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Intervista pubblicata su Il Messaggero il 27-03-2017
Europa indispensabile. È su questo riconoscimento che poggia la 'ripartenza' della Ue in mezzo a Brexit, alla crisi incalzante delle migrazioni, al terrorismo, alla crisi di identità e prospettive dell'Unione. Il fatto che i '27', sia pure con grande fatica, ci credano ancora è la leva per uscire dalla paralisi. Il giorno dopo il vertice di Roma, l'Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue Federica Mogherini ragiona sulle scelte per passare dalle parole ai fatti.
A Roma c'è stato sì l'impegno all'unità, però c'è stata anche molta retorica, le divisioni non mancano e non mancheranno.
"Adesso sembra scontato affermare che i 27 restano nell'Unione e procedono insieme, vorrei ci ricordassimo che all'indomani del referendum britannico molti dicevano 'siamo all'inizio della fine'. A Roma è stata invece riaffermata la volontà di continuare a 27, una riconferma, una scelta strategica rinnovata insieme. Non mi sembra banale, tanto più se teniamo conto che le voci contro il progetto europeo restano particolarmente aggressive dentro l'Unione e fuori".
La dichiarazione dei 27 traccia un denominatore comune minimo, secondo molti minimalista. Le divergenze non stanno nei 'titoli', ma in quello che ci si metterà sotto.
"L'impegno dei 27 riflette la convinzione che la Ue sia la migliore delle risposte possibili per governare la globalizzazione, fronteggiare la fragilità dell'economia, i conflitti aperti attorno a noi. Vista dall'interno e vista dall'esterno, la Ue è il solo strumento utile per farcela, semplicemente perché uniti siamo più forti. Senza la Ue quanti Stati sarebbero crollati negli anni della crisi economica? La sua 'indispensabilità' resta: migrazione, terrorismo internazionale, cambiamento climatico, nessun paese ce la fa da solo. Ricordiamoci che ci sono due tipi di Stati, quelli che sono piccoli e quelli che non si sono ancora resi conto di essere piccoli. Stare uniti conviene a tutti. Il vero messaggio di Roma è proprio questo: la Ue è indispensabile".
In realtà non è chiaro quanta 'Europa possa tollerare l'Europa', basti pensare alla nuova linea di faglia tra Ovest ed Est.
"Riconoscere che la Ue è necessaria implica un'assunzione di responsabilità, significa che la leadership politica continentale dovrà investire sull'Unione, non ci sono più alibi per non farla funzionare, per riproporre il 'giochetto' per cui si scaricano tutti i guai nazionali su Bruxelles, come se a Bruxelles ci fosse un alieno che prende decisioni al posto dei governi".
Eppure le divergenze Ovest-Est appaiono profonde, radicate, ancora alla vigilia del vertice di Roma la Polonia aveva addirittura annunciato di non voler firmare la dichiarazione…
"Intanto penso che non ci sia una faglia Ovest-Est, casomai c'è una faglia che attraversa tutti i paesi, le società, i partiti politici all'Est come all'Ovest, al Sud come al Nord. Il governo dei flussi dei migranti è, purtroppo, un caso di scuola, però poi scopriamo che sul versante esterno della politica migratoria, nei rapporti con i paesi africani per creare lì le condizioni di un riscatto economico e sociale, per gestire i rientri dei migranti irregolari, l'unità di intenti tra gli Stati funziona. Riconoscere che i contrasti sono presenti all'interno di ogni paese, e poi si scaricano e si amplificano a livello Ue, evita di cristallizzare una discussione di tipo antagonistico tra regioni europee. La vera linea di faglia oggi è tra chi ritiene si debba procedere nella solidarietà e nella cooperazione su tutti i grandi temi, e chi vende l'illusione di potersi rifugiare nel proprio piccolo ambito territoriale, politico, culturale. Appunto una scelta illusoria, quest'ultima, perché chiusa la porta i problemi rientreranno dalla finestra".
