Alberto Saibene  
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IL PAESAGGIO ITALIANO AL CINEMA


Come un tempo la pittura, insegna a guardare le trasformazioni



Alberto Saibene


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Per ricostruire le trasformazioni del nostro paesaggio il cinema è uno strumento formidabile fino ad ora poco utilizzato. Ho preso in considerazione il cinema italiano dagli anni '30 a oggi, conoscendo troppo poco il cinema muto che, secondo una vecchia classificazione, si divide tra gli eredi di Lumière, il cinema documentario, e di Méliès, il cinema fantastico, di invenzione. E in particolare mi riferisco al cinema di finzione, non al documentario, per la ragione principale che è uno specchio inconsapevole, quindi tanto più ricco di segni che entrano nell'inquadratura, della nostra società. Dal Romanticismo, quando cioè l'idea attuale di paesaggio arriva nella nostra Penisola, fino ai primi del Novecento, gli italiani hanno guardato al nostro paesaggio attraverso la storia dell'arte. Da Giotto fino alle piazze di De Chirico e alle periferie di Sironi, è stata la pittura a insegnarci a guardare le trasformazioni del nostro territorio. A un certo punto del Novecento il cinema sostituisce la pittura, anche perché questa vira verso l'astratto, seppur, come ha fatto qualcuno, accostare un taglio di Fontana a una foto aerea dell'Autosole che attraversa la pianura padana è certamente un esercizio stimolante.

Sul cinema italiano degli anni del fascismo ha gravato a lungo una maledizione che si fatica a sfatare e si riassume nella formula del "cinema dei telefoni bianchi", commedie che si svolgono in un mondo artificiale, spesso un'immaginaria Ungheria art déco, dove la realtà non fa capolino. Il più illustre storico di quel cinema, Francesco Savio, nome d'arte che nascondeva il cognome Pavolini, poco spendibile nel dopoguerra, si arrabbiava moltissimo e sfidava chiunque a trovare un telefono bianco nelle inquadrature di quei film.

Un po' di realtà, quindi un po' di paesaggio, era però filtrato nel cinema italiano al passaggio tra muto e sonoro. Opere di propaganda come Sole (1929) di Alessandro Blasetti , sulla bonifica delle Paludi Pontine, o Acciaio (1933) di Walter Ruttmman, celebre regista tedesco chiamato a illustrare l'impianto siderurgico di Terni (al film collabora Luigi Pirandello). Penso anche al magnifico Rotaie (1929-30) di Mario Camerini che ha un'ambientazione urbana degna delle fantasie divinatorie di Fritz Lang e che immagina un primo paesaggio della modernità e, dello stesso regista, il successivo Gli uomini che mascalzoni (1932), dove il Novecento milanese si specchia nei nuovi quartieri residenziali, nei padiglioni della Fiera e nel volto simpatico di Vittorio De Sica. Si potrebbe aggiungere Treno popolare(1933) di Raffaello Matarazzo che racconta una dopolavoristica gita Roma-Orvieto e nel quale si scorgono alcuni tratti della campagna e delle prime periferie romane, da confrontare col romanzo omonimo e contemporaneo di Paola Masino. In questi film c'è lo zampino, e anche di più, di Emilio Cecchi, per qualche tempo a capo della Cines, allora la più importante casa di produzione cinematografica di casa nostra. Conservatore aggiornatissimo - fu a Hollywood all'inizio degli anni Trenta -

Cecchi mette in mano a Blasetti, che sta per girare 1860 (1932), le Noterelle di uno dei Mille di Giulio Cesare Abba per scrupolo documentario e paesaggistico. Un allievo di Camerini, Mario Soldati, ha molta cura nell'ambientare nei luoghi, il romantico lake district italiano, i due suoi bellissimi film fogazzariani: Piccolo Mondo Antico (1941) e Malombra (1942). Anche Soldati è un devoto di Cecchi che, come sappiamo, è il principale sostenitore del recupero dei valori formali della pittura italiana dell' Ottocento.

