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Esiste un ruolo in cui, da secoli, si concentrano i fuochi della scena teatrale. Eppure, la sua uscita allo scoperto non è mai tale, se non per rari istanti di notorietà, magari conseguiti passando attraverso altri mestieri che il cosiddetto senso comune riconosce e accerta in virtù di profitto e continuità. Sì, perché quello che la consuetudine del pensiero, anche il più involontario, identifica con il ruolo di chi scrive - ecco ciò di cui parliamo - è sovente concepito come propaggine di una passione temeraria e non come professione, o già vocazione accolta, scelta e difesa da molte ombre di precarietà.
Chi scrive per la scena sa riconoscere quello sguardo, a metà tra l'ammirato e il compassionevole, che gli si rivolge non appena dichiara impavido di occuparsi di drammaturgia e, a quel punto, l'affare si complica. Dall'apprezzamento partecipe e affabile, il volto dell'ignaro deuteragonista si contrae in un'espressione che cova l'ormai leggendaria esclamazione manzoniana: "Carneade! Chi era costui?". E allora si fa gravoso spiegare, motivare, se non addirittura scansare la tentazione di ribollire di rabbia. Ci si ritrova a definire un lavoro che ha sì le radici nella passione, ma dovrebbe fondarsi su una tradizione riformata che anzi, lo dimostra proprio il disorientato interlocutore, non ne sa incardinare la pregnanza artistica, pedagogica, produttiva e, perché no, d'ufficio.
Non è però questa la sede per fare i dovuti distinguo tra la scena italiana e quella tedesca in cui, nel solco tracciato dai drammi e, soprattutto, dagli scritti di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), prende vita l'altro profilo di dramaturg, separato da quello di drammaturgo, che meglio non si potrebbe tratteggiare se non con le parole di Claudio Meldolesi: "Il dramaturg dà sviluppo alle scritture come se fossero fatti di vita". Il suolo comune alle due figure, l'una germanica e codificata entro le istituzioni, l'altra nostrana e transitoria, è l'adesione a un processo collettivo.
Se allora il drammaturgo è per definizione l'autore di un testo, diviene dramaturg nel momento in cui accetta di aderire al patto creativo di costruzione di uno sguardo unanime, pur nei particolarismi di registi e attori. Non è un triangolo inedito quello che lega drammaturgo, regista e attore, ma la relazione che ogni volta si riattiva, e che prova a fare tesoro della dialettica corpo-psiche descritta da Lessing per cui dramma significa azione, deve necessariamente rinnovarsi e aprirsi a un pubblico che ne registri il racconto, i caratteri e la determinazione del disegno generale. Sono i termini della poetica aristotelica a tornare in questo discorso e, a mio avviso, sono anche le costanti della nascita e dello sviluppo di un testo per la scena.
I processi drammaturgici, fatti di molteplici proposte di scrittura e di altrettanti rigetti, mutano a seconda dell'origine del lavoro, ossia se da testo approntato su improvvisazione attoriale e successiva formalizzazione discussa con il regista, o piuttosto dalla rivisitazione di un copione originale, o infine da un "classico", cui si affianca l'eventuale adattamento o riduzione di uno scritto letterario. In quest'ultimo caso di contrazione peculiare della parola, da intendersi scenicamente come pronunciata e giustificata negli atti, sempre Lessing annota l'urgenza di mirare alla sintesi tra letteratura e teatro affinché l'una non domini sull'altro e viceversa. Precondizione ugualmente doverosa, secondo il drammaturgo tedesco, è poi la considerazione del pubblico dotato di una consapevolezza critica e sociale. Un'anticipazione illuminante, diremmo oggi, del ruolo attivo dello spettatore brechtiano, non più sospeso alla propria catarsi emozionale o inerte di fronte alla riproduzione del reale, ma appunto autonomo assertore di giudizi.
Il segno alto della scrittura letteraria non rappresenta inoltre un gigante informe con cui è impossibile fare i conti in scena: occorrerà avviare la riscrittura, l'adattamento o la riduzione e, per prima, la traduzione, se si tratta di un testo in lingua straniera, registrandone il processo costruttivo o matrice da preservare e insieme svolgere assegnando alle parole degli appuntamenti scenici precisi.
Si renderà cioè vitale ritradurre, avvalersi di sottotesti e immaginari utili all'attore per sciogliere i nodi di stile, il più delle volte sofisticato e denso, dando maggiore respiro alle frasi e individuando una partitura gestuale, sensoriale o sinonimica di sostegno e comprensione del narrato, così da favorire la convergenza tra intreccio letterario e conflitto drammatico. Ciò comporterà il rischio di una stesura inconclusa o permanente, distribuita su numerose fasi mai definitive, non solo perché a servizio dell'opera prima, ma anche per l'impossibilità di evitare l'irrompere dello stile di chi riscrive o adatta.
Se, a questo proposito, lungo il bivio arduo a risolversi tra libero adattamento e riscrittura, il calco del drammaturgo - o dramaturg, secondo il contesto e le modalità di svolgimento della scrittura scenica - prevarrà sull'opera che ne ha fornito lo spunto e motivato la maieutica collettiva, non si finirà per puntare esclusivamente a una drammatizzazione fedele agli ingranaggi narrativi. All'identità di un gruppo di lavoro e all'impronta letteraria del corpo testuale potrebbero anzi corrispondere struttura, ritmo e forma di una scrittura altra, dotata di accenti che deviano radicalmente dall'originale nella prassi compositiva e di messa su palco.
"Distillare l'invisibile della scena" scrive ancora Meldolesi e, tra intuizioni e abbozzi, margini relativi di autorialità e interazioni più o meno complici, non è solo del dramaturg, ma anche del drammaturgo il farsi traduttore di linguaggi e tramite di una parola in divenire che, dalle vette liriche e grottesche di Gabriel García Márquez, come dalla irrequietezza dell'avventuriero Jack London, o piuttosto dagli archetipi fiabeschi e dal grido lucido di Arendt, non smette di salvare e rivitalizzare itinerari impensati, prossimi a un canovaccio d'attore e alle visioni di un regista. © RIPRODUZIONE RISERVATA 30 OTTOBRE 2017 |