L'Europa a più velocità per uscire dalla paralisi, una soluzione che a Est non piace perché si teme una marginalizzazione politica. Sicurezza, difesa, forse standard sociali, fisco: non c'è il rischio che tanti cerchi diventino una trappola ingestibile, quasi una prova di fanatismo istituzionale?
"Non mi piace il termine velocità, conta la direzione di marcia. Intanto non partiamo da zero. Per esempio nella cooperazione sulla difesa abbiamo fatto un passo impensabile un anno fa con la creazione del primo comando militare unificato per le nostre missioni di addestramento in tre paesi africani (precursore - per ora in ipotesi - di un futuro 'quartier generale' europeo). Ora stiamo lavorando per una futura cooperazione strutturata nella Difesa. L'esigenza politica generale è consentire ad alcuni Stati di andare in una certa direzione senza che siano bloccati da quelli che ritengono quel cammino non interessante per loro. Evitare di essere paralizzati dai veti, che il processo di integrazione europea possa essere tenuto in ostaggio da pochi Stati".
La sua è una visione all'insegna dell'ottimismo della volontà, sta di fatto che la Ue non vive momenti di gloria presso le opinioni pubbliche, non solo all'Est: superato il rischio Olanda si profila il rischio Francia.
"So bene che ci sono disincanto, sovranismo estremo quanto illusorio, forti spinte eurofobiche e nazionaliste, però la realtà è più articolata delle narrazioni prevalenti. Significherà pure qualcosa che i polacchi dichiarino di avere più fiducia nella Ue che nel governo nazionale. Lo stesso accade in molti paesi in cui prevalgono, o hanno comunque influenza, posizioni euroscettiche o di tipo nazionalista: la sfiducia è più verso le istituzioni, a ogni livello, che verso la Ue in quanto tale. Da lì si deve ripartire. E poi il referendum britannico ha tolto un alibi a chi si è spesso riparato dietro i britannici per frenare l'integrazione (e tutelare esclusivamente i propri interessi nazionali). Quel referendum costringe tutti a riflettere, a confermare l'impegno europeo o decidere di tirarsi indietro.
Le leadership nazionali devono chiarirsi con le loro opinioni pubbliche: dopo il referendum britannico non funziona più il meccanismo 'sto dentro la Ue anche se non mi piace'. Si è rotto un tabù: se non ti piace esci, ma se stai dentro devi crederci. E fare la tua parte parchè la nostra Unione funzioni. Perché la Ue è ciò che ne facciamo. Insomma, siamo tutti costretti a fare i conti con le nostre responsabilità. Visto ciò che sta accadendo nel Regno Unito con il rischio di 'divorzio interno' della Scozia, forse anche le leadership politiche si stanno accorgendo che attaccare l'Europa da un palco di comizio elettorale è un conto, se poi tali posizioni diventano scelte reali è un altro conto: le conseguenze potrebbero non essere poi così convenienti".
Non è paradossale sostenere che Brexit può essere un'opportunità per la Ue? E anche la vittoria di Trump?
"Affermare la volontà di restare uniti toglie dubbi ai nostri interlocutori sul fatto che la Ue c'è e resterà, nessuno può intaccarla né da dentro né da fuori. Poi, oggettivamente la Ue ha la possibilità di essere un punto di riferimento nel mondo per i molti che lo hanno perso a Washington, pensiamo al multilateralismo, al commercio, alla lotta al cambiamento climatico, all'attrazione verso un modello di relazioni cooperative invece che conflittuali, modello tipicamente europeo. Si parla tanto di American First...anche noi diciamo European First, però noi sappiamo che è nel nostro interesse costruire forti relazioni con gli altri in termini di cooperazione e partenariato, non siamo per 'Europe alone', un'Europa isolazionista. La transizione in cui si trova la politica americana ci offre uno spazio enorme nel commercio, nella diplomazia internazionale, nelle relazioni con l'America Latina, l'Africa, il Giappone, la Cina. È un'occasione unica, ma solo se staremo insieme".
Antonio Pollio Salimbeni*
*Esperto di economia internazionale, segue da Bruxelles gli affari europei
© RIPRODUZIONE RISERVATA 03 APRILE 2017 |