Siamo già negli anni di guerra e proprio tra 1942 e '43 si girano due film che risultano decisivi per un nuovo approccio al paesaggio italiano. In quell'anno Luchino Visconti gira Ossessione ad Ancona e nella piana ferrarese e, a pochi chilometri di distanza, Michelangelo Antonioni ritorna sui luoghi dell'infanzia girando un breve documentario, Gente del Po, dove, raccontando la vita attorno al fiume, c'è già tutto il suo cinema; per Visconti il paesaggio ha soprattutto funzione di specchio delle sensazioni dei personaggi. Per entrambi comunque è forte l'influenza figurativa del cinema francese del Front populaire (Visconti fu assistente di Jean Renoir sul set di Une partie de campagne, 1936, omaggio figurativo del figlio al padre Pierre Auguste). Sul fronte delle riviste di cinema italiane, luogo di formazione, negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, di tanti dei registi del dopoguerra, c'è la riscoperta di Verga - ancora non si conosceva la sua opera di fotografo - col verismo adoperato come strumento per tornare alla realtà dopo anni di asfittici interni stile Novecento.

Dopo l'8 settembre la parte ufficiale del cinema italiano si trasferisce a Venezia, chi resta a Roma deve inventare espedienti per poter girare - Cinecittà non è agibile, c'è poca pellicola, gli attori più famosi sono scappati al Nord - è così che, casualmente, nasce Roma città aperta (1944) e, con esso, il neorealismo. Rossellini, uomo di grande intelligenza pratica e vero artista, teorizza ex post questo nuovo modo di fare cinema con il successivo Paisà (1945), che è la cronaca drammatizzata della Liberazione, ma anche la scoperta di un paesaggio sconvolto, risalendo dalla Sicilia a Napoli, Roma, Firenze (dove i partigiani utilizzano il corridoio vasariano per attraversare l'Arno, essendo tutti gli altri ponti minati dai tedeschi), all'Appennino tosco-emiliano, fino al delta del Po, vero esempio di cinema di paesaggio.

Registi, sceneggiatori, scrittori - il cinema da quel momento diventa la più importante espressione artistica in Italia, almeno fino alla metà degli anni Settanta - prendono coscienza che c'è da mostrare un paese nuovo, storie di gente comune, ma anche paesaggi urbani e agricoli ancora sconosciuti ed "esotici" agli occhi degli stessi italiani. È in quel momento che il cinema sostituisce la pittura come strumento di osservazione della realtà, quindi del paesaggio. Scrittori, giornalisti, architetti, donne che lavorano, nobili, avventurieri: Roma diviene il luogo di coagulo di una nuova generazione a cui andava stretto il mondo di ieri. Il metodo di lavoro è stato raccontato, tra gli altri, da Suso Cecchi d'Amico, grande sceneggiatrice e figlia di Emilio. Dalla lettura dei giornali si rubava uno spunto di cronaca, si scriveva rapidamente un soggetto - lo specialista era Zavattini, il motore del cinema italiano di quegli anni - e lo si depositava in SIAE. Se il film partiva, il produttore dava qualche soldo al regista e a uno sceneggiatore per fare i sopralluoghi, che erano il momento fondativo di questo nuovo modo di fare cinema.

Periferie urbane (Ladri di biciclette, 1948, e Miracolo a Milano, 1951), bassi napoletani (Proibito rubare, 1948), una Sicilia da film western (In nome della legge, 1949) o verghiana (La terra trema, 1948), le risaie del vercellese (Riso amaro, 1949), le zone insalubri e paludari (Caccia tragica, 1947 e Il cielo sulla palude, 1949), il Lido di Ostia (Una domenica d'agosto, 1950, La famiglia Passaguai, 1951), altri viaggi in Italia (È primavera, 1949 o Il cammino della speranza, 1950), la Livorno occupata dagli americani (Senza pietà, 1948 e Tombolo paradiso nero, 1947). Ma i fotogrammi che fanno più impressione sono le sequenze iniziali de La vita ricomincia (1945) di Mario Mattoli nei quali Fosco Giachetti si muove tra le macerie di Cassino. È il vero anno zero del cinema italiano e forse di una parte del nostro paesaggio. O, per sdrammatizzare, vale la pena ricorrere al cinismo di Longanesi che di fronte alle città distrutte chiosò: "hanno distrutto gli originali delle lastre di Alinari".

