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1. Nei periodi di cambiamento è inevitabile guardarsi indietro; accade tanto alle persone quanto alle comunità, obbligate o disposte a ridefinire i propri valori. La cultura è il campo privilegiato in cui la riconfigurazione può interessare contemporaneamente i singoli e la collettività: gli uni trasferiscono all’altra idee ed esperienze, ricevendo in cambio, dal confronto e dal negoziato, altre idee e altre esperienze. Il ruolo delle istituzioni culturali, come la scuola e l’editoria, dovrebbe essere quello di garantire questa dialettica; non è un caso perciò che, in tempo di crisi o rinnovamento politico-economico, la cultura sia evocata come emblema della svolta o corpo del sacrificio (in Italia è stata spesso l’una e l’altra cosa insieme). In questi mesi, le sorti dell’editoria italiana sono all’ordine del giorno, non solo nell’agenda finanziaria: prima a causa del ridimensionamento drastico di case editrici storiche, poi in vista della probabile fusione tra i maggiori gruppi del Paese.
Effetto collaterale e segno premonitore di questa riconfigurazione in atto è l’interesse per i protagonisti e i costumi del mondo di ieri; in un contesto tanto mutato, e tutt’ora in trasformazione sul piano globale, si sono infatti moltiplicate negli ultimi anni le pubblicazioni sulle imprese editoriali del passato e sulle figure illustri – fondatori, autori, consulenti – di quella gloriosa civiltà del libro: basti citare le lettere di Alberto Mondadori (recensite in questo numero di «Alias»), le raccolte dei verbali einaudiani, le expertises dei lettori eccellenti (Calvino, Sereni, Cases). Appartiene al filone anche il recente volume Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991, a cura di Tommaso Munari. Prefazione di Ernesto Franco, Torino, Einaudi, 2015, pp. 443.
È inevitabile, dicevo, volgersi all’indietro. Ma è anche utile? Se l’è chiesto, recensendo proprio Centolettori, già Sebastiano Vassalli, che con Giulio Einaudi ebbe un rapporto diretto (rievocato ora in appendice alla nuova edizione del suo L’oro del mondo) e che all’insegna dello Struzzo ha pubblicato per decenni. La domanda è legittima, ma la risposta non può essere tutta idiosincratica; occorre prima chiedersi: che cos’è Centolettori? Prima di tutto è un libro prezioso per la storia della cultura italiana del Novecento: tra i consulenti ci sono Giaime Pintor e Ernesto de Martino, Massimo Mila e Norberto Bobbio, Roberto Bazlen e Gianfranco Contini, Ludovico Geymonat e Carlo Ginzburg, oltre ai molti scrittori della redazione Einaudi. La cura affidabile di Munari (sua anche l’edizione in due volumi degli einaudiani Verbali del mercoledì), che ha selezionato poco meno di duecento pareri in un corpus più vasto conservato presso l’Archivio della casa editrice e in altri fondi pubblici e privati, fa inoltre del volume un contributo importante di storia dell’editoria, corollario agli studi di Turi o Mangoni.
Forse la domanda ancora più urgente è però un’altra e cioè: che cosa non è questo Centolettori? Innanzitutto non è un libro di critica; l’opinione sintetica di un pur grande consulente non sostituisce la storia e l’analisi letteraria, guardate oggi con crescente sospetto dagli editori. Ma proprio il suo non essere studio critico fa di Centolettori un libro utile: ricorda infatti a tutti gli attori della scena editoriale che la scelta implica una responsabilità culturale. Nei pareri dei lettori einaudiani emerge questa consapevolezza, che prevale spesso su gusti, divergenze di metodo, valutazioni commerciali (che peraltro spettano solo marginalmente ai consulenti esterni): se un libro è utile, ricevibile da un pubblico, coerente con una visione della cultura e con il programma dell’editore, allora vuol dire che è un libro da fare.
