Paolo Branca e Girolamo Puglisi  
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IL PARADIGMA "BARBARICO"


L'esistente che non dovrebbe poter esistere



Paolo Branca e Girolamo Puglisi


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Ancora oggi il sempre maggiore afflusso di immigrati provenienti da paesi poveri o martoriati da guerre e dittature genera ansie presso gli ospitanti e produce sentimenti spesso contraddittori di repulsa o di accoglienza.

La figura del "barbaro", pur nelle varietà delle descrizioni che la storia ci restituisce, presenta delle caratteristiche che paiono costanti. Tentiamo di delineare la figura del "barbaro" a partire da testimonianze storiche, tratte in particolare dal periodo romano tardo-antico e dalla storia arabo-islamica.

La breve raccolta di testimonianze ha come fine quello di illustrare come qualsiasi giudizio diretto ai popoli "barbari" sia, al netto delle variabili, caratterizzato aprioristicamente della categoria di barbaro.

Certo, leggendo le testimonianze del passato, non ci si imbatte solo in giudizi negativi, ma anche positivi: paradossalmente questi ultimi però confermano tanto quanto i primi quel che vogliamo mostrare, dal momento che lo stupore che accompagna questi giudizi presuppone il pregiudizio che, anche se buoni o finanche migliori degli autoctoni, pur sempre di barbari si tratta.

Qualcuno non ha esitato ad esaltare le virtù dei barbari, paragonate più o meno esplicitamente ai vizi che avevano invece indebolito l'etnia fino ad allora dominante.

Il celebre visir dei Selgiuchidi Nizâm al-Mulk (1018-1092) si esprime a riguardo con estrema franchezza:

Meglio è uno schiavo obbediente

la morte del padre questi hanno in mente

mentre il primo si augura la gloria del padrone in abbondanza.

 

Analogamente a quanto aveva fatto Salviano (400 ca.-480 ca.) piangendo la fine di Roma:

Noi siamo impudichi fra barbari pudichi. Dico di più: persino loro, bar-bari, si scandalizzano delle nostre sconcezze! I goti, ad esempio, non ammettono che tra di loro ci sia un donnaiolo. In mezzo ad essi, i soli a cui sia permesso di essere immorali - a pregiudizio della loro nazionalità e del loro nome - sono i romani! E allora vi chiedo: davanti a Dio, quale speranza ci resta? Noi amiamo le trasgressioni sessuali, i goti ne hanno ripugnanza; noi snobbiamo la purezza, mentre essi l'amano; la fornica-zione per essi è un reato e un danno, mentre per noi è un vanto […]. Chiedo a coloro che ritengono essere noi migliori dei barbari: mi dicano solo se qualcuna di quelle porcherie viene commessa dai goti, magari anche solo da pochissimi! O quale di quelle azioni non venga invece commessa da tutti o quasi tutti i romani!

Si tratta spesso di giudizi che non si collegano solo alla realtà contemporanea agli autori, ma si spingono a cercare nel passato e, per così dire, "alla radice" presunte differenze nella natura o nell'indole stessa dei popoli in competizione, a dispetto persino della comune fede professata da entrambi, come in questi versi di Isma'il ibn Yasar (VIII sec.) che rimproverano gli arabi per l'usanza preislamica di sopprimere le neonate rivendicando la superiorità dei persiani:

Come agirono nel tempo i persiani?

Almen noi le nostre figlie crescevamo,

mentre voi le seppellivate vive con le vostre mani!

Al contrario, come nel caso di Giovanni Crisostomo, l'origine "bar-barica" può essere considerata ininfluente all'interno di un nuovo orizzonte universalista che si ritiene abbia superato simili pregiudizi:

Come il sole è comune e la terra è comune, così lo sono il mare e l'aria, e molto più di così la predicazione del Verbo è divenuta comune. Diceva Paolo: "Poiché sono in debito verso i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare anche a voi di Roma" (Rm 1,14-15). Perché allora stupirsi di quanto è detto nel Nuovo se già nel Vecchio Testamento accadeva lo stesso? Infatti il primo progenitore tanto della chiesa che della sinagoga, di quest'ultima secondo la carne e della prima secondo lo spirito, era barbaro e proveniva dalla media Perside. Parlo del patriarca Abramo.

