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Sintesi del secondo incontro sul tema dell'identificazione del socialismo nelle condizioni odierne: il suo orizzonte, la base teorica, gli indirizzi che lo possono definire, la cultura politica, i soggetti. Promosso dall'Enciclopedia Treccani e dal network "Ripensare la cultura politica della sinistra", si è svolto presso la Casa della Cultura tra:
Roberto Artoni, Salvatore Biasco, Giacomo Bottos, Ferruccio Capelli, Alessandro Cavalli, Francesco Denozza, Mario Dogliani, Massimo Florio, Anna Grandori, Carmen Leccardi, Alfio Mastropaolo, Mario Ricciardi, Gian Enrico Rusconi, Lorenzo Sacconi, Chiara Saraceno, Roberto Tamborini, Carlo Trigilia, Salvatore Veca.
Il primo incontro (qui il report) si è svolto a porte chiuse tra:
Giuliano Amato, Salvatore Biasco, Paolo Borioni, Carlo Carboni, Vittorio Cogliati Dezza, Massimo Egidi, Luigi Ferrajoli, Franco Gallo, Massimo Florio, Piero Ignazi, Marco Marzano, Michele Prospero, Mariuccia Salvati, Walter Tocci, Valeria Termini, Nadia Urbinati.
LA RIPROPOSIZIONE DEL SOCIALISMO OGGI
Casa della Cultura 27 marzo 2017
Mentre il primo incontro ha dato luogo a una riflessione sui connotati, indirizzi di azione, modi di essere e rapporto con le trasformazioni della società che appartengono idealmente a una forza di ispirazione socialista (o socialdemocratica, qui usati come sinonimi), il secondo incontro si è sviluppato attorno a temi più attinenti alla cultura politica e che identifichino "un modo di pensare socialista". Ma i due incontri vanno letti insieme perché la sintesi del primo incontro era noto ai partecipanti del secondo. Lo scopo è sempre lo stesso: ricercare i connotati del socialismo dentro le trasformazioni della società contemporanea e rivalutarne la prospettiva. In quest'incontro i temi sono stati di impostazione di pensiero (la cui agenda è da sviluppare in un terzo incontro) e la prospettiva è stata cercata negli indirizzi di lettura della società e nel modo di affrontare concettualmente i vari profili dell'eguaglianza, nonché il tema dell'impresa e dell'internazionalismo. In entrambi i casi, si è trattato - per porla con Capelli - di immaginare il destinatario in un qualche soggetto politico che sia interessato a ragionare oltre la contingenza immediata, che solleciti nella sua azione quanto nella sua elaborazione analisi e riflessioni approfondite della società, che voglia costruire e perseguire un programma con un rigoroso ancoraggio a idee e cultura della sinistra. Si tratta però, continua Capelli, anche di guardare al di là della relazione con il sistema politico: vi è un problema gigantesco di relazione con l'insieme dell'opinione pubblica, di rilegittimazione e ricostruzione del pensiero critico che richiede di cercare la strada per rafforzare il peso e l'incidenza del pensiero socialista.
Si può introdurre l'incontro proprio da qui, attraverso un tema affrontato alla fine, e relativo all'organizzazione della cultura e alla mobilitazione degli intellettuali, perché in fondo rappresenta anche un'autoanalisi di aggregazioni come il network Ripensare la Cultura Politica della Sinistra o di esperienze come quella della Casa della Cultura di Milano e di iniziative come quelle che hanno impegnato i partecipanti a Milano e a Roma (alla Treccani).
Va premesso che la costruzione di una (contro)-egemonia, non si esaurisce nell'elaborazione culturale e forse non ne è nemmeno il centro. Nella diffusione antropologica di culture interviene l'interazione reciproca tra modi di sentire, pensare e agire a livello popolare da un lato e le sollecitazioni e indirizzi che vengono dai riferimenti politici e dalle leadership dall'altro. Interviene anche il modo in cui è recepito e introiettato lo svolgimento delle funzioni politiche: se involute o aperte, se progettuali o rituali, se mobilitanti o "passivizzanti". Ma l'organizzazione della cultura e delle competenze non è secondaria in quella costruzione anche in una prospettiva di sinistra (Biasco). Basti pensare al ruolo avuto dai think thank nella diffusione e consolidamento delle idee neo liberali, esaminato da Bottos in questa chiave. È significativo, afferma, che oggi in Italia poco sia dedicato alla costruzione intellettuale come capacità di capire e riunire le diverse parti della società. È scomparsa, come rileva Capelli, dall'orizzonte e dagli interessi di una forza politica organizzata del centrosinistra l'idea di un centro culturale che propone riflessione e pensiero critici, che invita a "pensieri lunghi"; in questo momento sarebbe difficile indicare un solo punto di riferimento culturale per la sinistra che sia operante su scala nazionale e a cui sia riconosciuta questa funzione.
È ormai comprovato che gli scossoni della storia non cambiano da soli il quadro di una egemonia (Bottos). Producono solo finestre di opportunità e disponibilità ad ascoltare discorsi alternativi, ma poi, se questi non arrivano da parte delle forze di sinistra, sono altre offerte politiche a far breccia. Non si può pensare che le funzioni tipiche di una partito (nell'elaborazione di politiche, nella costruzione di un consenso attorno ad esse, nel raccordo tra ambiti diversi, nel rapporto col mondo culturale e nella traduzione dei saperi in proposte concrete) siano lasciate a aggregazioni spontanee o organizzate. Né questa implicita delega all'esterno evita che si producano forme a volte elitarie, di marketing, o di volgarizzazione di idee già elaborate, né evita personalismi (visto che alcune forme di organizzazione culturale sono, con altre modalità, modi di personalizzazione della politica). Ben diverse sono le Fondazioni tedesche. integrate ai partiti e riconosciute pubblicamente, verso cui occorrerebbe tendere, come concorda Mastropaolo. La terza considerazione parte da un tema già toccato. Se da un lato abbiamo una fioritura, strutturata e riconosciuta, di centri di elaborazione, una abbondanza di think thank, una dovizia di personale tecnico e intellettuale disponibile a spendere il proprio tempo a servizio della politica e dall'altro un deficit di elaborazione, di strategia, idee e rigore, nonché una difficoltà a comprendere la società, è segno evidente che qualcosa non funziona. E che non funziona la selezione delle persone, delle idee, né la capacità di congiunzione dei due mondi.
