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Nella vastissima produzione bibliografica, che negli ultimi vent'anni ha supportato le politiche di riforma della scuola in Italia, il tema dell'insegnamento della storia sembra latitare, costituire un ostacolo teoretico che il pensiero dei riformatori, e dei sostenitori della nuova didattica, stentano a fare proprio e a inserire in modo coerente nella loro idea di scuola. La questione potrebbe apparire non particolarmente rilevante: lo sforzo teoretico maggiore del pensiero pedagogico che si autodefinisce "innovativo" è stato infatti quello di delineare un quadro di carattere generale relativo alla metodologia didattica, per denunciare l'insufficienza di un modo d'insegnare definito -a nostro parere impropriamente(1) - trasmissivo e spontaneistico. L'applicazione di questa nuova idea d'insegnamento alle singole discipline fa parte di un processo di riflessione ulteriore, probabilmente ritenuto dai teorici dell'innovazione meno urgente, ma frutto semmai di un'applicazione automatica delle indicazioni di carattere generale.
Il principio a fondamento di questa nuova impostazione culturale è quello di considerare prioritario, quale obiettivo della comunicazione didattica nel percorso di studi pre-universitario(2), il conseguimento di competenze, ovvero di comportamenti, ricavati a partire dai diversi contenuti di studio affrontati, da attivarsi nella praticità della vita sociale(3). Un'impostazione che valorizza il ruolo puramente pratico dell'istruzione (un sapere è degno di essere trasmesso solo se può immediatamente tradursi in un comportamento utile, in particolare alle esigenze del mercato del lavoro); e dove una relazione con il sapere di carattere disinteressato ne risulta, evidentemente, sminuita(4).
In realtà, da quando il dibattito sulle competenze ha iniziato a coinvolgere in modo invasivo gli insegnanti italiani(5), si è avvertita immediatamente la difficoltà di coniugare la priorità attribuita a tale obiettivo con i contenuti delle discipline. Tant'è che c'è stato uno sforzo in questo senso da parte di alcuni pedagogisti che, attraverso esempi concreti, hanno tentato di mostrare l'emergere delle competenze in riferimento a specifiche unità didattiche, col proposito di convincere sulla felicità della nuova impostazione, sia per quanto riguarda la capacità di coinvolgere gli alunni, sia in riferimento ai risultati conseguiti. Rispetto alle prese di posizione odierne, ben più radicali e destrutturanti nei confronti della didattica disciplinare, questi esempi appaiono in tutta la loro ingenuità, e dimostrano la difficoltà di piegare alcuni irrinunciabili contenuti di studio a immediati riferimenti pratici. Il principio alla base di queste riflessioni -assolutizzatosi in questi ultimi anni- è che il contenuto di studio deve riferirsi immediatamente al vissuto dell'alunno, in modo che egli ne constati l'attualità e possa immediatamente realizzare un'operazione comparativa tra quanto apprende e quanto vive(6).
Perché non la storia?
Paradossalmente, sia pure in un'ottica a mio avviso palesemente strumentale, la storia potrebbe inserirsi brillantemente in questo schema, sulla base della nota massima historia magistra vitae. Che cosa potrebbe apparire più naturale, quanto la comparazione tra modelli di civiltà e la valutazione di quanto incida il passato storico sul nostro presente? Tanto più che, sia pure in un modo superficiale(7), la storia è oggetto di un uso pubblico sempre più evidente e, in ragione di ciò, continuamente valorizzata -sia pure in modo a volte retorico- nella sua importanza.
La tesi che vorremmo qui brevemente sostenere è quella invece del carattere non casuale di questa assenza, dovuta alla totale incompatibilità tra didattica delle competenze e uno studio della storia rigoroso, ovvero attento a salvaguardarne lo specifico disciplinare, oltre che gli irrinunciabili obiettivi formativi, strettamente collegati a quella specificità. E quindi giustificare la ragione di tale reticenza. Per cui, se la storia non scompare certo dai curricola, viene però resa inoffensiva e irriconoscibile, semplice contesto o contorno delle diverse unità didattiche, e comunque indagata attraverso modalità e strumenti palesemente non storici(8), e quindi inadatti a farne emergere gli autentici contributi sul piano educativo.