[…] Anche Mosè venne educato e crebbe in una casa barbarica e non ne ebbe alcun danno ma anch'egli, non meno del patriarca, si comportò da sapiente […]. Non riteniamo quindi la presenza dei barbari in chiesa ragione di vergogna quanto piuttosto ragione di grande onore; infatti lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, quando venne sulla terra, chiamò per primi i barbari [i Magi della Perside].

Quando alle differenze etniche si sommavano substrati religiosi diversi, non erano del tutto assenti persino attacchi espliciti verso il credo dei nuovi venuti; si può registrare ad esempio lo scherno di chi era rimasto legato al manicheismo diretto ai riti dei neoarrivati musulmani, come riportato nel Târîkhnâma di Bal'ami (m. 977):

Quando vedono in preghiera i musulmani dicono che son come cammelli ben schierati

e, poi, quando a faccia a terra li vedono prostrati dicono che mostrano al loro Dio i deretani!

Naturalmente i cambi della guardia potevano essere più facilmente esser digeriti dopo che i nuovi sovrani ebbero acquisito meriti storicamente documentabili, ed ecco Abu Shama (XIII sec.) celebrare in versi le gesta dei Mamelucchi che impedirono ai Mongoli di dilagare ulteriormente verso ovest:

Ogni terra i Tatari hanno assoggettato,
ma dall'Egitto un turco a lor s'è presentato
senza tema per la vita sua. In Siria li ha distrutti e dispersi, non c'è flagello che una risposta simile ad esso non avversi
…un'ode al sultano al-Ashraf al-Khalil che conquistò Acri nel 1291:
Sia lodato Iddio, il regno dei crociati è alfin caduto
tramite i turchi la religione dell'eletto popolo arabo ha trionfato.

Lo stesso era avvenuto per le città romanizzate delle province bar-bare dell'Impero romano:

Massilia (Marsiglia), un tempo città greca, ora ha assunto un carattere barbarico, avendo abbandonato la sua costituzione ancestrale e abbrac-ciato il modo di vita dei suoi conquistatori. Ma anche ora non sembra aver perduto nulla della dignità dei suoi antichi abitanti poiché i franchi non sono nomadi, a differenza di altri popoli barbarici. Il loro sistema di governo è grosso modo formato sul modello romano […]. Per essere un popolo barbaro mi colpiscono come estremamente educati e civilizzati: sono in pratica come noi, salvo che per il loro diverso stile di abbiglia-mento e per la loro lingua."10

Anche nei detti popolari finì per imporsi un certo realismo:

Meglio la tirannia dei turchi che la giustizia degli arabi! (zulm al-atrâk wa-lâ 'adl al-'arab).11

Troviamo significativi corrispettivi d'altro ambiente ed epoca, dalla penna di autori di vaglia, ma sostanzialmente animati da un simile sentimento, come ad esempio Orosio (375 ca.-420 ca.):

Senza indugio i barbari, maledette le spade, si sono convertiti all'aratro e trattano i romani superstiti come alleati ed amici, al punto che si posso-no trovare in mezzo a loro alcuni romani i quali preferiscono sopportare tra i barbari una libertà povera, piuttosto che una continua richiesta di tributi tra i romani.

In modo simile si esprime Salviano:

Le società barbariche rifiutano il malcostume di infierire contro i poveri con le pesanti imposizioni e con la distribuzione ingiusta delle elargizioni, che vanno anzitutto a vantaggio dei ricchi. Ed è per questo che l'unico augurio che si fanno i romani che vivono là è di non venire mai a trovarsi nella necessità di ricadere sotto il diritto di romani. L'unica unanime preghiera che fanno là gli immigrati romani è che sia loro con-cesso di passare la vita con i barbari.

Anche alcuni secoli dopo, dinanzi all'avanzata dei musulmani, i bizantini sceglievano sovente di passare sotto la guida dei conquistatori piuttosto che restare sotto il governo dei propri correligionari:

[I dhimm? ebrei e cristiani della città di Hims] "preferirono la domina-zione e la giustizia dei musulmani allo stato di oppressione e di tirannia nel quale vivevano [sotto il dominio di Bisanzio].

