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Ce lo ricordiamo tutti Ugo Fabietti, ora che non c'è più, alla Casa della Cultura, quando in modo tranquillo, sereno, espositivamente chiaro, spiegava che il multiculturalismo non era una moda intellettuale, ma il destino del mondo contemporaneo, e su quella base culturale, religiosa, economica era necessario trovare l'equilibrio pacifico del mondo.
Ugo lo conoscevo da quando era ragazzo, figliolo di Renato Fabietti, amico affettuoso che, nella sua attività di docente, portava silenziosamente, il segno di un valoroso partigiano della zona dell'Amiata. Ugo, dopo due anni alla Statale, venne a Pavia: aveva già una sua vocazione per gli studi antropologici che a Milano non avevano credito. Nemmeno a Pavia c'era un antropologo professionale, ma avevo ereditato da Remo Cantoni l'interesse per quegli studi ed ero del tutto disponibile ad accompagnare Ugo nella sua ricerca, con risultati positivi anche per me nel tempo futuro. La tesi di laurea di Ugo, suggerita anche da un antropologo francese molto cordiale, il prof Meillassoux, verteva sull'analisi sociale di una popolazione amazzonica. In questa direzione eravamo influenzati (siamo intorno alla metà degli anni 70) dalla lettura di "Tristi Tropici", da "Nambikwara" di Lévi-Strauss, anche se eravamo certi che ci avrebbe portato fuori strada il suo razionalismo combinatorio a proposito dei sistemi mitemici. Ora tutto questo, a distanza di quarant'anni, lo posso dire in due parole, ma allora erano conversazioni molto impegnate intorno ai problemi di metodo. La questione era costruire una centralità dell'analisi del rapporto tra le strutture sociali e le forme produttive. Il marxismo che avevamo alle spalle batteva inesorabilmente le interpretazioni marginaliste, ma era fuori gioco di fronte alla concretezza della vita sociale di quelle popolazioni, e non solo, poiché apriva modalità metodiche molto più sottili e anche più difficili. Ugo interveniva sempre con un delicato sorriso che si accompagnava alla considerazione di natura teorica, il segno della sua affettuosa e pensosa giovinezza che mi costringeva ad essere più chiaro e più rigoroso. Poi iniziò la sua carriera universitaria, resa più difficile per l'egemonia locale di un'antropologia culturale rivolta alle classi subalterni, soprattutto del mezzogiorno. Ugo aveva lo stile di un antropologo europeo senza dispendio di immaginari eccessi ideologici o sforzi di scrittura alla Chateaubriand. La sua era una norma di conoscenza fedele a questo proposito alla corretta identità della filosofia di Milano (Banfi, Cantoni ecc).
Come ogni antropologo, come si sosteneva allora dovesse fare, Ugo si impegnò "sul campo": partì per la Africa del Nord per uno studio su una popolazione nomade, le famose tende nere. Eravamo tutti in pensiero perché allora non era possibile comunicare. Al ritorno fece un ottimo libro sulla sua esperienza. Poi seguì la sua esperienza sul campo nel Belucistan. A me, alla domenica, dopo le undici, raccontava, con la leggerezza di un "io" che aveva imparato a navigare in quelle culture, episodi tipici o curiosi con la sua spontanea e gentile confidenza che gli era propria. Gli proposi di scrivere per una mia collana un libro sulla giovinezza che fu un piccolo capolavoro di conoscenza antropologica.
Vedo che ho preso una strada troppo complessa. La memoria non consente di seguire puntualmente la sua ricca produzione intellettuale. Quello che mi pare evidente è che Ugo, oltre alla storia della sua disciplina, seppe dare alla ricerca antropologica sempre la misura adatta quando il livello delle culture, al di là dei metodi à la mode, era affetto da una pluralità di ibridazioni che mutavano l'oggetto e il senso della ricerca. L'antropologia non era più un "rimorso", ma una conoscenza necessaria.
A Milano in cattedra, anche qui seguendo una tradizione positiva, ebbe l'impegno e la disponibilità per formare una scuola di giovani che avevano per lui una grande stima intellettuale è un naturale affetto. Ormai ero troppo vecchio per accostarmi anche in un margine estremo a questo laboratorio.
Gli incontri con Ugo, oramai autorità in quella disciplina, rievocavano nel loro stile quello di tanti anni prima: riproducevano un grande piacere intellettuale e affettivo, "come una volta". Ugo perduto è un grave e definitivo impoverimento della vita, in quello che resta del giorno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 09 MAGGIO 2017 |