L'aspetto principale da tenere in considerazione, per poter comprendere il seguente ragionamento, è il diverso modo di valorizzare l'azione didattica che trova la sua massima esplicitazione nel concetto di problem solving. Nella priorità che viene attribuita a questo modello di conoscenza si pone l'accento sulla soluzione del problema stesso, che si presuppone sia unica, e sulle procedure individuate per arrivarvi che, in virtù dell'unica soluzione, non possono che esplicarsi rispetto a parametri fissi. L'unità didattica deve quindi, in anticipo, individuare il problema con la relativa soluzione, e impostare l'analisi in modo che il percorso d'indagine si diriga verso l'obiettivo predeterminato. In questo senso Giroux può parlare di "comodi prepensati"(9). Se tale procedura, adatta per la soluzione interna a uno specifico contesto scientifico, diventa modello generale per la trasmissione del sapere, valida per qualsiasi disciplina, è evidente che essa è destinata a depotenziare tutte quelle impostazioni di conoscenza che non riconoscono rispetto ai problemi dati un'unica soluzione(10), bensì valorizzano la discussione storiografica, lo scavo interpretativo, la visione aperta di un sapere che raggiunge, in corrispondenza a determinati contesti socio-culturali, particolari convinzioni, per poi saperle rimettere in discussione parallelamente alla mutazione di quegli stessi contesti. Il modello storiografico diventa incompatibile con il processo di problem solving, poiché rappresenta una visione del processo di conoscenza alternativo, dove la pluralità delle analisi rispetto agli eventi costituisce una palestra indispensabile agli studenti per apprendere a problematizzare, per renderli consapevoli di come, salvo in ambiti per forza di cose ristretti, non risulta possibile raggiungere soluzioni univoche per la maggioranza dei problemi, soprattutto quelli di ambito socio-economico e relativi alle cosiddette competenze di cittadinanza; soluzioni che peraltro risultano sempre ulteriormente migliorabili, soggette a continui possibili cambiamenti in virtù del carattere dinamico del reale. Per cui diventa necessario, piuttosto che offrire soluzioni, presentare continui confronti critici in cui posizioni dissimili possano fronteggiarsi nel reciproco rispetto, senza necessariamente delegittimarsi, e mostrando la maggiore ricchezza di una discussione che rimane aperta a imprevedibili sviluppi, piuttosto che a una soluzione semplificata, inevitabilmente escludente le opinioni contrarie e quindi poco disponibile ad accettare le falsificazioni.
Si tratta di un'impostazione intellettuale, decisiva per la crescita degli studenti, rivolta alla conquista del "senso", nella maniera in cui lo intendeva Giuseppe Galasso: "Un senso che, a sua volta, nasce da quei superamenti e scioglimenti e si determina nel tempo a posteriori, non già a priori: come, per così dire, un risultato della storia, non secondo i disegni preordinati di una qualsiasi teoria o dottrina o filosofia della storia. Un senso che, per ciò, postula un intimo rapporto e un nesso organico della storiografia con la realtà e con la vita, sia per la matrice sia per la genesi dei problemi che si pone, sia per il senso che essa ne chiarisce"(11). La didattica per competenze, invece, e in particolare l'ossessione per il problem solving¸ sembrano volere evitare in primo luogo proprio l'eventualità che possa formarsi un simile pensiero critico. Diverse analisi hanno cercato di motivare la ragione di questo ristretto cambio di paradigma(12): si tratta di costituire una soggettività in qualche modo operativa, pronta a piegarsi a pratiche e prescrizioni applicative decise da una élite progettuale, che persegue una finalità economica, raggiungibile solo attraverso un lavoro organizzato, all'interno del quale ciascuno svolge la posizione che gli è stata affidata, in virtù di una finalità -che diventa l'obiettivo dell'intero gruppo- di cui l'individuo rappresenta poco più che un operatore(13). L'attitudine critica, che porta a mettere in discussione procedure e contenuti considerati acquisiti, diventa a questo punto un ostacolo; perché rileva la fragilità dell'intero processo, mette a rischio una collaborazione di gruppo che ha senso nel momento in cui questo prescinde dalle singole individualità che lo compongono. È in questo senso, a nostro parere, che viene inteso nei documenti ministeriali il "lavoro collegiale" laddove, se si astrae dalla retorica liberaleggiante, emerge una costrizione di fatto e un obbligo ad attenersi a direttive uniche concepite all'esterno dello stesso organo collegiale.