D'altra parte, se da un lato vi è un fiorire di reti, associazioni, centri, fondazioni, siti e riviste on line, e dall'altro un deficit di elaborazione nella politica ufficiale è segno evidente che qualcosa non funziona; soprattutto, nella trasmissione, nella committenza, nella capacità di selezione e di integrazione nella politica ufficiale di ciò che gli ruota attorno (Biasco). Un partito ideale della sinistra, invece, dovrebbe curare l'innesco di un fermento culturale, mentre, purtroppo, nel campo della conoscenza e produzione di idee (o di formulazione delle politiche) questo è sostituito da relazioni con consulenti, esperti, rappresentanti di interessi, lobbisti, come, altrettanto, è sostituita dal sondaggio e dall'esposizione mediatica la relazione bidirezionale con la società - prima garantita dalla struttura di mediazione del partito e dal rapporto con corpi intermedi e con gli elettori (Bottos). Oggi andrebbe riflettuto su come è possibile utilizzare e riadattare queste forme di aggregazione mettendo al centro la necessità di una mediazione tra saperi e democrazia. Nell'esperienza della Casa della Cultura, riportata da Capelli, si è trattato - dopo l'evaporazione progressiva di un riferimento politico e dell'inevitabile diffondersi di un disinteresse per la proposta culturale - di ricostruire il pubblico, anzi "i pubblici". Non c'è più un pubblico di sinistra che si riconosce in una narrazione: vi sono tanti pubblici diversi, con molteplici interessi, che devono essere aiutati a riscoprire uno sguardo critico, un punto di vista dissonante rispetto al "pensiero unico".
Qui si è aperta una parentesi di riflessione che avuto per oggetto la rete. Vale la pena riportarla, come questione importante, anche se laterale. Il ripensamento di una funzione intellettuale diffusa potrebbe trovare un fondamentale aiuto negli strumenti virtuali, pur con tutti i problemi che presenta l'uso della rete. Quegli strumenti consentono la costruzione di forme di partecipazione finalizzate allo scambio di conoscenze e alla formazione di comunità reali su presupposti condivisi (Bottos). Non che queste costruzioni manchino, ma, di nuovo, si formano fuori dai partiti e questo fa venir meno la possibilità che trovino una sintesi. La sinistra è in ritardo nell'elaborazione di una riflessione autonoma che problematizzi e metta in discussione la peculiarità dello strumento, come fece in passato con gli altri media. I social network, continua Bottos, per quanto non neutrali e per quanto possano andare in direzione opposta rispetto alla formazione di reti di mediazione e di soggetti collettivi (perché possono anche indurre radicalizzazione nelle cerchie chiuse che portano a rafforzare opinioni specifiche, le cosiddette echo chambers) sono anche luoghi di soggettivazione e di formazione delle identità in un confronto continuo. Per questo un partito che operi a livello culturale dovrebbe organizzare una capacità di interloquire, dialogare e orientare da spendere in quella sede, almeno sulle questioni generali. Se accompagnata da intelligenza organizzativa e immaginazione politica può aiutare a costruire modalità di partecipazione a elevato contenuto di conoscenza, purché ci sia alla base la volontà politica di concepire forme che in natura non esistono. E qui Capelli indica la prospettiva di una rete (intesa come uso del digitale, come Internet, YouTube ecc ) di centri di cultura progressista, ovviamente a maglie larghe e plurale; la prospettiva, cioè, di una collaborazione attiva e operativa tra centri culturali distribuiti nel territorio nazionale, per stabilire modalità di interazione e progetti di iniziativa e di ricerca comuni, in cui ogni centro sia libero di sviluppare la sua ricerca e consolidare le sue relazioni, ma senza sfuggire alla ricerca di linguaggio e proposte comuni.
I connotati di una cultura politica
Nella ricostruzione di una cultura politica, il punto nevralgico è, per Artoni, nella capacità di lettura della società. È necessaria una chiarificazione profonda dei meccanismi di base che muovono il sistema economico-sociale. Senza di essa, emergono idee sbagliate e si perde la capacità di mantenere una visione critica. E, inoltre, si smarriscono le coordinate di giudizio a partire dalle quali sia possibile definire il ruolo dello Stato in una economia tipo capitalistico, di cui occorre discutere i presupposti.
La visione su cui si sono costruite le forme di intervento dello Stato per circa trent'anni dopo la guerra aveva i cardini nell'importanza dei meccanismi di regolazione della distribuzione primaria (più che secondaria) del reddito, nella contrattazione collettiva come strumento di riequilibrio sociale, nel ruolo dello Stato nella promozione dei grandi progetti di sviluppo, nella protezione dei grandi rischi dell'esistenza non assicurabili, nel controllo dei movimenti di capitale destabilizzanti come stabilito a Bretton Woods (e, quando necessario, anche nella gestione della domanda aggregata). Questa visione del ruolo dello Stato nell'economia ha concorso (con altri fattori) alla grande crescita di quegli anni. Poi quella visione crolla negli anni 70-80 quando si comincia ad affermare che i contratti sono fonte di rigidità nel mercato del lavoro e quindi di disoccupazione, che non ci fosse niente di meglio dell'iniziativa privata anche nei grandi progetti di sviluppo, che il Welfare State fosse una sovrastruttura che era meglio privatizzare per quanto possibile, e, infine, che ci dovesse essere libertà dei movimenti di capitale. Su questi nuovi cardini sono state fatte grandi promesse (di sviluppo, di eguaglianza, ecc.). Non c'è bisogno di entrare nel merito di quali siano stati i risultati (negativi) - dalla caduta del tasso di crescita, all'indebitamento, all'insicurezza, all'internazionalizzazione e socializzazione del risparmio come fonte di controllo dei comportamenti - ma le tematiche andrebbero evidenziate una ad una per rimettere a posto le interpretazioni e farne la base di una ridefinizione del ruolo dello Stato e della centralità dei problemi distributivi. Vi è un lavoro di demistificazione da compiere nei riguardi delle distorsioni di giudizio che si sono manifestate in questi anni, perché senza una lettura attenta e appropriata dei meccanismi nascono visioni del funzionamento del sistema economico e si formano idee e indirizzi sbagliati (di cui la sinistra a volte si è appropriata). Egli ne dà poi esempi nella diffusione di idee sul debito pubblico, sulla progressività delle imposte, sul ruolo delle privatizzazioni e sugli effetti di una riduzione del costo del lavoro. Si chiede poi come sia potuto sfuggire che la precarizzazione del mercato del lavoro e la perdita di elementi di protezione sociale influenzassero (e con grande rapidità) la composizione demografica.