Realismo del resto non assente in autorevoli commentatori ispirati a un notevole pragmatismo: "I turchi son divenuti sovrani, ognuno ad essi presti ascolto e obbedisca" ebbe a scrivere al-Mas'udi (m. 957), mentre Bashshâr Ibn Burd (m. 784) non aveva esitato a vantarsi delle sue origini non arabe senza mezzi termini:

Dite a tutti che un uomo di alto pregio
io sono, sopra qualsiasi altro fregio
Mio nonno fu Cosroe, eletto in gloria,
e Sasan fu mio padre, e la memoria
risale sino a Cesare, zio materno,
fra i miei antenati in conto che squaderno.
Quanti e quanti progetti avvolti intorno
dalla corona di mio nonno un giorno!
[…]
non sorseggiava, non beveva latte,
da vasi di cuoio o da coppe fatte
di pelle di capra, dietro un rognoso cammello,
cantando il canto nodoso
di un cammelliere, né alla coloquintide,
stremato dalla fame, fatica e dolore
mai si avvicinò mio padre, cercatore.
Né un albero ha battuto col bastone,
per far cadere frutti a perdizione,
né una vipera dalla coda aguzza,
vivace e mobile come una frusta,
abbiamo mai arrostito, né stanato
la lucertola dal suolo roccioso
per poi mangiarla in modo febbricoso,
né mio padre mai s'è riscaldato
sopra una fiamma accovacciato,
né tra le gobbe di un cammello in sella
usava cavalcare.

Ancor più esplicito nel commentare sarcasticamente i poeti preislamici (di etnia araba) e le loro abusate metafore era stato del resto già il campione della poesia abbaside Abû Nuwâs (m. 815):

Si fermò il disgraziato su una traccia interrogandola, ma io mi sono fermato a chiedere della bettola del paese.
Piange colui sulle tracce dei Banu Asad di un tempo. Dimmi un po', sciagurato, chi sono mai i Banu Asad?
Chi sono i Tamìm e Qays e compagni? Gli arabi del deserto presso Dio non valgono un soldo.
Possa non asciugarsi l'occhio di chi piange su di una pietra, e non si rassereni il cuore di chi sospira per un piolo di tenda.
Lascia andare tutto questo, e bevi vino vecchio, giallo, che separa lo spirito del corpo.

E d'altra parte, presso le comunità barbariche della tarda antichità riusciva ad attecchire anche la cultura migliore del tempo, lasciando meravigliato lo stesso Girolamo (347-420):

Chi lo direbbe? La barbara lingua dei goti alla ricerca della verità ebraica! Mentre i greci sonnecchiano, anzi si perdono in polemiche, proprio la Germania vuole scrutare a fondo ciò che lo Spirito Santo ha dettato! "Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accet-to" (At 10, 34-35). La vostra mano, fino a ieri callosa a forza di stringere l'elsa della spada, le vostre dita esercitate soprattutto a tirar d'arco ora hanno la flessibilità necessaria per tenere lo stilo e la penna: l'impeto bellicoso dei vostri cuori si trasforma in mitezza cristiana.

Al realismo pragmatico e disincantato di alcuni spesso si contrappone l'orgoglio di altri che sottolineano più volentieri elementi di discontinuità e di opposizione.

Nel mondo arabo, per esempio, non mancò chi tentò di rintracciare nell'indole beduina e nelle sue "naturali virtù" le ragioni del successo delle conquiste arabe, come il già citato al-Mas'ûdî:

Gli arabi preferiscono lo stile di vita beduino e risiedere nel deserto. Di conseguenza, tra tutti i popoli, sono i più abili e resistenti, nonché sani e robusti. Sono anche i più gelosi del proprio onore, i più scaltri, i migliori tra i loro vicini. Ciò deriva loro anche dalla salubrità del clima e dai vasti spazi in cui vivono.

Qualità in questo caso positive, tanto quanto negative, erano invece irrimediabilmente ritenute quelle di altri nomadi in altro contesto da Sidonio Apollinare:

Tu eviti i barbari perché hanno fama di essere malvagi, io li fuggirei an-che se fossero buoni.