Rispetto a tutto ciò, la storia -ma in realtà qualsiasi approccio storicistico al sapere- risulta assolutamente fuori luogo. Come detto sopra, in effetti in questi anni sulla storia poco si è scritto. Ma invece sulla negazione dell'approccio storicistico al sapere vi sono moltissime prese di posizione, non ultimo il documento dedicato all'insegnamento della filosofia nel XXI secolo(14). In esso, quanto meno nelle parti iniziali, non si nega in toto la possibilità anche di una considerazione storica dell'evoluzione del pensiero filosofico; ma, continuando la lettura, ci si accorge che esso risulta talmente depotenziato nella sua rilevanza da scomparire del tutto nella programmazione, se non come semplice cornice all'interno di trattazioni di problemi specifici, rispetto ai quali la considerazione storica svolge funzione puramente accessoria, senza contribuire di fatto alla comprensione concettuale. Questo perché, come viene detto esplicitamente nel documento, l'obiettivo formativo primo della filosofia, con buona pace delle insuperate definizioni di Aristotele, è quello di offrire "bussole"(15)che possano orientare l'alunno nella vita reale; quindi la valutazione disciplinare non verterà sulla conoscenza del pensiero degli autori studiati, ma dal dimostrare di saper compiere effettivamente azioni risolutive in contesti problematici, a partire dall'acquisizione di alcune riflessioni filosofiche, studiate isolatamente e decontestualizzate dal loro corso storico. D'altra parte già un documento del MIUR del 2001 definiva le discipline quali "apparati serventi" delle competenze(16)dei contenuti disciplinari.
Proviamo adesso a immaginare, in base a un procedimento comparativo con il documento appena citato -il primo invero a cercare di applicare in modo sistematico le competenze a una particolare didattica disciplinare-, come potrebbe essere concepito un insegnamento della storia per competenze, avendo in mente il concetti prima citato di "bussole". Innanzitutto, secondo le nuove impostazioni, i contenuti da trasmettere non faranno più riferimento a programmi organici, dotati di una loro coerenza e continuità. A
parere di chi scrive tali programmi, per quanto sia possibile continuamente aggiornarli, riformularli e variarli, risultano imprescindibili per comunicare agli alunni la peculiarità di ogni disciplina, per comprenderne il rispettivo contributo al sapere universale; senza tali acquisizioni, peraltro, risulta impossibile qualsiasi percorso pluridisciplinare, che deve proprio far intuire la possibilità di convergenza di linguaggi e metodi che rimangono differenziati, pur potendo concorrere a sviluppare tematiche comuni. Al posto dei programmi, la didattica per competenze vorrebbe utilizzare singole unità didattiche pluridisciplinari, concepite collegialmente dal Consiglio di Classe, probabilmente coerenti con un progetto d'Istituto riconoscibile(17). Solo a partire dall'Unità didattica è possibile individuare il modo in cui la singola disciplina del curricolo può concorrere alla realizzazione dell'intero progetto. Possiamo immaginare qualche esempio: un'unità didattica dedicata all'ambiente, ai diritti umani, all'alimentazione, allo spettacolo o alla comunicazione. Le discipline scientifiche e umanistiche potrebbero trovare un loro spazio, anche se immaginiamo che, per alcune conoscenze come quelle matematiche, dovrà rimanere la possibilità per una programmazione più compiuta, ritenuta invece non necessaria per le discipline di non immediato valore d'uso, come quelle storico-letterarie. Ebbene, quale ruolo potrebbe conservare la storia in un contesto formativo siffatto? E quali dei suoi obiettivi formativi si realizzerebbero?