Se si trattasse (per Tamborini) solo di rimettere in agenda i presupposti di regolazione del mercato non sembrerebbe un'impresa titanica da concepire, perché stiamo parlando di coordinate del pensiero politico ed economico molto consolidate in cui sono chiare le differenze di ipotesi. Ci vuole più creatività rispetto al passato su come stimolare e regolare il sistema economico e sociale, ma i principi base e gli strumenti ci sono, comunque vogliamo chiamarli, keynesismo, socialdemocrazia o altro, e le basi per una lettura corretta non sono da inventare. Il problema è (per Mastropaolo) che ci siamo infilati, non solo l'Italia ma tutti i paesi democratici, in un labirinto di regole pro-market addirittura su scala sovranazionale, dal quale è difficilissimo sfilarsi. Serve una diffusa convinzione che da un quadro di disagio sociale non si esce spontaneamente, ma attraverso una grande mobilitazione solidale, che sospinga lo Stato a intervenire e a regolare il mercato. E occorre convincere anche coloro che, su un versante diverso, sono preoccupati dall'ascesa dei populisti e dall'ampiezza delle diseguaglianze che la cura va operata alla radice, curando il disagio sociale con una iniezione robusta di socialismo. Compito difficile, ma che bisogna iniziare a svolgere.
Cultura politica e identità collettive
A una cultura politica "socialista" si chiede di fissare, oltre ai cardini analitici, i criteri e le ragioni su cui valutiamo che l'attuale assetto socio economico produce un esito non accettabile e non desiderabile (dal punto di vista dei valori, principi e delle vite vissute delle persone) e chiediamo contestualmente di definire la base su cui riteniamo che quell'assetto sia migliorabile in direzioni che riteniamo giuste, eque ed efficaci. Se non si fissa questo non si può fissare la lista delle cose da fare (Tamborini). Aver considerato ineluttabile ciò che è avvenuto, sol perché è avvenuto, è stato alla base del declino della capacità di egemonia e di proposta. Oggi la cultura politica va ricostruita in reazione a un pensiero critico che ci aiuti a mettere in discussione l'esistente (Leccardi). Con una avvertenza, però, che ella condivide con Ricciardi, che deve assorbire la lezione degli ultimi decenni e assumere una prospettiva anti-deterministica, che faccia i conti con la reversibilità dei cambiamenti e superi una visione iscritta in un orizzonte progressivo della storia, assumendo piuttosto la consapevolezza che ogni conquista potrebbe essere disfatta.
Partendo dalla definizione che dà Veca della cultura politica, "come un modo per riconoscersi e comprendere insieme, condividere modi di valutazione e 'prendersi per mano per agire'", il compito di ultima istanza cui deve adempiere è l'elaborazione di un pensiero che dia luogo alla formazione di identità condivise (quand'anche plurali, ma con capacità di comunicare tra di loro, precisa Saraceno). Questa necessità di costruzione culturale ci è rammentata dalla stessa capacità che ha avuto il neo liberismo di trasformare in identità collettive le motivazioni individuali (di imprenditori di sé stessi, gestori di capitale umano e materiale in un mondo di opportunità) e di legare queste identità all'interesse comune di avere un mercato grande e libero nel quale il singolo potesse affermarsi e riconoscersi come parte attiva (e di conseguenza supporter) di una società che veniva presentata funzionare in quel modo (Tamborini). Questa narrazione egemonica ha trovato un contrasto molto debole. Ma ora è in netto ripiegamento.
Certo, come sottolineato da Veca e da molti altri, l'onere di una costruzione identitaria che coinvolga larghe masse è più alto in una società atomizzata nella quale il paesaggio sociale si è trasformato con la perdita di stabilità nella composizione sociale, con la frammentazione del mondo del lavoro e di altri pezzi della società, con la perdita di riferimenti politici, ma soprattutto con un cambiamento di soggettività. Quella narrazione neo liberista è parte in causa nella difficoltà che i singoli hanno di riconoscere la condizione individuale in quella dei propri simili e nell'offuscamento dell'idea che un diritto per diventare concreto richiede una adeguata azione sociale che lo attualizzi (Denozza ritiene che ciò sia anche l'effetto della retorica dei diritti individualizzati, di cui parleremo più avanti in sede di declinazione dei temi dell'eguaglianza).
Le identità, però, non si fotografano, ma si costruiscono politicamente, Questa è una lezione della storia da tenere con sé. È la politica a dover favorire la costruzione di un consenso e di una soggettività democratica (Veca). Se è vero che l'eterogeneità della società è oggi molto alta e che le soggettività sono plasmate dalla cultura dominante, è anche vero che non vi era minore disomogeneità in altre epoche della storia, e che quando l'idea e le politiche del socialismo si sono generate la società era costituita in maggioranza da braccianti, servi, artigiani e sottoproletari, mentre gli operai erano una sparuta minoranza (Florio).
Era anche la stessa elaborazione di un pensiero e di una politica del socialismo a dar luogo alla costruzione di identità e a far trovare in essa ragioni e motivazioni, come rileva Veca. E Mastropaolo aggiunge che l'immagine della società liquida, cui ha prestato ascolto anche parte della sinistra, è devastante.
Riconnettere la sfera personale e sfera pubblica dal punto di vista del socialismo per Leccardi implica anche lavorare per fare in modo che le soggettività che chiedono oggi riconoscimento - a partire da quelle giovanili, ricche di capacità e competenze, ma condannate a confrontarsi al momento soprattutto con la precarizzazione della vita - possano trovare un'interlocuzione valida nelle istituzioni pubbliche. Solo sulla base di dinamiche di riconoscimento, infatti, è possibile fare in modo che i serbatoi di creatività e di innovazione di cui il sociale è oggi particolarmente ricco (e le pratiche che ogni giorno risultano ad essi collegate) possano essere istituzionalmente valorizzate. Di fatto, creatività sociale e pensiero critico sono oggi da considerare due facce della stessa medaglia. Ed è una spreco sociale se iniziative intraprese spontaneamente da giovani nelle periferie in campo, culturale, artistico, o digitale si spengano da sole se non sostenute in modo adeguato dalla parte pubblica.
