Cristina Carpinelli  
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LA SHOAH E LA RISCRITTURA DELLA STORIA


Una legge che vuole difendere l'onore della Polonia



Cristina Carpinelli


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Alle radici del revisionismo storico

Dal XIII secolo sino alla terza spartizione (1795), quando i tre Imperi, prussiano, russo e austro-ungarico, si divisero le terre della Confederazione polacco-lituana, lo stato si caratterizza per essere multietnico e multinazionale. Comprende diverse minoranze (ucraini, bielorussi, russi, lituani e tedeschi), ed ha, inoltre, la fama di essere la nazione più tollerante d'Europa nei confronti della sua cospicua comunità ebraica, già altrove perseguitata (Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Ungheria, Austria). Proprio tra il XII e il XIII secolo si verificano, infatti, numerose ondate di espulsioni ebraiche dall'Europa occidentale e centrale verso l'Europa orientale. La maggior parte degli ebrei ashkenaziti si stabilisce nella Confederazione, dove viene accolta di buon grado.

Scomparsa dalla cartina europea per ben 123 anni, la Polonia torna a essere uno stato sovrano alla fine del primo conflitto mondiale (1918) con il nome di "Seconda Repubblica di Polonia" (Rzeczpospolita Polska). Negli anni tra le due guerre, come nel resto dell'Est Europa, lo sviluppo dei nuovi Stati partoriti dal crollo dei vecchi Imperi e le violente tensioni sociali scaturite dalla crisi economica e finanziaria degli anni Venti e Trenta spinsero la neonata Polonia, incentrata su forti partiti agrario-conservatori, a una svolta reazionaria e parafascista imbevuta di nazionalismo etnico, clericalismo e antisemitismo. La deriva autoritaria è anche la reazione della grande borghesia e dei proprietari terrieri alla minaccia di una possibile espansione della rivoluzione russa compiuta da un manipolo di "cospiratori ebrei". Queste classi sociali puntano a preservare le loro proprietà e i loro capitali, che sarebbero inevitabilmente persi sotto i sovietici.

Durante la "Seconda Repubblica di Polonia" (1918-1939), l'identità e lo spirito nazionale polacco, riconquistati dopo un lungo periodo di vessazione, sono di nuovo posti al centro della vita politica. Nel 1935 nasce la Falange nazional-radicale (ONR), un movimento politico nazionalista, ripiegato su valori tradizionali e sull'integralismo cattolico, critico nei confronti del capitalismo "giudaico-massonico", colpevole di aver gettato milioni d'individui nel baratro e, quindi, ferocemente antisemita. Molto attivo in quegli anni è anche il movimento polacco nazionalista "Democrazia Nazionale" (Narodowa Demokracja), la cui principale roccaforte è la costruzione della "Grande Polonia". Entrambi questi movimenti sono avversi alla democrazia parlamentare, e sono promotori dell'eliminazione dalla vita pubblica delle minoranze nazionali che vivono nel paese.

In quel momento, la più grande concentrazione di ebrei, sparsi in tutta Europa, si trova proprio nella Polonia di Józef Pilsudski. Inoltre, la comunità ebraica è la più rilevante di tutte le comunità di minoranza presenti sul territorio: tra il 1919 e il 1939, gli ebrei costituiscono circa il 10% della popolazione. Nel 1935 sono 3.500.000 su 35 milioni di abitanti. La giudeofobia - alla base del moderno antisemitismo politico - si diffonde tra le due guerre, assumendo aspetti sempre più inquietanti. Gli impieghi pubblici sono preclusi agli ebrei, che sono soprattutto occupati nel commercio, banche, assicurazioni e professioni private. Dal canto suo, la Chiesa cattolica locale, che è stata nei secoli l'unico baluardo di difesa dell'identità nazionale (soprattutto nei periodi in cui la Polonia fu cancellata dalla carta geografica), invita a boicottare il commercio degli ebrei, e l'arcivescovo di Cracovia, August Hlond, pubblica una Lettera Pastorale, in cui si afferma che i giudei sono l'avanguardia dell'ateismo e del bolscevismo. Le responsabilità dell'episcopato polacco non sono lievi nella crescita del fenomeno antisemita. Già da tempo, il tradizionale antigiudaismo cattolico sta inquinando una parte consistente del clero.

