Marco Mondino  
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ROLAND BARTHES: L'IMPERO DEI SEGNI


L’occhio inesperto



Marco Mondino


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Sono un insieme di «tratti» quelli presi in esame nell’Impero dei Segni, che se messi insieme, formano deliberatamente un sistema: il Giappone. Attraverso un gioco di opposizioni e differenze tra Oriente e Occidente la scrittura di Barthes ci porta “laggiù” dove non è solo la voce a comunicare ma tutto il corpo, dove il vassoio del cibo sembra un quadro e dove ogni oggetto e ogni gesto appare incorniciato. Si tratta di quell’estetica del quotidiano fatta di oggetti e pratiche, strade e volti, movenze e riti. Parlando di sé in terza persona Barthes scrive: «L’autore non ha mai, in alcun senso, fotografato il Giappone. È avvenuto piuttosto il contrario: Il Giappone l’ha costellato di molteplici lampi; o meglio ancora: il Giappone l’ha messo nella condizione di scrivere» (p.6).

Ogni riflessione non può che partire dalla ricerca di una differenza e da li espandersi andando oltre la superficie. Ciò che si conserva però è l’idea dell’impressione, di quel primo sguardo che si confronta con il nuovo e lascia emergere l’intuizione. La messa in relazione di queste descrizioni, di questa quotidianità diversa ma così abilmente resa è fonte di scoperta per un lettore esperto o non esperto del Giappone.

Barthes pone la sua attenzione su quegli oggetti di cui ha anche scritto nel corso di quegli anni: il teatro, la lingua, lo spazio, la cucina, e ancora la scrittura, intesa in senso materiale con il suo insieme di strumenti che la rendono possibile.

Gli oggetti della cancelleria recano ad esempio le tracce del modo di concepire l’atto della scrittura e se confrontati aprono a nuove possibili descrizioni.

La cartoleria degli Stati Uniti[1] rivela che «chi l’adopera non prova nessun bisogno di investirsi nella propria scrittura. Un buon dominio degli strumenti, ma nessun retaggio del tracciato, dell’utensile; ricacciata nell’ambito del semplice uso, la scrittura non s’accetta mai come gioco d’una pulsione» (p.100). La cancelleria giapponese esclude l’atto della cancellazione (non c’è la gomma) e gli strumenti mostrano come si tende verso una scrittura che appare irreversibile e fragile che è contraddittoriamente “incisione” e “scivolamento”.

L’occhio di Barthes si sposta poi a osservare anche la composizione dei piatti, dei vassoi che a prima vista sembrano come veri e propri quadri dove i singoli elementi emergono separati tra di loro. La cucina viene accostata alla scrittura e alla pittura e ciò che la caratterizza non è una trasformazione della materia prima ma un gioco di accostamenti dove siamo noi stessi a combinare i singoli elementi attraverso operazioni di divisione e prelevamento.

«Il vassoio del pasto sembra un quadro dei più delicati: è una cornice che contiene su fondo scuro vari oggetti (scodelle, scatole, piattini, bacchette, minimi pezzi di cibo, un poco di zenzero grigio, qualche pizzico di legumi color arancio, un fondo di salsa bruna)» (p.16). Il cibo allora è una vera e propria costellazione di frammenti.

Capitolo dopo capitolo il lettore si ritrova così a conoscere gli spettacoli di Bunraku, il gioco del Pachinko, a leggere alcuni haiku e a perdere l’orientamento in una città dove non ci sono i nomi delle vie e dove il centro città appare vuoto. In queste pratiche e in questi testi che costruiscono quell’arte del quotidiano il senso sembra arrestarsi o meglio sospendersi. «I segni sono vuoti perché non rimandano a un significato ultimo (…). In Giappone, non c’è significato supremo a fermare la catena dei segni, non c’è una chiave di volta, cosa che permette ai segni di svilupparsi con una finezza e una libertà grandissima» (La grana della voce p.96).

Alla scrittura vanno poi aggiunte le immagini che non sono un banale compendio, né una serie di elementi posti in maniera didascalica. Queste fanno la felicità del lettore insieme a quelle didascalie calligrafiche affiancate al testo o alle immagini. Lo spazio della pagina assume un ruolo importante e all’idea di un continuum lineare e coeso si sostituisce quella di un ritmo discontinuo fatto di intervelli e pause, di ampi margini bianchi e foto di dimensioni variabili. I testi calligrafici creano poi uno stacco, interrompono per qualche istante il fluire della narrazione e l’effetto che si costruisce è quello di un’intimità svelata, di un’apertura di uno spazio privato. Seguendo questo sottotesto ricostruiamo il lessico per darsi un appuntamento e ancora osserviamo gli schizzi delle cartine, piccole mappe per orientarsi, disegnate con cura e precisione

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30 MARZO 2015

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