Per la verità alcune identità collettive emergono oggi nelle contrapposizioni élite/popolo, giovani/vecchi, inclusi/esclusi (o varie versioni di noi e loro) in cui va dissolvendosi l'identità neo liberale (Tamborini). Occorrerebbe capire se vanno in una direzione che riteniamo opportuna per una società giusta, oppure se vanno in direzione di una società ingestibile. È importante chiedersi quanto quelle identità siano unibili e governabili in una identità comune e se sulla loro base sia possibile, e come, costruire una modificazione dell'assetto sociale.
In mancanza di altre risposte, queste identità embrionali propongono alla sinistra per lo meno due temi: la promozione dei corpi intermedi e quella dell'autogoverno (ma anche di affidarsi alla "politica").
Gli indirizzi politici
Riguardo al primo punto - i corpi intermedi, (discusso in un apposito convegno dal network "Ripensare la cultura politica della sinistra", cui si rinvia con interventi di C. Galli, G. Pasquino, O. Massari, M. Carrieri, G. Moro, I. Cipolletta, M. Luciani, F. Garibaldo, C. Pinelli, N. Urbinati, D. Palano, V. Cogliati Dezza, M. De Ponte, M. Marzano, F. Onida, V. Visco, C. Guerra, S. Belligni, A. Mastropaolo, M. Dogliani, G. Guietti, F. Tassinari, P. Ignazi, S. Biasco), il problema oggi è che le istituzioni sociali (con il loro orizzonte normativo schiacciato sul qui-e-ora) non sono più modelli per l'azione e non consentono di unificare biografie e società (Leccardi). Senza uscire da quel dominio dell'attualità in cui sono immerse, è difficile che i singoli ritrovino il collegamento della vita personale con la memoria storica e collettiva da un lato, con il progetto dall'altro.
Riguardo al secondo - la promozione dell'autogoverno -, è in generale, necessario immaginarci, pur se difficile da prefigurare, un ruolo centrale per forme di controllo sociale attuato per il tramite di istituzioni diverse da quelle statali (per De Nozza, che perora questa necessità, è una conseguenza del disfavore epocale in cui il fallimento del "socialismo reale" ha gettato l'intervento statale nella vita sociale). Le politiche devono, secondo Veca, incentivare a fare socialità e non a sostituirsi a quelle cerchie che già esprimono socialità, specie quelle nelle quali le persone affrontano i costi della partecipazione per fini solidali, ma rifiutano di essere classificate politicamente. La politica deve solo valorizzare e abilitare, secondo Saraceno e fare in modo che queste aggregazioni che costruiscono socialità dal basso (non tutte inclusive, vedi alcune associazioni tradizionaliste, confessionali o territoriali), non diventino esclusionali.
Non sono d'altra parte stati creati, per Mastropaolo, strumenti della politica per cui le persone possano trovare soddisfazione al loro desiderio di contare. La democrazia partecipativa o le primarie si sono dimostrate del palliativi. I partiti sono uno strumento disattivato, pur se occorre provarci a utilizzarli e ricostruirli, e comunque ci sono. La politica è ancora uno strumento a disposizione nonostante la degenerazione cui è strutturalmente soggetta (egli pensa che in fondo Schumpeter abbia ragione nel modo di rappresentarla come dominata dalla finalità dei singoli alla riconferma). Ma si fa politica come si può. La si fa attraverso partite giocate col fine ultimo di togliere potere ad alcuni e darlo ad altri. L'orizzonte - se pensiamo che ci siano correttivi da introdurre (e che il capitalismo non vada piuttosto verso destini di stagnazione secolare che susciterebbero e giustificherebbero alternative radicali) - è quello di dotarsi di un fascio di battaglie da fare (cita ad esempio il ripristino del principio di equità fiscale che elimini i favori ai più abbienti e rafforzi la progressività, l'infrastrutturazione del Mezzogiorno, l'intransigenza sulla scuola pubblica). Se tutto ciò è unificabile sotto l'etichetta del socialismo, ben venga. Ma di battaglie si tratta di cui si capitalizza ciò che portano con sé.
Su questo punto, Trigilia ritiene che non guasti un'indagine politica e economica che guardi alle esperienze delle socialdemocrazie come sono e non solo come dovrebbero essere (o sono state). Non è vero che le diseguaglianze si siano allo stesso modo ampliate o che i partiti socialisti si siano ovunque dissolti o indeboliti allo stesso modo. La tendenza è generale, ma ci sono paesi dove questa è più attenuata e paesi dove è più drammatica. Dobbiamo guardare a quei paesi (che individua nei paesi scandinavi, ma anche Germania e in parte Austria) che hanno cercato di difendere il welfare, le condizioni di lavoro preesistenti, la democrazia economica e dove la voce dei lavoratori nella gestione delle imprese si sente ancora (anche se comporta pure responsabilizzazione). Per quanto tutti i paesi indistintamente siano stati assoggettati a una regolazione intensa delle imprese dalla dimensione sovranazionale dell'economia e dalla minaccia della finanza, alcuni sono riusciti a compensarla almeno in parte con beni collettivi, politiche a sostegno dell'innovazione, scuole professionali, trasferimento tecnologico, servizi. C'è meno da inventare di quel che sembra se si guarda a ciò che hanno fatto paesi che si sono misurati meglio con questi problemi.