Dopo la morte del maresciallo Józef Pilsudski, in diverse parti del paese (Lódz, Grodno, Suwalki, voivodato di Varsavia, Kielce, Lwów) prende avvio una violenta campagna antisemita, sostenuta dalla stampa cattolica, che si riversa soprattutto nelle università. Si creano i "banchi del ghetto" (i giovani ebrei sono costretti a sedersi nelle ultime file delle aule), con l'acquiescenza delle autorità accademiche. L'obiettivo finale non è solo "segregare", ma anche perseguire la "pulizia razziale": i rettori porranno limiti drastici alle iscrizioni dei giovani ebrei.

La pratica antisemita è introdotta nelle università nel 1935, e si estenderà l'anno dopo anche a Varsavia e Vilna. Tra il 1936-1937, le discriminazioni si trasformano in persecuzione: si moltiplicano pogrom, saccheggi, omicidi. La linea di governo si fa più aggressiva, arrivando a concepire l'idea di liberarsi della popolazione ebraica, costringendola a emigrare in massa. Una strategia formulata dall'allora ministro degli Esteri, il colonnello Józef Beck, che mette in conto la possibilità di trasferire gli ebrei polacchi in Madagascar (colonia francese). Ma il proposito del colonnello Józef Beck non si realizza. Nel 1939, con il patto Molotov-Ribbentrop, che sancisce la divisione dell'Europa centro-orientale in sfere d'influenza, la Germania nazista occupa la Polonia occidentale mentre l'Urss - quella orientale.

Durante la seconda guerra mondiale, la Germania nazista annienta quasi tutti gli ebrei che vivono in Polonia. Il 90% di loro perde la vita nei campi di sterminio nazisti. Dei 350 mila sopravvissuti, gran parte emigra al termine del conflitto. La "questione ebraica" è temporaneamente archiviata, sino a riaprirsi, in anni recenti, con la pubblicazione, nel maggio 2000, del libro Neighbors di Jan Gross, in cui l'autore sostiene che il massacro della comunità ebraica di Jedwabne fu ad opera dei polacchi e non degli invasori tedeschi. Il libro di Gross s'ispira a due documentari realizzati dalla regista polacca, Agnieszka Arnold, che nel 1988 si recò a Jedwabne (e dintorni) per intervistare gli abitanti del luogo.

Il libro, che ha sollevato molte critiche, sfata il mito di una Polonia sempre ospitale e tollerante verso le proprie minoranze, e riesamina il passato polacco attraverso l'intersezione di due storie: quella eroica e vera della resistenza polacca e l'altrettanto vera storia dei polacchi che si misero al fianco degli invasori tedeschi, collaborando al massacro degli ebrei.

 

Una "sporca" storia

A seguito della pubblicazione del libro di Gross, l'Istituto della Memoria Nazionale (IMN) di Varsavia apre un'indagine per appurare la tesi dell'autore, secondo cui i polacchi non furono solo vittime ma anche esecutori di "omicidi di massa" nei confronti degli ebrei. Una tesi che l'IMN non smentisce, anche se sostiene che nel massacro di Jedwabne ci fu complicità tra i soldati tedeschi nazisti e i civili polacchi non ebrei, e considera, inoltre, il numero di ebrei uccisi dai polacchi inferiore rispetto a quello riportato dall'autore nel libro. Tuttavia, il "dado è tratto": i polacchi sono costretti a fare i conti con la loro storia.