Accanto a posizioni chiaramente preconcette, si ponevano teorie più o meno argomentate sulla malvagità intrinseca dei barbari, quanto alla crudeltà, ma anche quanto alla refrattarietà ad ogni forma di civile convivenza. Come in Vittore di Vita:

E voi che amate i barbari e che talvolta li lodate a vostra condanna, considerate ora il loro nome e comprendetene i costumi. Avrebbero forse potuto essere chiamati con un altro nome, se non con quello di barbari, dal momento che è loro appropriato il vocabolo di ferocia, di crudeltà, e di terrore? Ma per quanti blandimenti tu possa fare ad essi, per quanti servigi tu possa offrir loro per farteli buoni, essi non sanno far altro che invidiare i romani. E per quanto pertiene alla loro volontà, desiderano sempre di offuscare lo splendore e la nobiltà del nome romano, e desiderano solo che nessuno dei romani viva, e quando sembra che risparmino i sottomessi, li risparmiano per servirsi dei loro servizi, perché non amarono mai romano alcuno.

E c'era pure chi teorizzava l'impossibile integrazione di popoli di culture diverse, come Sulpicio Severo (360-420). La sua testimonianza è resa più convincente dallo scandalo, che dalle righe emerge, di trovarsi dinanzi a compagini sociali, in cui popoli diversi per cultura si trovano a condividere luoghi e incarichi comuni. Siamo a un passo dallo "scontro di civiltà", giacché l'argilla e il ferro non possono legarsi in un composto solido:

Infine il fatto che [nel sogno di Nabucodonosor] sono mescolati ferro e argilla, due materiali che non si amalgamano mai tra loro, fa presagi-re che le mescolanze del genere umano saranno ragione di discordia reciproca, poiché il suolo romano risulta insediato da genti straniere, occupato da ribelli oppure consegnato in una sorta di pace a quanti si sono sottomessi. Così vediamo nazioni barbariche e soprattutto, gli ebrei, presenti nei nostri eserciti, nelle province e nelle città, che abitano in mezzo a noi ma non adottano la nostra cultura.

Nel contesto arabo-islamico, secondo alcuni, i "valori" degli arabi andavano a vantaggio anche di chi veniva a contatto con loro, come attesta Ibn Qutayba (m. 885):

Il dovere di proteggere i loro vicini e le loro proprietà supera di gran lunga possibili intese o interessi che abbiano coi loro più stretti amici. Chiunque di loro darebbe del suo a favore del vicino.
Sono ospitali al massimo grado, preferiscono dare che ricevere e sono munifici tanto da sopportare per questo privazioni.25

Ammirazione che si dilatava su tutto ciò che li riguardava, a partire dalla lingua, sommamente celebrata da al-Jâhiz (m. 868):

Se condurrai chiunque di questi arabizzati tra puri beduini - veri tesori di eccelsa eloquenza - e lo presenterai a un poeta di genio o a un valente oratore, egli comprenderà che quanto gli hai detto è la verità e ne constaterà la prova dalla sua stessa esperienza', cui farà ancora eco al-Tawhidi (m. 1023): "In nessun'altra lingua abbiamo trovato qualcosa di simile alla purezza dell'arabo. Mi riferisco alla bellezza delle parole, all'armonia delle lettere, alla chiarezza dei suoni, all'equilibrio della parti e delle strutture.

Vero è tuttavia che le conquiste arabe (del VII-VIII sec.) si erano svolte in un periodo di espansione e sviluppo, mentre la decadenza abbaside vide l'affermazione di nuovi popoli e sovrani in un quadro di desolazione che si prestò ad esser presentato a tinte assai fosche come nei versi di Ibn Lankak al-Basri (m. 912):

Gli uomini liberi sono scomparsi, distrutti e perduti
Il tempo mi ha collocato in mezzo a genti barbare
Mi dicono: "Troppo a lungo te ne stai in casa seduto"
Rispondo: "Che diletto avrei a uscire per le strade
ove non vedrei altro che cavalli montati da scimmioni?".

Con le devastazioni operate dai Mongoli la situazione venne poi percepita e raffigurata in toni apocalittici, perpetuatisi in detti che senza fare troppe distinzioni etniche, sono esemplari nella loro drasticità: "I Turchi sono animali senza cervello" (al-atrâk hayawân min ghayr idrâk).