A questo, Trigilia lega una tematica che in sé ha una sua autonomia e che è stata discussa lateralmente. Egli ritiene che i paesi dove ancora permane una qualche forma di equilibrio sociale siano connotati da un sistema elettorale proporzionale (corretto o meno). In essi, i partiti socialisti hanno perso terreno, ma sono ancora in piedi e svolgono ancora una funzione di selezione della classe dirigente attorno a programmi. La logica maggioritaria, che ha riscosso tanti favori in Italia, fa spostare la conquista del consenso elettorale (e le politiche) sul metro di un centro mediano e moderato (di elettori che vogliono meno tasse e meno regolazione) e determina una sotto rappresentazione dei ceti popolari e degli interessi deboli. Personalizza necessariamente la politica secondo una logica istituzionale che deve favorire il leader rispetto al partito, e l'esecutivo rispetto Parlamento. In un certo senso dà meno possibilità al compromesso come base della democrazia e all'associazione degli interessi (specie i più deboli) alla gestione delle politiche. Dogliani, di rinforzo a Trigilia, vi aggiunge di ritenere il sistema proporzionale perfino curativo nei riguardi dello stato in cui si trova lo spirito pubblico nel nostro Paese (in quanto induce i cittadini a non essere "tifoserie" ma da dà loro la possibilità di esprimersi attorno a chi rappresenta le proprie preferenze). Altri raccomandano maggiore cautela di giudizio, sia perché va messo sul piatto della bilancia anche la possibilità che il compromesso implichi altrettanto snaturamento dei partiti socialisti, soprattutto oggi non può non avvenire con coalizioni conservatrici (Biasco), e sia perché i sistemi elettorali non possono essere pensati in astratto, e poi precipitati nel contesti politico-sociologici (Mastropaolo). Le riforme istituzionali non sono soluzioni a problemi: sono battaglie politiche in cui, dietro il riferimento a soluzioni tecniche, la posta in gioco è il potere sociale di gruppi diversi, come lo è stata in Italia in tutte le riforme che sono state varate. In più, occorre capire, sempre per Mastropaolo, se i paesi che stanno meglio è perché più virtuosi, oppure perché sono riusciti a scaricare abilmente i propri problemi sugli altri, o a profittare delle debolezze altrui.
L'eguaglianza
Lasciando il tema degli orientamenti politici e riprendendo il filo dei caratteri di una cultura politica che unifica chi si riferisce al socialismo, è stata ampia la concordanza che la stella polare della tradizione del socialismo europeo sia coincisa e coincida con l'impostazione critica del pensiero e con un ideale di giustizia sociale, incentrato su un'interpretazione dell'uguaglianza. È quindi non sorprendente che sul tema la discussione abbia sostato sotto vari profili.
La giustizia sociale, ricorda Veca, è ed è stata nel tempo, e in circostanze storiche differenti, la risposta ai fatti fondamentali dell'ingiustizia nell'ambito della costellazione nazionale e ha mirato a orientare le pratiche dell'emancipazione per ampie frazioni di popolazione, entro e aldilà delle frontiere (Habermas è convinto che l'ideale della giustizia sociale debba essere preservato anche nella costellazione postnazionale, in tempi di incerte e opache transizioni).
Ovviamente uguaglianza è una bandiera politica che fa riferimento non a definizioni giuridiche, ma al riconoscimento del diritto che ciascuno ha di vivere una vita dignitosa e degna (Biasco e Mastropaolo). Che cosa c'è di più egalitario di un efficace sistema di sicurezza sociale che tuteli in caso di bisogno? si chiede Dogliani. E va aggiunto - Mastropaolo esorta a non dimenticarlo - che per la socialdemocrazia storica le politiche di eguaglianza non erano solo poste nella rimozione di ostacoli specifici a realizzarla, ma anche nelle politiche di crescita economica e occupazione o che comunque producevano benessere.
Si possono accettare diseguaglianze, ma all'interno di una cornice di principi normativi e di criteri che dicano quali e perché siano giustificabili e perché orientare nel senso di una qualità sociale più accettabile, ciò che oggi è inaccettabile (Ricciardi e Veca). Se adottiamo il principio della generalizzazione dell'eguale dignità di cittadinanza sociale, proprio della tradizione socialista, - continua Veca - la giustizia come equità ci prescrive lo scopo di ridurre e, al limite, abolire tutte quelle disuguaglianze - in termini di accesso ai beni sociali primari di cittadinanza - che non superano il test della giustificazione. Ed esso, come ci ha insegnato Rawls, consiste nel fatto che le uniche disuguaglianze giustificabili o socialmente accettabili sono quelle cui consegua comparativamente - rispetto a una società egalitaria - un vantaggio per chi in quella società risulterebbe più svantaggiato (in una prospettiva di giustizia come equità, da cui anche teorici influenti nel pensiero socialista del XXI secolo che hanno criticato Rawls, quali Cohen e Sen, hanno comunque preso le mosse). In una visione socialista, continua, ciascuno deve qualcosa a ciascun altro perché i termini della cooperazione sociale siano equi e accettabili moralmente, in primo luogo, da parte di coloro per cui sono meno accettabili. Olof Palme ci ha insegnato: "noi non combattiamo la ricchezza, combattiamo la povertà". E Lichtenberg aveva suggerito nel suo aforisma: "l'uguaglianza che noi esigiamo è il grado più sopportabile della disuguaglianza". Il che, in tempi difficili di impressionanti disuguaglianze entro le società e fra le società, è un obiettivo socialista arduo ma ineludibile.
I volti dell'inaccettabilità sono diversi. Va posta attenzione a non considerare le fonti di diseguaglianza come appartenenti solo alla sfera economica o del potere. Altre sono meno visibili (e non si esprimono - almeno da tempo - in termini di conflitto), ma ciononostante vanno seriamente prese in considerazione in una visione socialista. Quella generazionale è una tra queste per Cavalli. Non si tratta solo del debito pubblico, ma dei consumi ambientali e dei modi in cui le risorse sono destinate in una società (con forte disoccupazione giovanile) che vede la popolazione anziana crescere (e quindi pesare sempre più elettoralmente). Forse - aggiunge Cavalli - dovemmo riflettere su come far pesare di più nelle decisioni pubbliche coloro che hanno aspettative di vita più lunghe. Affrontare questo squilibrio comporta, sempre per Cavalli, una riflessione sulla famiglia, che è indispensabile per chi voglia ripensare il socialismo. Non ne possiamo prescindere perché, indipendentemente dalle forme che essa può prendere, è oggi l'istituzione mutualistica più importante che affronta il fenomeno e ammortizza i conflitti potenziali (in mancanza di altre forme mutualistiche che potrebbero alterare il grado di dipendenza dei giovani). Più che proporsi il suo superamento, la politica dovrebbe includere tra gli obbiettivi di ingegneria sociale quello di aiutare le famiglie a superare il grado di privatezza e a stabilire rapporti sociali all'esterno dell'unità chiusa. Un canale, a proposito, è ripensare la città e le strutture abitative (oggi segreganti se poste a confronto con le case popolari e di ringhiera che intensificavano rapporti di vicinato e di mutua assistenza). Tutto ciò che favorisce la creazione di relazioni sociali "deboli" (weak ties) riduce l'isolamento delle famiglie (oltre ad avere effetti, tra l'altro, sui tassi di attività femminili). Si tratta di forme di auto-produzione di servizi (non semplicemente privatistiche e/o di mercato), quali, ad esempio, i condomini solidali, le forme di mutuo-aiuto, nella cura dei bambini e nell'assistenza degli anziani non autosufficienti e dei disabili, ma anche cose apparentemente "piccole", come la condivisione dei mezzi privati di trasporto e mobilità (il che, ovviamente non esclude la rivendicazione di servizi pubblici). Si tratta, però anche del coinvolgimento nella scuola di comitati di genitori (che ne potrebbero avere la gestione e la custodia fuori dall'orario scolastico) o della presa in cura dell'ambito territoriale più prossimo (strade giardini, ecc,).