Se è vero, infatti, che molti cittadini polacchi rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalla deportazione (un esempio di coraggio e sacrificio è quello dei coniugi Józef e Wiktoria Ulma, uccisi con i loro 6 bambini dai nazisti per aver nascosto otto ebrei), non mancano documenti che testimoniano la connivenza di altri con le autorità naziste nel piano di sterminio degli ebrei. Esistono, inoltre, prove fotografiche sull'amicizia tra nazionalisti polacchi e nazisti, e una grande quantità di materiale prova che polacchi e ucraini (noti come Trawnikimänner), reclutati dai campi di prigionia, servirono volontariamente nei plotoni di esecuzione e come guardie del campo ad Auschwitz. Informazioni ricavate dagli archivi ufficiali del Museo di Stato Auschwitz-Birkenau dimostrano che la Polizia Blu (Granatowa Policja) fosse composta, in vari momenti, da collaborazionisti polacchi che aiutarono a inviare ebrei, zingari, comunisti e omosessuali, direttamente dalle stazioni ferroviarie ad Auschwitz.

Nel libro di Ota Kraus ed Erich Kulka, Továrna na smrt (La fabbrica della morte), pubblicato nel 1946, i due autori (ex prigionieri di Auschwitz) raccontano come molti nomi polacchi si trovassero nella lista dei membri delle SS colpevoli di particolare brutalità nei confronti dei prigionieri internati ad Auschwitz. In un altro libro scritto da Tadeusz Piotrowski, Poland's Holocaust: Ethnic Strife, Collaboration with Occupying Forces and Genocide in the Second Republic, 1918-1947, vi è un'ampia selezione di fonti (in lingua polacca, tedesca, ucraina, bielorussa, russa e inglese) sul collaborazionismo polacco ad Auschwitz. Tra le altre testimonianze, il libro racconta dei ricattatori polacchi (szmalcowniki), che chiedevano denaro a zingari, ebrei e comunisti, minacciando questi "nemici del Reich" di essere altrimenti spediti ad Auschwitz, e dei polacchi, che venivano denunciati perché nascondevano nelle loro case i giudei. E menziona anche i Volksdeutsche, persone che avevano rinnegato la nazionalità polacca per assumere quella tedesca. Per raggiungere i propri obiettivi espansionistici, la Germania nazista cerca di aumentare il numero di Volksdeutsche nei territori conquistati, mediante la germanizzazione di alcuni popoli, consistenti principalmente in Cechi, Polacchi e Sloveni di lontana ascendenza tedesca. Cittadini polacchi di origine tedesca, o con legami di parentela tedesca, sono incoraggiati a iscriversi nella Volksliste. L'iscrizione dà diritto a privilegi quali migliore cibo, accesso ad appartamenti più belli, fattorie, officine, mobilio, e vestiario, beni in massima parte confiscati agli ebrei deportati o rinchiusi nei campi di concentramento.

Nel 2012 è uscito il film Poklosie (o Aftermath) del regista Wladyslaw Pasikowski, che affronta il tema dei polacchi ebrei trucidati dai propri concittadini. La trama s'ispira al pogrom di Jedwabne (nord-est della Polonia), che ebbe luogo il 10 luglio 1941, durante cui 340 ebrei polacchi di questo villaggio furono rinchiusi da altri polacchi (su ordine della Ordnungspolizei) in un granaio, cui fu appiccato il fuoco. Gli ebrei morirono tutti bruciati. Molti polacchi hanno etichettato questo film come "anti-polacco". Il leader del partito nazionalista "Diritto e Giustizia", Jaroslaw Kaczynski, ha affermato di "non aver visto il film e di non avere intenzione di vederlo". Il 4 luglio del 1946, a Kielce, città della Polonia centro-meridionale, si consuma il peggiore massacro del dopoguerra (con i tedeschi ormai fuggiti): 42 ebrei, dei 200 tornati dai lager nazisti, perdono la vita e 80 vengono feriti nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa, nell'indifferenza delle forze dell'ordine. Al loro rientro i sopravvissuti non sono, infatti, bene accolti: non amati perché ebrei, e ora considerati anche traditori filosovietici. Complici della tragedia consumata, la miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: gli ebrei ritornati reclamano le loro proprietà (terreni e beni immobili) che i nazisti non hanno depredato, e che sono state nel frattempo spartite tra i polacchi non ebrei. Ma le richieste dei sopravvissuti suscitano odio anziché solidarietà. In un testo pubblicato nel settembre del 1946, il vescovo locale, Czeslaw Kaczmarek, invece di condannare l'esecrabile episodio, cerca di difendere gli autori del pogrom (A. Michnik, Il pogrom, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 18-21. Traduzione di L. Rescio). I fatti di Kielce dimostrano quanto l'antisemitismo fosse radicato in gran parte della popolazione e delle autorità polacche, anche dopo e nonostante la Shoah.