Allo stesso Profeta sono stati attribuiti detti premonitori che consigliano di "non svegliare il can che dorme": "Lasciate in pace i turchi finché loro lasceranno in pace voi" (utrukû l-atrâk mâ tarakû-kum), accanto ad altri che allertano rispetto al pericolo dell'anarchia:

Altri capi dopo di me vi comanderanno, il devoto lo farà secondo la sua devozione e il depravato secondo la sua depravazione, voi dunque ascoltateli e obbedite a loro in tutto ciò che è conforme alla verità: se agiscono bene ciò sarà a vostro e loro vantaggio, se agiscono male ciò sarà a vostro vantaggio e a loro svantaggio.31

La natura selvaggia è tuttavia riconosciuta anche a secoli di distanza da Ibn Khaldûn, che vide in essa la forza capace di consentire ai nomadi di tornare periodicamente a imporsi nel corso della storia:

Gli Arabi prevalgono solo nelle pianure, a motivo della loro indole selvatica che ne fa dei razziatori rapaci. Si impossessano di tutto ciò che possono depredare senza combattere o correre rischi, per poi rifugiarsi nei loro territori selvaggi, senza resistere o battersi salvo che per difendersi. Se incontrano una difficoltà o un ostacolo, lo evitano e si dirigono verso più facili imprese. Fortificazioni e alture servono a salvarsi dalle loro razzie in quanto preferiscono non arrampicarsi, affaticandosi e correndo pericoli.

E pure una testimonianza cristiana - quella di Ammiano (330-400 ca.) - sui "barbari arabi" ci restituisce una considerazione simile:

Ma i saraceni, per noi indesiderabili sia come amici che come nemici, compiendo qua e là scorrerie devastavano in un batter d'occhio tutto ciò che potevano trovare, simili a nibbi rapaci, i quali, se scorgono dall'alto una preda, scendono velocemente e la ghermiscono e, dopo essersene impadroniti, fuggono immediatamente […] tutti sono egualmente guerrieri e s'aggirano per varie regioni seminudi, coperti sono al pube di corti e variopinti mantelli, su veloci cavalli e snelli cammelli sia in pace che in guerra. Nessuno di loro mette mai mano all'aratro o coltiva un albero o cerca di procurarsi il cibo lavorando i campi ma sempre errano per ampie distese senza una dimora o sedi fisse e senza leggi.

 

Le testimonianze riportate fin qui, provenienti da periodi storici e mondi culturali diversi, ci rendono un'immagine piuttosto plastica dell'"evento barbarico".

Qui si cercherà di comprendere cosa sia questo "evento barbarico". Innanzitutto, diciamo che è un evento, perché avviene nella storia. Non accade mai nel silenzio, ma perturba un ordine, squarcia un paesaggio culturale, irrompe fragorosamente, attirando su di sé l'attenzione, e pretende una risposta.

Focus di questo contributo non è la fenomenologia della conquista barbarica, né quella della resistenza dei residenti, quanto l'immaginario che l'evento barbarico genera ed evoca: ridurre le invasioni barbariche a meri dati storici di ordine politico, militare o economico, non basta a darne una giusta comprensione. Anche quando si dice che dall'incontro/scontro fra popoli barbari e civilizzati nasce una cultura nuova, si pone l'accento comunque su aspetti che hanno a che fare più con gli "effetti" dell'evento barbarico che con il suo accadere. Nell'apparire del "barbaro" non si apre solo la via a nuovi percorsi storici, ma si mostra un aspetto dell'umano che solo così è visibile; in altri termini, il "barbaro" è un archetipo, un paradigma irriducibile.

Di questo paradigma è possibile rintracciare delle caratteristiche costanti: la figura del barbaro, in contesti e tempi diversi, prende certamente forme diverse, ma tutte si somigliano.

L'archetipo del barbaro ha i tratti ideali del "mostro" del genere umano. Egli è l'opposto logico dell'uomo "civile", è la negazione delle regole e dei valori di una data cultura. È dunque una contraddizione vivente, perché è l'esistente che non dovrebbe poter esistere.

Il barbaro è una necessità logica del pensare l'uomo: se si pensa l'uomo, sempre situato storicamente, in un determinato orizzonte sociale, religioso e culturale, non si può non pensare il suo opposto, che è il barbaro. La categoria di barbaro, pertanto, è simmetrica a quella di uomo civilizzato (quale che sia la sua civiltà).