Le diseguaglianze di genere si incrociano con quelle di generazione e evocano anch'esse questioni di giustizia sociale. L'orizzonte socialista deve non prendere solo la prospettiva di coloro che lavorano per il mercato con lavoro remunerato (che talora affiora come limite nella narrazione socialdemocratica, come se solo il lavoro salariato conferisse dignità), ma anche di coloro che lavorano per la cura, la riproduzione e per ciò che fa vivere (un punto trattato da Saraceno come prospettiva che talvolta investe la distinzione uomo donna). E' un problema, rileva, di visione del mondo prima ancora che di politiche. Occorrerebbero iniziative che rendano visibile e valorizzino il lavoro femminile prestato gratuitamente (Leccardi). Fa notare che, oltre tutto, anche di fronte al lavoro retribuito, le differenze di genere sono rilevanti (nei filtri all'ingresso, nei blocchi di carriera, nel riconoscimento sociale delle capacità e competenze maturate dalle donne in special modo nei decenni più recenti, e altro ben documentato).
In tema di eguaglianza la riflessione ha riguardato anche il modo di intendere il diritto. È stata una battaglia democratica combattere un diritto eguale per situazioni diseguali, perché un diritto formale e astratto che non tenga conto delle condizioni materiali dei destinatari viola il principio di eguaglianza (Dogliani e Denozza). Ma oggi si è andati avanti, aggiunge Dogliani, al punto che il particolarismo del diritto è arrivato a livelli parossistici, con una inflazione di norme specifiche per gruppi specifici, che non si capisce in funzione di quale obbiettivo o principio vengano varate, se non la discrezionalità del legislatore (nel fisco, nella previdenza, nel lavoro, nell'assistenza e in tanti altri campi). Più si frammenta più si rende i giudici i veri creatori del diritto (cosa c'è di più particolaristico di una sentenza emessa su un caso concreto?). Mentre era giusto combattere l'eguaglianza formale, abbiamo, però, finito per perdere quel tanto di razionalità che l'eguaglianza formale portava con sé, visto che l'idea di eguaglianza nel trattamento dei soggetti è scomparsa senza una ragione alla luce della quale sostenere le differenziazioni. Non che non ci siano situazioni differenziate che necessitano trattamenti differenziati, ma andrebbero quanto meno argomentate in termini di finalità pubbliche e ci sarebbe comunque da guadagnare se il principio di eguaglianza fosse più vincolante.
Non è solo questione di norme giuridiche ma di trattamenti in generale. Oggi, aggiunge Denozza, la quantità dei dati personali è così estesa e fruibile che è possibile cucire addosso ai soggetti trattamenti personalizzati con la pretesa di presentarli come congruenti alle loro qualità e "meriti" (e quindi, in un certo senso, come fattori di uguaglianza).
In base a correlazioni (spesso arbitrarie) si discrimina chiedendo maggiori prestazioni (premi assicurativi diversificati in base a caratteristiche genetiche o somatiche) o riducendo i benefici (niente credito a chi appartiene ad una categoria - ad es., gli obesi - considerata propensa alle frodi finanziarie). L'idea è sempre quella, neoliberale, di spremere il massimo e remunerare in base al prodotto. A quelli da cui non si può spremere niente, niente spetta.
Contro questa così detta "granularizzazione", un progetto socialista deve rimettere al centro l'idea che il prodotto sociale è il frutto dell'attività di tutti, che ciò che conta non è il prodotto di ciascuno in ogni singola situazione, ma l'attività che ciascuno complessivamente svolge e che tutti siamo, nelle diverse circostanze o nelle diverse epoche della nostra vita, a volte forti e a volte deboli. L'esempio più elementare viene dal lavoro stesso: la protezione contro i licenziamenti serve anche ad evitare che il datore di lavoro sprema il lavoratore negli anni migliori, o quando gli richiede peculiare impegno, e poi lo licenzi quando non ne ha più bisogno. Una scuola pubblica serve non solo ad evitare che l'educazione sia monopolio dei più ricchi, ma anche ad evitare che le risorse disponibili vengano impiegate troppo nella educazione dei più dotati (dove ogni ora - lavoro -unità di risorsa rende di più) e troppo poco nella educazione dei meno dotati. Un sistema di protezione collettiva del risparmio e delle pensioni dovrebbe evitare che ognuno sia costretto a tentare la sua buona sorte sui mercati finanziari infettandoli con quell' "appetito per il rischio" che ci ha portato sull'orlo del baratro, come riflesso della rottura di un sistema di controllo collettivo dei rischi.
Lo sviluppo attuale, che va nella direzione opposta, è inquietante anche perché i vari trattamenti "individualizzati" che sono riservati alle persone (che oltre tutto implicano in azione un Grande Fratello) potrebbero sembrare addirittura giusti (del resto Marx ci ricordava che lo sfruttamento non lo si scopre analizzando i singoli scambi di mercato, ma solo capendo le leggi di funzionamento del sistema).
Per rendersi conto dei reali effetti di scelte che nell'immediato sembrano efficienti, e magari anche giuste, bisogna uscire dalla logica della reciprocità mercantile, e adottare una prospettiva che consenta di capire tutta la tragedia di un mondo in cui vengono istruiti solo quelli classificati come più dotati, vengono di fatto curati solo quelli dai cui precedenti sanitari e proprietà genetiche appaia che ne vale la pena, vengono impiegati solo quelli che, contesto per contesto, sono classificati come più produttivi, viene assicurata una dignitosa vecchiaia solo a chi è stato capace di investire nei momenti giusti in fondi pensione opportunamente propensi al rischio. Occorre invece, continua Denozza: 1) che gli esiti del mercato siano corretti attraverso politiche ispirate non dall'idea di esaltare le locali forze e debolezze di ciascuno, ma (parafrasando Marx) dall'idea che la compensazione delle debolezze di ciascuno è la condizione della forza di tutti; 2) che si intervenga sul funzionamento del mercato, ad es. moltiplicando ed estendendo i divieti assoluti di discriminazione che già esistono per i fattori sensibili (razza, sesso, ecc.), e togliendo così ai privati lo sfruttamento di differenze che solo una visione politica complessiva può gestire in maniera accettabile.