 

La riscrittura della storia

Il parlamento polacco ha di recente approvato un emendamento alla legge sull'IMN, che prevede la possibilità di punire, con una sanzione che da una multa può arrivare anche al carcere fino a tre anni, chiunque (anche cittadino straniero) pubblicamente, e contro i fatti, attribuisca alla Nazione polacca o Repubblica di Polonia la responsabilità o la corresponsabilità di crimini compiuti dal Terzo Reich tedesco. La legge prevede, inoltre, la possibilità di portare di fronte al tribunale chi usi la formulazione "campi polacchi della morte" (riferendosi, ad esempio, ad Auschwitz), e mira a criminalizzare ogni posizione negazionista nei confronti delle "azioni commesse dai nazionalisti ucraini dal 1925 al 1950, caratterizzate dall'uso della forza, del terrore o di altre forme di violazione dei diritti umani contro la popolazione polacca". Il provvedimento, vidimato dal capo dello Stato, ha suscitato l'ira d'Israele, che considera tale atto un tentativo di negare la partecipazione dei polacchi allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.

Effettivamente, ci troviamo di fronte ad una strategia politica dei nazional-conservatori, con in testa Jaroslaw Kaczynski, che hanno sempre fatto del passato un terreno di auto-affermazione e resa dei conti. Un approccio revanscista mai del tutto superato nella Polonia, che si erge ancora oggi a "Cristo delle nazioni" votato al sacrificio per la salvezza di tutti: una metafora intrisa di martirio e redenzione, che non si piega alle ragioni della verità storica. I polacchi sono solo eroi e vittime. Ma la Shoah non è un racconto "mistico" che si possa fare in bianco e nero, tralasciando i molti toni di grigio. È vero che la Polonia fu attaccata e occupata dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale, e che fu quest'ultima a organizzare i campi di sterminio in territorio occupato. Ed è altrettanto fuori discussione il fatto che una parte rilevante della società polacca si fosse mobilitata per proteggere gli ebrei, nonostante il divieto tedesco (chi aiutava gli ebrei era punito con la morte). Tra le persone riconosciute come "giusti tra le nazioni" dallo "Yad Vashem" (Museo dell' Olocausto di Gerusalemme) ci sono anche molti cittadini polacchi. Nessuno nega, infine, che durante la seconda guerra mondiale la Polonia abbia subito il maggior numero di perdite umane e le distruzioni più gravi tra tutti gli stati occupati. Tuttavia, è altrettanto indubbio che la possibilità dello sterminio, la sua efficacia, così come il suo successo, dipesero dalla rete d'indifferenza di una porzione di società polacca (la c.d. "zona grigia"), e dal sentimento antisemita che ha connotato a lungo la storia, la politica, la cultura, e anche la mentalità diffusa in Polonia.