Il barbaro è dunque insostituibile, è già racchiuso nella stessa conformazione culturale, storica e sociale di una civiltà, in quanto sua negazione.

Da questa necessità logico-culturale di pensare il "barbaro" si pos-sono ricavare due corollari:

a) Apriorità logica. La categoria di barbaro è un a priori. Conoscere un barbaro come tale è impossibile, l'apriorità della categoria permette solo di attribuire il concetto ad un soggetto o a più soggetti, ma la sua forza risiede nell'essere sempre presente alla mente del civilizzato e nello stesso tempo nel non attagliarsi mai del tutto agli uomini a cui lo si attribuisce. La categoria di barbaro funziona solo come concetto, mai come via per la reale conoscenza dell'altro. È un concetto a priori che rifiuta ogni verifica e che non incentiva una vera scoperta dell'altro.

b) Apriorità funzionale. Del barbaro si vede solo ciò che già ci si aspetta di vedere. Chi utilizza la categoria di barbaro - senza altre mediazioni - non entra di fatto in relazione con l'altro: al più riconosce delle caratteristiche, ma non le considera olisticamente. L'altro viene cioè osservato solo sotto quegli aspetti che corrispondono alla categoria di barbaro. Di lui si vede solo ciò che già ci si aspetta di vedere: nient'altro. Dinanzi ad un barbaro si è, così, certi di vedere il barbaro: fra la categoria e l'esistente è istituita un'identità assoluta.

È possibile stabilire quale sia la morfologia del barbaro, almeno a grandi linee. Sono tratti che nel corso della storia si ripetono, sono anch'essi costanti.

Il barbaro è sempre violento per costituzione, per indole, per cultura. Dentro l'ambito della violenza si pone tutta la gamma degli atti di violenza che gli sono più congeniali: omicidi violenti, stupri, sevizie, ecc. È particolarmente insensibile ai più deboli e perciò si accanisce anche con i bambini e i più indifesi. Questa violenza distruttiva è possibile perché egli è più forte: il suo corpo è robusto, il suo fisico analogo a quello degli animali più feroci e rapaci - in effetti, è assimilabile agli animali più che agli uomini. È rapace e, dunque, predisposto sia nel fisico che nell'indole innata al latrocinio e alla predazione.

La sua animalità si manifesta anche nella grandissima capacità riproduttiva: il barbaro è massimamente prolifico, e se nella vita selvaggia la sua prolificità è funzionale alla sussistenza della specie, giunti nei paesi civilizzati tendono a diventare troppo numerosi, se non infestanti.

La vita "selvaggia" del barbaro comporta una sua refrattarietà alla pulizia e alla cura del corpo, così egli è sporco, e non è sporco solo per mancanza di mezzi o per motivi legati alla vita che conduce, ma perché non percepisce neanche l'utilità della cura del corpo e il suo orientamento ad una migliore convivenza.

Per tutte queste e ulteriori ragioni (di natura culturale, razionale e biologica) il barbaro è contrario alla civiltà, è l'incivile per eccellenza.

Non ci si può opporre radicalmente ad un barbaro, ma soltanto al barbaro. Quanto più i "residenti" approfondiscono la conoscenza delle popolazioni immigrate ("barbare") con cui entrano in contatto, tanto più l'attribuzione verso questi della categoria di "barbaro" perde ai loro occhi evidenza e ragionevolezza: o mettendola di nuovo in latenza, oppure spostandola su altri soggetti meno conosciuti.

La categoria di barbaro funziona solo sul piano astratto. La vita comune depone invece verso giudizi più miti e compromessi più praticabili.

I fatti storici testimoniano la compatibilità e l'adattabilità reciproca del cosiddetto barbaro e del civilizzato, in modo tale che quando essi condividono spazio, lavoro, tempo, il "barbaro" è sempre meno barbaro e il "civilizzato" più ospitale34 e inclusivo.

La categoria di barbaro acquista più incisività quando un popolo percepisce in qualche modo il declino della propria civiltà. Ciò accade perché il barbaro permette di ottenere - a basso costo - una spiegazione della crisi della civiltà.

Il barbaro appare dunque come una necessità, poiché in situazione di crisi esso è baluardo per l'identità della civiltà in decadenza.