L'idea intuitiva, poi, che a ciascuno spetti "ciò che si "merita" (e non chiedersi "perché lo meriti") è stata, come rileva Ricciardi, un opera di mistificazione che ha trovato la sinistra troppo debole nella controffensiva culturale (se non consenziente e perfino convinta che fosse un orizzonte di modernizzazione). In un rovesciamento culturale, si è diffusa, anche a sinistra, la convinzione che la società sia ingiusta perché non c'è la valorizzazione del merito, senza che ci si interrogasse su come si fa a far valere il proprio merito (Saraceno). La quale si chiede; cos'è il merito? I criteri di definizione non sono scritti in natura, ma piuttosto già formati dentro un sistema di cosa sia meritorio e cosa no. Ci si è convinti che bastasse essere uguali ai blocchi di partenza e dare a tutti le risorse per fare la propria corsa e poi accettarne gli esiti, come conseguenza di un verdetto - appunto - di merito. A parte che c'è sempre chi corre in partenza con l'handicap, non si possono ignorare le condizioni della corsa perché le diseguaglianze tendono a riprodursi nel suo svolgimento (attraverso la divisione del lavoro, attraverso il capitale sociale che appartiene alla famiglia, attraverso il colore della pelle e varie altre circostanze). Occorre correggere all'inizio, ma mai dimenticarsi di continuare in corsa. E chiedersi: perché in certi paesi le diseguaglianze di origine sociale non hanno effetti così discriminanti (ad esempio sulle competenze cognitive) come lo hanno nel nostro Paese? (Saraceno).
L'impresa socialmente responsabile
La frammentazione del diritto pone anche un altro tema importante che, seppure non connesso a quello dell'eguaglianza, è unificato dalla stessa visione del mondo, indotta dal predominio neo liberale, e dalla stessa tendenza alla "granularizzazione" in tutti i campi. Riguarda l'instaurazione di un modello di controllo del mercato basato sul governo delle singole transazioni e non su un governo generale delle grandezze macroeconomiche (a livello teorico, Coase, Williamson ecc., a livello pratico l'infinità di leggi e regolamenti che disciplinano i rapporti nei mercati finanziari, i rapporti consumatori-professionisti, le società per azioni, l'antitrust, ecc.), come se le relative realtà non fossero una totalità organica, che in una visione socialista va ricomposta, ma semplici reti di transazioni (Denozza).
Questo porta al tema dell'impresa che ha trovato ampia discussione sulla stessa linea di ragionamento, oltre a porre anch'esso un profilo di giustizia sociale secondo i canoni già discussi (come vedremo più avanti). L'impresa non è un coacervo di contratti individuali con la missione principale, se non unica, di "creazione di valore" per gli azionisti, come tende a rappresentarla la letteratura teorica e una visione liberale (Biasco). Né il suo ruolo sociale si esaurisce nei profitti che crea e nella salute di cui gode, di cui beneficiano secondo quella visione una vasta gamma di agenti (e il Paese nel suo complesso). Essa è piuttosto, continua, parte di un capitale sociale, che dispiega la sua attività in un processo cooperativo. Il che presuppone quindi che essa svolga un ruolo implicito di agente attraverso il quale raggiungere un interesse collettivo di occupazione, produzione, progresso tecnico, stabilità. Presuppone, oltre a responsabilità sociale, che vi sia un presidio/sorveglianza/ausilio/supplenza da parte dello Stato nello svolgimento di tale ruolo. Questa era per lo meno il modo di intenderla della socialdemocrazia storica.
Grandori ritiene che alcuni elementi del quadro normativo già esistente (a partire dalla 'terzietà' della persona giuridica dell'impresa rispetto agli investitori) potrebbero esser valorizzati e integrati per sviluppare una nozione dell'impresa come istituzione di una moderna democrazia.
Il tema della giustizia sociale rientra nelle tematiche dell'impresa nell'ottica dell'approccio delle capacità degli individui (intesa come diritto di accedere a dotazioni qualificanti e come libertà di realizzare la possibilità di "fare e di essere", cioè, di usarle; i così chiamati "funzionamenti" nel senso di Sen). Su questo si impone, per Sacconi, una chiarificazione nella cultura socialista.
Nella sua funzione di efficienza l'impresa trasforma le dotazioni di capacità individuali e collettive in funzionamenti effettivi (vale a dire in realizzazioni, produzioni) che sono la base del benessere collettivo. Se è vero che autorità, e gerarchie sono determinanti dell'efficienza è anche vero che il diritto di accesso a ciò che sviluppa e mantiene le capacità (attraverso il welfare, la formazione o altro) presuppone la possibilità di fruirne senza che ci sia un continuo disfacimento della tela da parte del governo effettivo dell'impresa. Quindi presuppone il diritto - di chi le possiede - di sapere che le capacità sono protette e di controllare che possano effettivamente tradursi in "funzionamenti". L'impresa non può essere conseguentemente un campo sgombro da interferenze legislative, come è talvolta implicato dagli stessi teorici liberali della giustizia. Né la proprietà può essere intesa come disposizione assoluta di un possesso che dà diritto a un potere totalitario, perché la compatibilità con l'idea di giustizia ne limita la facoltà di esclusione e implica la salvaguardia dei diritti di accesso alle risorse e di esercizio della partecipazione che sono indispensabili a garantire le capacità nella sfera del lavoro.
Questo tema non è solo teorico, ma porta al cuore di programmi di ingegneria istituzionale capaci di tradursi in indirizzi di corporate governance, che in vari modi possono realizzare il modello di impresa socialmente responsabile. Ben sapendo, tuttavia, che la responsabilità sociale è un campo di battaglia tra prospettive diverse del governo di impresa (tra quelle dei shareholder e dei stakeholder sui diritti di partecipazione e di sorveglianza, sulle esternalità, sulla remunerazione di tutti i tipi di investimento fatto nell'impresa) e che un bilanciamento (di qualsiasi natura, contrattuale o pubblico) tra praticabilità economica e giustizia sociale è sempre necessario in un sistema di incentivi privati all'accumulazione del capitale.