Il nostro giudizio in merito è quanto meno di perplessità. La storia non potrebbe che fare da sfondo o cornice al problema, presentarsi come storia settoriale, di una tematica specifica, che viene illustrata nel suo svilupparsi cronologico. Una tale impostazione risulta, a nostro parere, decisamente manchevole e, soprattutto, nega la storia stessa come disciplina, nel senso che ne annulla alcune potenzialità ermeneutiche che sarebbe bene lo studente conosca. Una considerazione storica di come si è evoluta la pratica dell'alimentazione, o il modo di considerare i diritti civili, darebbe luogo a una conoscenza molto superficiale, nel senso che l'approccio storico per moduli o settoriale non sarebbe in grado di dare quel contributo critico che invece la storia nella sua totalità e complessità cronologica, concepita come conoscenza sufficientemente organica delle vicende umane, sarebbe in grado di offrire. Qual è infatti il livello di difficoltà che, rispetto all'insegnamento della storia, il docente deve tenere in costante considerazione? Quello di mostrare la relazione persistente tra l'aspetto evenemenziale e i fenomeni giuridici, religiosi, economici, sociologici. Far comprendere l'importanza di questo intreccio, di queste ragioni concomitanti necessarie per la valorizzazione dell'evento storico studiato, e vedere come esse mutano nel passaggio dalle varie epoche rappresenta, a mio parere, la vera sfida metodologica che ha di fronte l'insegnante di storia. Sfida che può essere affrontata -come già ricordato- attraverso l'approfondimento storiografico, l'analisi delle fonti, la valutazione di come questa compresenza di fattori può essere valorizzata in misura maggiore o minore dalle diverse letture storiche, e che questa analisi mai compiuta e sempre in sviluppo costituisce la ricchezza della disciplina e il suo contributo non solo sul piano della conoscenza universale, ma anche su quello delle facoltà intellettuali e del processo cognitivo. Obiettivi disciplinari imprescindibili, per cui è bene che tali caratteristiche del sapere storico siano fatte proprie anche da chi, nel futuro percorso universitario, non avrà più occasioni particolari di approcciarsi allo studio della storia.
Una storia settoriale, proprio perché frammentata, impedisce questa visione olistica(18)e, di conseguenza, non sarebbe in grado di trasmettere proprio quella competenza metodologica legata in specifico allo studio della storia. Non solo l'alunno che si sarà dedicato a due sole unità didattiche in un anno avrà enormi lacune sul piano degli eventi del passato che peseranno sulla sua preparazione culturale, ma non potrà neanche comprendere la complessità dell'evento storico da lui affrontato, perché sottratto alla loro continuità cronologica, e al confronto con il parallelo studio dell'evoluzione del linguaggio letterario, del pensiero filosofico e di quello scientifico.
I manuali
Un'ultima osservazione sui manuali più diffusi. La stragrande maggioranza di quelli in uso continua a seguire, fortunatamente, un'impostazione cronologica tradizionale, con buona pace di chi ritiene che tale impostazioni contraddirebbe i presupposti cognitivisti(19). Grazie a essi, l'insegnante di storia ha solitamente uno strumento adeguato per impostare lo studio della disciplina secondo quanto da noi auspicato.
Si fa però sempre più diffusa la tentazione verso impostazioni semplificate: alcune opere cedono all'imperativo dello frammentazione, per cui la pagina viene suddivisa in varie schede, in continue analisi particolari, nel timore di mettere lo studente di fronte a un testo di una lunghezza eccessiva. Una pratica indispensabile per chi segue le metodologie CLIL ed ESABAC, sulle quali non abbiamo tempo di soffermarci, ma che risultano anch'esse di notevole semplificazione e, a nostro parere, estranee allo specifico della disciplina storica, proprio perché ne riducono di fatto la complessità, a livelli inaccettabili per un percorso liceale. D'altra parte, basti dare un'occhiata ai diversi fascicoli dedicati al CLIL per rendersi conto di come la complessità degli argomenti, una complessità adeguata e possibile in un percorso di scuola secondaria superiore, venga assolutamente rifiutata a favore di una ricezione nozionistica degli eventi.
Ma soprattutto, diventa sempre più elefantiaco l'apparato didattico di supporto al testo, spesso concepito proprio per semplificare il loro lavoro di valutazione in riferimento alle competenze. Ebbene, un'analisi attenta di queste sezioni dei testi, in cui si tenta di distinguere tra conoscenze, abilità e competenze, convincerà chi legge dell'estrema difficoltà nel tradurre in pratica tali fumose distinzioni. Apparati sicuramente affidati (come i fascicoli dedicati al CLIL) a una redazione interna della casa editrice, rispetto alla quale l'Autore del manuale rimane estraneo. A noi insegnanti piacerebbe però vedere alcuni di questi importanti storici, che si sono impegnati nella scrittura dei manuali per valorizzare la loro disciplina, intervenire su questi aspetti e proporre una battaglia culturale contro simili strumentali applicazioni di una teoria che rimane fondamentalmente estranea alla storia.