L'atteggiamento censorio della legge della Shoah verso chiunque voglia ricordare o indagare eventuali complicità di cittadini polacchi nell'Olocausto, a fronte di massacri storicamente provati, ha le caratteristiche del negazionismo. È la volontà del partito conservatore "Diritto e Giustizia", che governa il paese, di punire o limitare la libertà d'espressione e la ricerca storica. E conferma appieno il dilagare di una cultura ideologica di destra pervasa da vittimismo, nazionalismo e rancore. Questi tre elementi, congiunti a una nostalgia suprematista, con cui si torna a invocare una Polonia bianca e pura (priva, di conseguenza, di qualunque responsabilità nei crimini compiuti nel XX secolo), condizionano pesantemente la vita pubblica nel paese. Un'allerta era già arrivata con il licenziamento del direttore (con l'accusa di "mancanza di patriottismo"), che aveva curato il progetto di costruzione del museo della seconda guerra mondiale di Danzica. Il progetto prevedeva una sezione dell'Olocausto, che avrebbe dovuto mostrare anche il lato oscuro dei polacchi, quello di carnefici oltre che di vittime. Il senso era concentrarsi sull'esperienza polacca, collocandola, tuttavia, nel campo più vasto del conflitto mondiale e della complessità delle relazioni ebraico-polacche. Il nuovo direttore del museo, Karol Nawrocki, nominato dall'attuale ministro della Cultura, aveva espresso un'idea diversa di museo. Alla sua prima conferenza stampa aveva affermato che in oltre otto anni di governo gli ex governanti di "Piattaforma Civica" si erano di fatto occupati di rielaborare per conto dei polacchi la storia della seconda guerra mondiale. Aveva poi aggiunto: "…tuttavia, se la storia scorre una volta sola, questa può essere scritta molte volte".

In questo modo, il partito di Kaczynski, "Diritto e Giustizia", intende forgiare una nuova coscienza nazionale, dove è lecito il controllo del passato e della memoria. Dice bene il prof. Marci Shore (Università di Yale) quando - in un articolo apparso su "The New York Times" (Poland Digs Itself a Memory Hole - 4 febbraio 2018) - sostiene che "…l'insistenza sul carattere eccezionale della Polonia è al cuore della sua 'storia politica', il cui scopo è controllare la versione del XX secolo, tale da glorificare ed esonerare i polacchi da qualunque colpa". La riscrittura della storia, riferita al passato recente e remoto, s'innesta, d'altronde, sul ceppo di quella deriva illiberale che dal 2015 vede la Polonia impegnata a realizzare politiche tese a limitare una serie di libertà (di stampa e d'espressione, di raduno e associazione), a soffocare l'autonomia degli organi giudiziari, e a violare i diritti umani e civili (questioni "migranti" e "diritto d'aborto").

La legge dell'Olocausto dovrà ora superare un ultimo passaggio prima di entrare in vigore. Sarà valutata, per un esame di compatibilità (soprattutto per quanto riguarda il diritto alla libertà di espressione), dalla Corte costituzionale, un organo che negli ultimi tre anni è stato molto indebolito dal partito di Kaczynski. Il premier polacco, Mateusz Morawiecki, si è mostrato aperto alla possibilità di un cambiamento della controversa legge sull'Olocausto, se la Consulta dovesse stabilire che è necessario riformulare parti della nuova norma. Intanto, sulla scia del dibattito esploso attorno a questa legge, il presidente del Senato polacco, Stanislaw Karczewski, ha inviato una lettera ad ambasciate, consolati e organizzazioni polacche all'estero, con cui s'invita a difendere il buon nome della Polonia e a denunciare qualsiasi esternazione "anti-polacca": "Vi prego di documentare e reagire ai casi di ostilità anti-polacca, alle opinioni e alle formulazioni che ci danneggiano e offendono il nostro orgoglio nazionale...". E il premier polacco, Mateusz Morawiecki, alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, ha riacceso la polemica, sostenendo che durante la Shoah "ci furono colpevoli polacchi, così come ci furono colpevoli russi, ucraini, tedeschi ed ebrei". Parole che hanno dell'incredibile e che mostrano una totale mancanza di sensibilità per la tragedia del popolo ebraico e di tutti coloro che furono vittime della follia nazista.

 


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21 FEBBRAIO 2018