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Ho letto il libro di Montanari (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell'Italia senza verità, EGA-EdizioniGruppo Abele 2017) con grande curiosità anche perché sul ruolo degli intellettuali ho scritto (cfr. Le distorsioni nel modo di concepire la funzione intellettuale nell'organizzazione politica, in Per una sinistra pensante. Costruire la cultura politica che non c'è, Marsilio 2009 cap 5).
Si legge di un fiato, trascinati dalla passione civile dell'autore. Come dargli torto sull'omologazione culturale che si irradia dai media, dalle Università e dalla scuola, sul mercatismo che invade la politica culturale?
Il libro si apre con una denuncia vibrata del silenzio (o tradimento) degli intellettuali di fronte alla modifica della costituzione e di tutto quello che vi ha ruotato attorno. Molti sono gli episodi aneddotici rivelatori, molte citazione illuminanti di brani di autori.
Certamente sono stato trascinato su tutto. Eppure, arrivato in fondo, ho sentito un senso di insoddisfazione, le cui ragioni solo a poco a poco sono riuscito a decifrare. La più importante è la concezione stessa dell'intellettuale che emerge. È una concezione individualistica dell'intellettuale come colui che, conquistata un'attenzione nell'opinione pubblica, la usa per far sentire alta la sua voce e gridare la verità. È ovvio che salutiamo con gioia quando ciò avviene, ma il modello è ti tipo "azionista". I suoi eroi positivi, non a caso, sono star dei media che hanno fatto questa o quella denuncia contro le degenerazioni del potere. Io penso, però, alle funzioni intellettuali come funzioni collettive non elitarie; funzioni di costruzione di una ragione e di tasselli utili alla sinistra, che mettano assieme il maggior numero di individualità possibili e curino le varie sfaccettature dei temi con l'intento di farle penetrare nella cultura degli strati più sensibili dei militanti, dei giovani, della popolazione più acculturata. L'intellettuale è per me una figura che costruisce con altri intellettuali e a stretto contatto con i suoi referenti impliciti o espliciti. La funzione intellettuale si esplica maggiormente nell'organizzazione della cultura, nella capacità di costruzione di legami interni a singoli mondi in funzione critica, di voci collettive capace di imporre un ragionamento riflessivo o una presa di posizione, una prefigurazione del futuro, un indirizzo programmatico, un contributo nella formazione (non fraintendetemi, non sto facendo riferimento agli "appelli", ma a network, centri, iniziative di formazione e analisi, iniziative editoriali e quant'altro). E ovviamente, capace anche di marcare quell'impeto morale, che Montanari associa alla funzione intellettuale. La vox clamantis in solitario è meno utile.
"L'intellettuale deve gridare la verità". È indubbio. Ma anche qui qualcosa non quadra. Un po' più di cautela occorrerebbe nel non identificare in modo assoluto la verità con ciò che individualmente viene pensata come tale. Condurre battaglie culturali e politiche per ciò in cui si crede è sacrosanto e doveroso (chiamando altri a farle assieme, come già detto). Fare della propria verità e convinzioni la cartina di tornasole per dividere il mondo in buoni e cattivi, senza appello alcuno e senza alcuna concessione per questi ultimi, non mi piace. "Chi non è con me è contro di me". E un opportunista o traditore. La verità è ciò che io penso. Per quanto condivida ogni frase di condanna alla riforma costituzionale (ma è difficile ascrivere tutta la sinistra la vittoria del No al referendum) non mi ritrovo nella sottrazione di una patente di sinistra a chiunque - purché sinceramente tale - abbia votato Si. Ne conosciamo tanti, tutti noi. E ne conosce tanti anche Montanari se non fosse proiettato in una battaglia tra star. Penso che sbagliassero a votare sì, ma guai a non sforzarsi di capirne le ragioni e la visione di esigenze del paese che muovevano quei convincimenti (non il semplice asservimento al potere, come è quasi esplicito nel libro). Il manicheismo non giova a nessuno.
Da ultimo, ho seguito con sincera adesione (e anche con divertimento) la sua brillante requisitoria contro le logiche di storytelling introdotte nella gestione dei beni culturali. Ma anche qui alla fine ritrovo un certo assolutismo. Che non sarebbe tale se Montanari si sforzasse di indicare vie alternative che - mettendo al centro la sacrosanta salvaguardia degli sforzi didattici e di diffusione di conoscenza diffusa e consapevolezza storica che promana dal nostro patrimonio artistico - non siano solo a carico del bilancio pubblico.
Fatte queste riserve non vorrei dare l'impressione che non sia un libro da leggere. Va letto. La passione civile e morale che emana è quanto di più necessario vi sia in questo momento. Forse, finita la lettura, non tutti gli argomenti rimarranno nella testa del lettore che lo ha seguito nelle sue brillanti polemiche, ma la necessità di pensare controcorrente sì. © RIPRODUZIONE RISERVATA 31 OTTOBRE 2017 |