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Sebbene lavori alla facoltà di Giurisprudenza da quasi dodici anni, la migliore lezione sulla democrazia e i diritti l'ho ricevuta dai miei studenti di master, giovani studiosi di Law and Sustainable Development.
Quest'anno la classe si componeva di trenta studenti, provenienti da venticinque paesi diversi. Con quattro banchi, potevamo ricoprire tutti i continenti e riuscire a fare l'appello correttamente significava perdere la prima metà della lezione. Il mio corso verte sulle diseguaglianze, e quasi per gioco, ho proposto ai ragazzi di dirmi cosa significasse per loro democrazia, se supponevano di essere cresciuti in un paese democratico, e qual era per loro un esempio di democrazia.
L'esercizio, molto semplice, ha offerto risultati inattesi. A dispetto dei fitti report di Human Rights Watch e di Amnesty International, solo quattro dei miei allievi sostenevano di essere cresciuti in un paese non democratico (e tre su quattro erano italiani, che hanno sostenuto la tesi del governo non eletto dal popolo).
Studenti provenienti da Iran, Pakistan, Georgia, Kirghizistan, Ghana, Ecuador, Montenegro, Sri Lanka, Vietnam, Israele, Egitto, percepivano il loro vissuto come un vissuto in democrazia piena, con alcuni possibili miglioramenti.
Lo studente cinese, guardandomi fisso negli occhi, ha risposto che lui forse non aveva davvero idea di cosa potesse essere la democrazia. La studentessa ucraina, con fermezza ha sostenuto "ci hanno insegnato che la democrazia è causa di disordine, porta all'anarchia, e va evitata".
Il paese immaginato come più democratico era, unanimemente, la Svizzera. Sebbene il campione dei miei giovani studiosi non abbia nessun valore di rappresentatività né di scientificità, l'esperimento condotto in classe permette di riflettere su quanto la democrazia, e più in generale i diritti, siano un percepito del nostro vissuto, della narrazione che ci ha educato al vivere civile, e che per questo la loro difesa e la loro tutela, nonché la loro pienezza, rappresenta un confine mobile, che molto spesso, anche in tempi recenti, ha perso terreno senza che fossimo in grado di percepirlo.
Perché se le carte ratificate si sommano, seguendo quei criteri di moltiplicazione e specificazione dei diritti che raccontava Bobbio, quei diritti diventano sempre più un privilegio di pochi, quasi che ci fosse un bilanciamento tra il numero di diritti possibili e i soggetti che possono goderne.
Sebbene già Hannah Arendt avesse già enunciato il "diritto ad avere diritti" sempre più quell'accesso viene disciplinato e connesso alla cittadinanza, all'identità, al territorio, allo status, alla condizione economica.
Pensiamo ai recenti decreti Minniti, sulla sicurezza e sulle migrazioni: quanti diritti offrono e quanti sottraggono? A chi offrono tutele e chi escludono? Il c.d. "decreto sicurezza" parla della sicurezza come bene giuridico "necessario per l'inveramento di tutti gli altri diritti" ma sviluppa una serie di dispositivi che sulla base del criterio di "rischio" e "pericolo" sottraggono parti della città a gruppi di persone ritenute marginali, non adeguate o semplicemente non volute.
Prevede infatti l'applicazione del c.d. DASPO, un provvedimento amministrativo che prevede l'allontanamento dei soggetti dagli spazi della città, che vengono quindi definiti sulla base di affinità e di bisogni più forti di altri.
Sperando che la Corte Costituzionale ne dichiari l'incostituzionalità come avvenuto con il precedente del 2009, nel frattempo, i diritti rimangono sulla carta, ma nei fatti le prassi disciplinano gli spazi e le possibilità dei cittadini.
Il secondo decreto, il decreto "immigrazione" reintroduce e rafforza gli spazi di detenzione amministrativa sul territorio italiano, che dal 2013 erano stati, quasi del tutto dismessi, sebbene il sistema dei c.d. "hotspots" avesse mantenuto zone d'opacità e di quotidiane, ordinarie violazioni.
Affermando con un susseguirsi di frasi che la difesa anti-terrorismo e la gestione delle migrazioni devono essere svolte di pari passo, il decreto prevede l'istituzione dei c.d. CPR, Centri di trattenimento presenti in ogni regione.
Ritorna quindi, quel fermo amministrativo senza tempo e senza tutele, che abbiamo visto nei giorni recenti, giustamente indignandoci per la sua applicazione in Turchia, rappresenta una formula se non illegale, quantomeno ingiusta. Eppure non vediamo le violazioni che non ci toccano, che non ci sfiorano direttamente.
Ci fidiamo del potere delle parole, "fermo amministrativo", "trattenimento", "rimpatrio" e ci affidiamo alle carte, accorgendoci poi delle violazioni quando riconosciamo la struttura dei poteri come illegittimi o non democratici, mentre sono le pratiche ad esserlo, spesso, indipendentemente dalla democraticità del contesto.
Rimane sempre la domanda, che fare per non permetterne l'erosione? Come mantenere quei presidi e come estendere le tutele anche a coloro che ne vengono esclusi? La risposta ci viene offerta da Rodotà, attento osservatore e studioso: "Contemplarli, dunque, per non perderli?
Non pretendere la loro attuazione per non vederli svanire? Ma, proprio perché dobbiamo coglierli nella loro perenne fragilità, nell'insidia che a essi porta ogni potere, i diritti non ci parlano di un 'affidamento' ma di un impegno. Chi ne è titolare, dev'essere pure consapevole di un dovere di farli valere.
Nell'infinito processo di bilanciamento tra gli interessi in campo, chi compie questa operazione deve sapere che il riferimento primario rimane quello che si rifà alla persona e ai suoi diritti. I valori "tiranni" devono cedere di fronte al primato dei diritti della persona".
Pubblicato il 24 aprile 2017 su CheFare.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA 25 APRILE 2017 |