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L’affermazione di Emmanuel Macron nel primo turno delle elezioni presidenziali francesi è stata salutata con soddisfazione da diversi governi europei, e dai vertici delle istituzioni comunitarie. La convinzione comune è che nelle prossime settimane il giovane ex ministro delle Finanze riuscirà a raccogliere il consenso necessario per battere la candidata della destra estrema, Marine Le Pen, e assicurarsi così l’elezione all’Eliseo. La vittoria di Macron, che buona parte degli osservatori danno oggi come molto probabile, viene interpretata come una sconfitta delle tendenze anti-europee e un segnale di speranza per il futuro. Con lui alla guida del Paese, si dice, il pericolo di una liquefazione del nucleo storico del progetto europeo sarebbe sventato.
Tutto bene dunque? A costo di fare la figura del guastafeste, vorrei manifestare alcune perplessità. Dovute non alla preoccupazione, che pure è stata espressa da qualcuno, che Marine Le Pen riesca a intercettare di qui al secondo turno una quantità di voti tale da battere Macron. Per quanto non impossibile, l’ipotesi della rimonta mi sembra infatti poco probabile. A moderare il mio entusiasmo sono piuttosto alcuni elementi di fondo della situazione politica francese, e più in generale europea, che mi fanno dubitare che un eventuale successo del candidato pro-europeo alle elezioni presidenziali francesi possa segnare l’inizio della fine di questa lunga «stagione del nostro scontento». Un prima ragione di perplessità viene dal fatto che la vittoria di Macron è resa possibile anche dalla crisi profonda, forse finale, del Partito socialista, e dalle difficoltà incontrate dalla principale formazione moderata, i Repubblicani, a trovare un candidato fino in fondo credibile. Pur essendo stato ministro in un governo a guida socialista, e avendo dato il proprio nome a provvedimenti importanti, come la legge sul mercato del lavoro, egli ha scommesso sulla disarticolazione dello schema intorno al quale ha ruotato la politica francese negli ultimi decenni. Fondando un proprio movimento, i cui contorni culturali sono peraltro piuttosto vaghi, ma sembrano collocarlo comunque nella tradizione del neo-liberalismo, Macron ha deciso di assecondare le richieste di rinnovamento della politica. Rimane da vedere se questa promessa sarà mantenuta nell’ultima fase della campagna elettorale, e poi, in caso di sua ascesa alla presidenza, nella battaglia decisiva delle elezioni politiche. Qualche segnale emerso in queste ore spinge a dubitarne. Se i Socialisti sembrano allo sbando, i Repubblicani hanno invece, in modo netto e convinto, deciso di appoggiare la sua battaglia. Qualora tale sostegno prendesse le forme di una vera e propria alleanza politica, Macron potrebbe perdere una parte dell’attrattiva che nel primo turno gli veniva dall’essere un candidato fuori dal sistema dei partiti. C’è poi un secondo elemento della situazione francese che mi porta a pensare che proclamare il «cessato pericolo» sia prematuro. Nonostante i suoi limiti, su cui la stampa nazionale e internazionale non si è certo risparmiata nel corso della campagna, Marine Le Pen si conferma una figura di spicco della politica francese. Capace di coagulare un consenso che a questo punto appare difficile spiegare ricorrendo alle origini culturali neo-fasciste del movimento di cui lei ha assunto saldamente il controllo dopo essersi liberata della presenza ingombrante, da diversi punti di vista, del padre, fondatore del Front national.
Allo stato attuale, e tenendo conto della tendenza recente delle elezioni sia presidenziali sia politiche, non mi pare ci siano ragioni per ritenere che un’eventuale sconfitta al secondo turno della candidata della destra ne concluda la carriera politica. Marine Le Pen si avvia a essere ancora a lungo una spina nel fianco dell’opinione pubblica liberale e democratica francese, e una minaccia latente per i progetti di unione dell’Europa. Se Macron dovesse fallire, per esempio perché le politiche neo-liberali che finora ha difeso potrebbero peggiorare, almeno nel breve periodo, la posizione della classe media, la prospettiva di una Francia governata da un partito ostile al progetto europeo, e più in generale a una società aperta e inclusiva, potrebbe riprendere forza.
Non mi pare che Macron, e nessun altro leader neo-liberale europeo, sia riuscito finora a trovare una risposta convincente al problema messo in luce da Tocqueville quando osservava che i difetti delle aristocrazie (oggi diremmo ovviamente delle élite) appaiono tollerabili, in un regime democratico, solo quando, nelle scelte politiche di fondo, gli interessi degli aristocratici non si distinguono da quelli del resto della nazione. L’intellettuale francese parlava della politica estera, ma oggi, come non ci stanchiamo mai di ricordare, tutta la politica è estera. In società, come quelle europee, in cui le élite si caratterizzano in maniera sempre più spiccata per la loro mobilità, per il loro essere, come si dice anywhere, lo scontento di chi non può che vivere somewhere è destinato a rimanere un fattore determinante della politica democratica. Con esiti che, a questo punto, appaiono sempre più preoccupanti per le sorti del liberalismo politico.
Pubblicato il 26 aprile 2017 su la rivista ilMulino © RIPRODUZIONE RISERVATA 29 APRILE 2017 |