Note 1)Sia per quanto riguarda il carattere strumentale di questi giudizi, sia per la problematicità -al limite dell'inconsistenza- del concetto di "competenza", rimando ai diversi contributi in proposito già pubblicati nel presente portale, ricchi anche di riferimenti bibliografici. 2)Ovviamente il tema delle "competenze", e più in generale della metodologia didattica, si pone in modo parzialmente diversificato in riferimento ai diversi cicli scolastici. La stessa Università, in ogni caso, è stata condizionata dalla necessità di garantire ai futuri laureati le necessarie "competenze". 3)Cfr. Ph.Perrenoud, Costruire le competenze a partire dalla scuola, Anicia, Roma 2010: "il sistema dell'insegnamento vive, fin dalla sua nascita, la contrapposizione tra coloro che vogliono trasmettere delle conoscenze fini a se stessee qulli che, pur tra visioni contraddittori, vogliono legarle a pratiche sociali". La citazione è richiamata in un recente volume cui faremo costante riferimento: Fondazione Agnelli, Le competenze, Il Mulino, Bologna 2018, pag. 85. 4)A proposito di questa eventualità, così si esprime L.Benadusi, in Le competenze nei sistemi educativi e formativi, in Fondazione Agnelli, cit., pag.106: "Riconosciute la presenza di tale rischio e la necessità di evitarlo, occorre tuttavia non sovraenfatizzarlo (come alcuni fanno) perché il lavoro e l'occupabilità rappresentano comunque una delle finalità fondamentali dell'istruzione […]". A questa relativizzazione del problema segue, da parte dello stesso autore, nelle Conclusioni del volume (pag.177), un'affermazione ben più impegnativa: "l'antitesi tra una cultura "disinteressata"-alta- e una cultura "interessata" -bassa- rivela un pregiudizio passatista, che di fatto riecheggia la concezione dell'istruzione propria delle società pre-moderne, dalla struttura classista o di casta". In un sol colpo, viene azzerato e misconosciuto lo straordinario processo di acculturazione della popolazione italiana realizzato dalla scuola repubblicana nel secondo dopoguerra, che ha permesso a tanti individui di provenienza familiare contadina o comunque non scolarizzata di accedere a professioni intellettuali. Per una disamina in tal senso, a nostro parere ben più articolata, si legga di A.Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Il Mulino, Bologna 2007. 5)Considero una data di riferimento il 1998, con l'introduzione del Nuovo Esame di Stato da parte del Ministero guidato da Luigi Berlinguer, che all'inizio, aveva l'ambizione di valorizzare della prova soprattutto le competenze, a partire dalla relazione pluridisciplinare iniziale. Vista la debolezza dell'idea, per una curiosa eterogenesi dei fini, quell'esame è oggi sostanzialmente di carattere disciplinare; da qui la volontà di modificarne pesantemente la struttura, per far sì che la didattica, durante l'anno scolastico, non venga più prioritariamente orientata in senso disciplinare. Lo stesso riferimento storico è condiviso peraltro da L.Benadusi, op.cit., pag. 156, anche se, in ragione di quanto detto, se ne auspica una rapida sostituzione con una prova più incentrata sulle competenze e non sul sapere disciplinare (ibid., pag.164). 6)Alcuni significativi esempi si trovano in F.Cambi, Saperi e competenze, Laterza, Bari 2004; nella sostanza, gli esempi didattici proposti, riferiti a unità didattiche di letteratura (significativamente, mai alla storia), propongono un'immediata relazione dei contenuti studiati con il vissuto dello studente. Su un commento a queste unità didattica, mi permetto di rimandare a G.Carosotti, La didattica delle competenze, in l'Acropoli, anno XI, n°6, novembre 2010. 7)Cfr. le osservazioni riportate in G.Longoni, http://www.casadellacultura.it/756/il-sapere-storico-oggi . 