Un indirizzo in questa direzione, sempre secondo Sacconi, potrebbe portare a rendere obbligatorio in Italia (con apposita legislazione) un sistema di co-determinazione sia a livello societario (consigli di sorveglianza secondo il modello duale) che a livello di stabilimento (consigli di fabbrica). L'esperienza tedesca ha avuto proprio in questo la forza che le ha permesso non tanto la flessibilità dei licenziamenti (ormai assai minore che in Italia), bensì l'organizzazione cogestita del lavoro. Quel modello partecipativo e di cogestione potrebbe essere allargato alle comunità locali con interessi di natura ambientale, ma ovviamente non potrebbe che essere limitato alle imprese di dimensione maggiore e prevedere gli adeguati bilanciamenti per evitare contraccolpi.
Più in generale, indipendentemente dalle dimensioni, il compito potrebbe essere demandato a una norma di diritto societario che introduca doveri fiduciari estesi degli amministratori di ogni società nei confronti degli stakeholder che fanno "investimenti" (di formazione, di territorio, ambiente, ecc.) nell'impresa, lasciando al dialogo sociale la specificazione delle forme di governo che garantiscano l'effettività di questi doveri attraverso gli statuti, i codici etici o all'assunzione di commitment espliciti. Una volta che la specificazione della norma fosse inserita nello statuto essa sarebbe, però, cogente. Tutte le imprese dovrebbero dare conto di come esse realizzano il principio attraverso un obbligo di rendicontazione, attraverso il bilancio sociale e un dovere di sottoporsi alla di verifica di una terza parte indipendente circa l'osservanza. E dovrebbe esserci una politica pubblica volta a sostenere iniziative della società civile per compiere le verifiche necessarie e certificare l'osservanza dei doveri fiduciari e della forma di responsabilità adottata statutariamente dalle imprese (ma anche in grado di riconoscere ad esse anche una patente reputazionale e di sostenere col concorso degli stakeholder la complementarietà tra gli investimenti in capitale umano, manageriale, di conoscenza e - solo alla fine finanziario - che sono le determinanti principali per la produttività: l'impresa non ha solo da perdere).
Grandori ritiene che, ancor prima e indipendentemente da considerazioni etiche o politiche, quelle relative all'efficacia del sistema impresa porterebbero ad allargare molto significativamente la platea di attori titolari di diritti rispetto alla situazione attuale, quali, ad esempio, la presenza di rappresentanti del lavoro in organi in organi decisionali o i l'estensione del diritto di nomina dei Consigli di Amministrazione (e dei compensi agli amministratori) riservati ai soli azionisti.
Tamborini, che condivide l'impostazione di Sacconi, introduce anche un altro profilo di analisi dell'impresa, rilevando che non si può prescindere dagli effetti della sua finanziarizzazione. Attraverso quest'ultima, nei rischi d'impresa viene coinvolto anche chi è impegnato nella produzione. In realtà, l'assunzione dei rischi di impresa è sempre stata presentata come la giustificazione del profitto, ma la possibilità scaricare quei rischi a valle apre una inedita lotta di classe su chi, in ultima istanza, se li deve assumere. Se il fine è la protezione dei rischi dei lavoratori, è difficile pensare che oggi possano essere interamente assorbiti dallo Stato e quindi occorre dirigersi verso forme di assicurazione privata di fenomeni crescenti di rischiosità il cui perno sia in indirizzi democratici del sistema assicurativo e in schemi (democratici) di ingegneria finanziaria, che meritano una riflessione da intraprendere adeguatamente.
Internazionalismo
La prospettiva socialista ha al primo posto dei suoi riferimenti l'internazionalismo - non inganni se il tema è riportato in fondo, perché dall'inizio della discussione è stato ricorrente. Certo, un internazionalismo ripensato in modo discontinuo rispetto al passato e nella prospettiva del "pensiero esteso" (di Kant) che esortava a guardare il mondo dal punto di vista del pensiero di chiunque; non vi è prospettiva socialista se non si adottano anche gli occhi del resto dell'umanità (Veca). Un accenno è stato fatto ai beni pubblici internazionali (la conoscenza) e al capitalismo digitale, che pure occorrerà sviluppare adeguatamente. Ma il tema dominante ha riguardato la necessità di decidere quale sinistra si vuole essere in rapporto agli avvenimenti mondiali. Non si può prendere sul serio una prospettiva socialista senza tener conto che eravamo 2 miliardi e siamo passati 7 miliardi nell'arco di una generazione. Malgrado i 7 miliardi e faglie di inimicizia e di guerra che lo percorrono, il mondo è in un certo senso più piccolo. Se non si tematizzano bene i rapporti tra il quinto della popolazione che vive nel mondo bene o male benestante e i 4/5 che vivono altrove è difficile pensare al socialismo in termini adeguati alla nostra realtà (Cavalli). Né ì grandi temi della diseguaglianza possono più essere visti trascurando le diseguaglianze territoriali (anche interne ai paesi ricchi o di un singolo paese).
Anche in un ambito più ristretto, europeo, è irrealistico pensare che alcune questioni poste dalla prospettiva della giustizia sociale, e che evocano un socialismo possibile, possano essere risolte dentro contesti nazionali, dove le risorse di autorità politica esercitabili in una democrazia di natura pluralistica sono troppo deboli rispetto ai poteri sociali (soprattutto finanziari) (Veca).
La forza di una grande visione politica si misura proprio su questo terreno. E qui Rusconi prende a riferimento (negativo) la socialdemocrazia tedesca, quella da cui abbiamo tratto i grandi principi di oggi e, soprattutto, l'idea del capitalismo organizzato. Oggi vive l'handicap di essere totalmente concentrata sulle questioni interne rinunciando alla grande politica internazionale e delegando al suo partner di governo la politica verso l'esterno (non solo la politica europea). Se è incapace di cogliere che la dignità del lavoro è legata al contesto internazionale delle politiche e di capire che il problema dell'euro è più grande dei problemi legati alle questioni interne (e che non è un problema da lasciare alla Merkel), la socialdemocrazia non ha capito niente nel giudizio di Rusconi. Che socialdemocrazia è quella che si preoccupa solo di far star bene i propri concittadini?
© RIPRODUZIONE RISERVATA 29 GIUGNO 2017 |