnico che finisce col diventare precipuo elemento di linguaggio è la differenza tra riprese en plein air e interni: gli esterni presentano la definizione intagliata della pellicola in 16mm, mentre i salotti teatrali dei lunghissimi dialoghi sono permeati dal flou lattiginoso del video.
È quello che accade in Jekyll, diretto e interpretato nel 1969 dall'onnipresente Giorgio Albertazzi. I titoli di testa scorrono su un monoscopio televisivo fisso, stilizzato, senza musica. È una chiara indicazione programmatica: il polveroso ottocento vittoriano del romanzo è ormai dissolto; il Jekyll di Albertazzi è al contrario una figura ultracontemporanea, uno stimato genetista e biologo molecolare, dedito a sperimentare le sue teorie in un laboratorio algido, circondato da apparecchiature avanguardistiche. Il suo studio è incastonato in un angolo metropolitano, pieno di palazzoni vuoti in vetro e cemento. Insegna all'università, confrontandosi con le controverse speranze di palingenesi umana del movimento hippie. Trasformandosi in Mister Hyde, Jekyll diventa una sorta di scarmigliato superuomo nietzscheiano, in balia della propria crudeltà.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 03 MARZO 2017 |