Il neorealismo stufò ben presto il pubblico che gli preferiva i film americani, ma è interessante notare ai nostri fini che la pietra tombale su quell'epoca la misero due film di successo che vennero accusati dalla critica di "neorealismo rosa", e che raccontano di un'Italia rurale di cui si sentiva la necessità di spezzare l'isolamento ma di conservarne i valori. La popolazione, ancora in gran parte occupata nell'agricoltura, si riconobbe in Due soldi di speranza (1949), girato a Boscotrecase, nell'area vesuviana, da Mario Castellani, ma ancora di più in Pane amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, con la Lollobrigida e il Maresciallo De Sica, girato a Castel San Pietro Romano, che nel film si chiama Sagliena. Quello che vediamo è un paesaggio ancora intatto, fatto di piccoli appezzamenti, anche se proprio in quegli anni, e in uno dei film della serie se ne parla, vengono asfaltate quasi tutte le strade che dalla piana portano in Appennino. Per ironia della storia, quelle strade saranno poi utilizzate dalla popolazione per lasciare i paesi e scendere in pianura. Sono gli anni della Riforma agraria, dell'INA Casa, dello scandalo dei Sassi di Matera e della costruzione del borgo della Martella. In una parola del welfare democristiamo che qualche merito lo ha avuto, e la cui vicenda va cercata nei documentari pagati dalla committenza pubblica, alcuni molto belli e dove si fanno le ossa i registi del "secondo neorealismo", mentre il mondo contadino meridionale che muore viene filmato in 10 straordinari cortometraggi(1955-1959) - si fatica a chiamarli documentari - del grande Vittorio de Seta.

L'accelerazione della società italiana, gli anni del boom, sono sintetizzati in tre capolavori, che furono anche successi al botteghino, usciti tra il 1959 e il 1960. Ai nostri fini il più pregnante è Rocco e i suoi fratelli (1959) di Luchino Visconti, con l'esplorazione delle nuove periferie industriali milanesi, che in realtà erano in buona parte ancora in costruzione, sulla traccia dei romanzi di Giovanni Testori e della campagna fotografica di Mario Carrieri (Milano, Italia) che tratta Milano, e l 'incipiente società dei consumi, come William Klein osserva New York. Il secondo film è L'avventura (1960) di Antonioni, un film sopralluogo, che ci mostra i paesaggi intatti di Noto e delle isole siciliane. Pochi ricordano l'inizio nel quale il padre di Lea Massari è alle prese con una lottizzazione che ha sullo sfondo il Cupolone. "Qui c'era un bosco" dice Renzo Ricci immerso in un terrain vague, che è una delle cifre ricorrenti del cinema di quegli anni. Il terzo, quasi tutto girato in interni (ma c'è l'EUR, Fregene), è La Dolce vita (1960) di Federico Fellini, che narra in presa diretta la mutazione antropologica degli italiani: gli indizi paesaggistici sono, a parer mio, l'uso della luce artificiale (i neon, l'illuminazione stradale e gli occhiali da sole che Mastroianni indossa giorno e notte) che alterano la percezione del paesaggio.

Gli anni del boom sono una convivenza di vecchio e di nuovo, di paesaggi che si trasformano in mezzo a facce antiche. L'esempio più acuto si trova nei primi celebri film di Pasolini, girati tra il 1961 e il 1963, con l'utilizzo delle nuove periferie (Accattone, Mamma Roma, La ricotta ). C'è anche un controcanto ironico nel monologo di Franca Valeri in Parigi, o cara (1962) di Vittorio Caprioli, scritto insieme a Raffaele La Capria, che detesta gli storici palazzi del centro di Roma ed esalta i funzionali palazzoni delle neonate periferie. Ma è anche interessante notare che l'unico paesaggio 'moderno' romano a disposizione dei registi, tolto l'aeroporto di Fiumicino, resta l'EUR, come illustra Fellini nell'episodio Le tentazioni del dottor Antonio, episodio di Boccaccio 70 (1962) con Peppino De Filippo e Anita Ekberg ed Elio Petri ne La decima vittima (1965), precoce e solitario film di fantascienza che mescola l'EUR agli scavi, credo, di Ostia antica.

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14 SETTEMBRE 2017

 

 

 

 

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