Quando nello scenario culturale di una civiltà il barbaro acquista una posizione centrale, quando assume una rilevanza mediatica, quando si crea una "scienza del barbaro" - basti ricordare le citate teorie sulla impossibilità di unire barbari e romani, o le più recenti teorie dello scontro di civiltà e della refrattarietà dell'Islâm alla de-mocrazia -, quando si creano delle tecniche e degli apparati apologetici, possiamo esser certi di trovarci di fronte alla crisi di una civiltà.

Si potrebbe pensare che siano proprio i barbari a produrre la crisi, ma così non è, dal momento che le migrazioni intervengono quasi a colmare un vuoto che si crea - senza il loro intervento - nelle civiltà ospitanti. I "barbari" possono tutt'al più accelerare, non già generare il declino di una civiltà.

In relazione alla crisi di una civiltà, il barbaro, pertanto, è necessario per due motivi: primo, una civiltà in declino ricorre alla figura del barbaro per legittimarsi dinanzi al suo proprio crollo, per scongiurarlo o per compattarsi cercando di resistervi; secondo, il "barbaro", fa la sua comparsa laddove inizia la crisi di una civiltà, pronto a colmare il vuoto: c'è sempre un soggetto storico che prende le funzioni di "barbaro".

Tra l'idea della "fine della storia" e l'individuazione di popoli barbari c'è sempre stata una correlazione molto stretta.

La percezione della fine di un ciclo storico o di un assetto cultura-le, associata perlopiù all'arrivo di popoli barbari, induce gli uomini a interrogarsi sull'imminenza della fine della storia: sono casi eclatanti le reazioni estreme dinanzi al sacco di Roma del 410 per mano dei Visigoti di Alarico - lì era Roma a cadere, e in effetti era la fine di un mondo. Lo stesso stato emotivo traspare, peraltro, dalle testimonianze arabo-islamiche dinanzi alla devastante conquista mongola.

Ma è più curioso notare come in prossimità del crollo di una civiltà, questa sembri certa di aver raggiunto un tale stato di avanzamento da sentirsi al riparo da ogni futuro cambiamento, ossia di aver raggiunto il compimento ultimo della storia.

È un paradosso: ogni volta che una civiltà giunge alla sua fine o a una mutazione radicale, essa ha come la percezione di aver raggiunto il fine della storia e, dunque, di aver prodotto la fine della storia, di tutta la storia.

Non è difficile rintracciare esempi, come la visione storica di Paolo Orosio. Secondo lui, il fine della storia si realizza definitivamente con l'unione di Impero Romano e Cristianesimo (unione chiamata Romania). Raggiunta la sintesi di civiltà romana e fede cristiana il progresso della storia si conclude definitivamente: il fine della storia comporta necessariamente la fine della storia.

È interessante notare come Orosio consideri le vicissitudini legate alle invasioni barbariche solo un ritardo dovuto ai peccati dei romani, i quali hanno faticato ad aderire completamente al Cristianesimo. Non c'è il minimo sospetto che la civiltà romana stia per implodere definitivamente. Essa resta, sebbene le invasioni arrivino a toccare Roma - il cuore dell'Impero -, il culmine definitivo e immutabile della storia universale.

Probabilmente la vicinanza del barbaro, della sua differenza, della sua "arretratezza", da un lato, rende i "civilizzati" sicuri della propria superiorità; dall'altro la percezione del crollo imminente li spinge alla ricerca di un'ultima (potremmo dire "escatologica") difesa: consacrare la propria civiltà, renderla eterna, al riparo, così, da ogni mutamento. Questa consacrazione trova forma nella teoria del compimento della storia. Se l'età dell'oro è un archetipo che solitamente ha come referente il passato, in questo caso viene invece riferito al presente: l'età dell'oro è adesso, dunque, la storia si chiude, non ci sarà più una storia avvenire.

È uno scenario allo stesso tempo comico e tragico: una civiltà sta per crollare, eppure crede di star vivendo non solo il massimo del suo splendore, ma anche di essere il compimento escatologico della storia. E il barbaro è già lì, resisterà ancora per molto tempo, e avrà ancora tanta storia da vivere.

 

 

 


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02 NOVEMBRE 2018