D’altra parte, Centolettori non è neppure una guida o un ritratto dell’editoria presente, che si trova a operare in un contesto economico, tecnologico, socioculturale diverso da quello del cinquantennio in cui sono stati formulati i pareri di lettura qui raccolti. Ma anche per quest’aspetto il non essere, o l’essere qualcosa d’altro, rappresenta un punto di forza. I consulenti esistono ancora, così come gli editori in senso proprio: non sono scomparsi, come si potrebbe credere interpretando male la formula di Schiffrin («editoria senza editori»), neanche dentro i grandi gruppi, dove restano figure che scelgono, decidono, scommettono, svolgono in tutto e per tutto un lavoro culturale (oltre che gestionale). Un lavoro che, di nuovo, implica responsabilità; perciò può essere istruttivo capire come quel compito venisse assolto da esperti di rango.
La prima cosa da osservare è che gli esperti erano (e dovrebbero sempre essere) tali nelle rispettive discipline: gli scrittori valutavano altri scrittori, gli storici altri storici, i letterati altri letterati. Ovvio, ma non così tanto: oggi per esempio chiediamo pareri di letteratura ai matematici, di sociologia ai letterati, di poesia ai cantanti e via discorrendo. Quali criteri e prospettive prevalgono nelle schede dei ‘cento lettori’? Per alcuni (Alicata, Ernesto Rossi) conta all’inizio la compatibilità con il contesto politico; altri esprimono con toni perentori il proprio gusto, mai svincolato però dalla lucidità del giudizio. È il caso di Pintor, che nel ’43 valuta i nomi per una collana di poesia: Luzi «non si capisce dove voglia andare a parare», Sereni gli appare «ancora indeterminato». Giudizi severi, ma più o meno condivisibili a quell’altezza cronologica.
Apprezzabili anche l’autonomia rispetto alle influenze francesi o inglesi, rivendicata anche a costo di brusche liquidazioni (per Renato Solmi, Mythologies di Barthes risentirebbe del «crescente provincialismo della cultura francese») e il poco ossequio verso figure già in via di canonizzazione e oggi più citate che discusse (si vedano i pareri di Cases e Bazlen su Benjamin). Se le schede di Natalia Ginzburg sono le più scontrose e soggettive (Maria di Lalla Romano è «il primo manoscritto che le piaccia davvero», il titolo Casalinghitudine di Clara Sereni «lo trova orribile»), quella di Clara Coïsson (lettrice d’italiano a Riga tra anni venti e trenta), sulle Radici storiche del racconto di fate di Propp, è la più utile e apprezzata. Brillanti sono poi le schede di Calvino (giudicante e giudicato: si rileggono qui i pareri celebri di Pavese sui Sentieri dei nidi di ragno e di Vittorini sul malriuscito Bianco veliero), di Manganelli (ferocissimo contro Doris Lessing: «i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni»), di Lucentini (che scrive in francese una specie di operetta morale per stroncare l’Adventure into the Unconscious di J. Custance). Non mancano le concessioni perplesse («ahimè, púbblichisi», sentenzia Sanguineti a proposito delle Comiche di Celati) e, col senno di poi, gli errori di valutazione: Bazlen, che scrive peraltro un parere magistrale sull’Uomo senza qualità, boccia libri più tardi pubblicati dalla ‘sua’ Adelphi; Elena De Angeli – siamo ormai negli anni novanta – sconsiglia sia Sorgo rosso del futuro Nobel cinese Mo Yan (poi comunque entrato nel catalogo Einaudi), sia il bellissimo Revolutionary Road di Yates, scartato per una previsione di gusto: «più nessuno, ahimè, ha voglia di queste cose». Un esempio di come un’idea preconcetta e quasi autocensoria possa tradursi in un calcolo sbagliato. Non c’è miglior congedo e auspicio della frase che ancora Bazlen scrisse nel parere su Musil: «il livello dei lettori italiani è infinitamente più alto di quanto si ritenga comunemente».
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