8)Mi riferisco soprattutto a un particolare modo di concepire la didattica digitale. Cfr. in proposito: http://www.casadellacultura.it/187/il-prezzo-della-scuola-digitale-pagato-dalla-cultura . Completamente condivisibile peraltro l'osservazione di F.Germinario¸Un mondo senza storia, Asterios, Trieste 2017, pag. 41: "la rete è utilizzata quale scorciatoia per ridurre, se non eliminare seccamente, il tempo dedicato allo studio; nel senso comune, insomma, la rete è vista come lo strumento più utile per sopprimere il lavoro intellettuale". 9)La definizione è di A.Giroux, in Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2010. 10)Cfr la definizione di "sapere critico" di F.Germinario, op.cit., pag.35: "compito dell'allievo suscitare problemi, associato alla convinzione che le soluzioni dei problemi possono anche essere diverse". 11)G.Galasso, Storia e storiografia. Una microriflessione estemporanea, in l'Acropoli, n.3, maggio 2011, p.202 12)Cfr. per esempio S.Settis, La pulizia "etica" della nuova scuola che insegna il nulla, in Il Fatto quotidiano, 7 luglio 2018: "Perciò bisogna "costruire una scuola da cui escano cittadini migliori", e non solo "una scuola da cui escano lavoratori", la cui competenza primaria sia quella voluta da Lorsignori: la competenza di saper servire, meglio se gratis (a questo serve la funesta "alternanza scuola-lavoro) […]" 13)Che tale interpretazione non sia estremistica è dimostrato, a nostro parere, dalla costante e reiterata definizione dell'insegnante quale operatore, riportata in diversi documenti attuativi e programmatici pubblicati negli ultimi anni dal ministero. Operatore proprio perché mette in opera una strategia e un metodo decisi da altri, considerati più esperti, sulla base di finalità collettive urgenti che l'insegnante, il quale ha come riferimento solo la vita interna del proprio istituto, non potrebbe comprendere. Si tratta evidentemente di un'attività etero diretta. Tant'è che tra le nuove caratteristiche che dovrebbero identificare la professionalità docente, vi è anche quella di accettare -supponiamo a questo punto anche senza condividerle, ma sulla base di un riconoscimento d'autorità- e di mettere in pratica processi didattico comunicativi elaborati da personale esterno alla scuola. 14)Orientamenti per l'insegnamento della filosofia nella società della conoscenza, http://www.miur.gov.it/-/documento-orientamenti-per-l-apprendimento-della-filosofia-nella-societa-della-conoscenza 15)Ibid., pag.09. A pag.13 dello stesso documento di parla anche di fornire, attraverso la filosofia, una "cassetta degli attrezzi concettuali" ad ogni studente. 16)Cfr. MIUR, Competenze e curricoli, prime riflessioni: "Le competenze si costruiscono sulla base di conoscenze. I contenuti sono difatti il supporto indispensabile per il raggiungimento di una competenza; ne sono, per così dire, gli apparati serventi […] Le conoscenze […] si basano unicamente sui contenuti da trasmettere in termini di essenzialità, ovvero attraverso la riorganizzazione dei contenuti dell'insegnamento per nuclei fondanti". Anche questo passo è citato in Fondazione Agnelli, op.cit., pag. 157. 17)Potrebbe essere anche un solo argomento all'anno, come suggerisce il presidente della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto, Un insegnamento più europeo passa per il lavoro di gruppo, in La Stampa, 19 dicembre 2017: "paradossalmente, un gruppo di insegnanti potrebbe affrontare in tutto l'anno un solo argomento, ma farlo così approfonditamente da trasmettere agli studenti un metodo di studio utile per sempre". 18)Il termine olistico viene utilizzato in modo opposto dai teorici della "didattica per competenze". Una contestualizzazione globale e sistemica, rispettosa del "fattore di contesto", viene ritenuta trasmissiva e nozionistica. Secondo Luciano Benadusi (op.cit., pag. 155) il termine spetterebbe invece interamente all'approccio per competenze, in quanto attuerebbe "uno spostamento dell'attenzione sulle capacità della persona piuttosto che sulle sue performance" 19)Il teorico più intransigente di tale modo di intender la didattica della storia è Ivo Mattozzi. Il link che fa riferimento alle sue teorie è il seguente: https://www.clio92.it/ .
© RIPRODUZIONE RISERVATA 21 SETTEMBRE 2018 |