Gabriele Pasqui  
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I CONFINI: PRATICHE QUOTIDIANE E CITTADINANZA


Commento al libro di Luca Gaeta



Gabriele Pasqui


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Come sottolinea opportunamente Luca Gaeta nell'introduzione del suo libro La civiltà dei confini. Pratiche quotidiane e forme di cittadinanza (Carocci, 2018), nonostante le retoriche sulla fine degli stati nazionali e sulla globalizzazione come sovversione continua dei limes della modernità, forse mai come ora i confini sono stati così importanti, posta di conflitti e oggetto di investimento simbolico. Il Presidente degli Stati Uniti si gioca tutta la credibilità nei confronti del suo elettorato sulla costruzione di un muro che limiti l'accesso degli immigrati da sud nel suo Paese. I principali conflitti in atto in Cina riguardano confini tra terre e popolazioni, ultimi, gli Uiguri nella regione dello Xinijang, che convivono nella stessa terra con l'etnia maggioritaria degli Han ma che sono controllati e repressi attraverso molte pratiche di confinamento. Il Mediterraneo è un grande confine ad alta permeabilità, innanzitutto tra ricchi e poveri, e, come spesso accade sui confini, è anche un grande cimitero di gruppi e popolazioni che continuamente spingono per superare confini e barriere. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: quel che è certo è che i confini, nelle loro diverse fogge e forme istituzionali e simboliche, costituiscono una posta politica per eccellenza, al centro dell'attenzione da parte degli stati, degli attori economici ma anche dei semplici cittadini.

Luca Gaeta, nel suo libro, ci aiuta a capire perché ciò accada, assumendo un atteggiamento che egli stesso definisce "genealogico", ossia orientato a comprendere le radici e le condizioni di possibilità del discorso ma soprattutto delle pratiche del confine, assumendo il doppio genitivo (pratiche della produzione dei confini, ma anche pratiche che sono generate dai confini e che fanno corpo con questi) come chiave per sottrarre i confini al "pregiudizio statocentrico". La civiltà dei confini, tanto per la prospettiva genealogica assunta, quanto per l'intenzione esplicita di costruire i materiali per un "sapere generale dei confini", è un libro indisciplinato e irregolare, nel senso in cui possono definirsi indisciplinati e irregolari alcuni studiosi (Hirschman, Bateson, Illich) che, nella seconda metà del XX secolo, hanno provato ad attraversare i confini disciplinari nel campo delle scienze sociali e a costruire ipotesi, descrizioni, teorie a partire dal proprio oggetto di interesse. Il testo di Gaeta, per queste ragioni, non si fa domare facilmente, non si fa catalogare con semplicità in un ambito disciplinare. È debitore della riflessione teoretica di Carlo Sini sul tema delle pratiche, frequenta la storia e l'antropologia, bordeggia temi di filosofia della fisica discutendo la dialettica tra spazio relativo e spazio assoluto, dialoga con autori come Bourdieu e Lefebvre. Naturalmente, il testo assume come centrale anche il tema dei confini in ambito urbanistico, pagando il debito dovuto nei confronti di Luigi Mazza, maestro di Luca Gaeta che ha incessantemente invitato a pensare alle pratiche di pianificazione spaziale come forme di "ordinamento spaziale di cose e persone", strutturato attraverso "trame di confini".

Tuttavia, il libro di Gaeta non si lascia ingabbiare dentro i confini dell'urbanistica, mostrando piuttosto condizioni di possibilità "archeologiche" (nel senso di Michel Foucault) delle pratiche urbanistiche e di regolazione dei suoli come pratiche di produzione dei confini. Il testo è strutturato in tre parti. Nella prima, dopo l'importante Introduzione, è contenuto un denso capitolo che prova a restituire lo sfondo teorico di un "pensiero transdisciplinare dei confini", a partire da una prospettiva in prima istanza antropologica. Nella sezione successiva il tema è messo alla prova con riferimento a tre pratiche di costruzione dei confini, indagate a partire dalla tradizione manualistica in ragione dell'attenzione non tanto alla definizione esplicita del concerto di confine, quanto alla struttura pragmatica della produzione di confini. Le tre pratiche considerate sono l'agrimensura romana, con particolare riferimento all'attività di centuriazione; lo zoning, nelle sue radici tedesche e americane; il boundary making durante la fase dell'espansione coloniale degli stati nazionali europei tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo. Le tre pratiche, che sono in prima istanza "tecniche di produzione dei confini", sono lontane nel tempo e molto diverse tra loro. Esse sono accostate efficacemente in ragione delle suggestioni generali che emergono intorno a un pensiero del confine da una loro analisi ravvicinata (e molto documentata). L'ultima parte prova infine a fornire materiali per un nuovo pensiero del confine, che superi quello che Gaeta chiama il "monofisismo del confine", ossia la sua assunzione esclusiva come pratica sociale o come oggetto spaziale, a partire dalla prospettiva delle pratiche della vita quotidiana e dall'analisi degli effetti di controllo generati dai confini.

Il libro è molto bello, ma non è facile. Richiede un lettore paziente e motivato, ma certamente premia il suo sforzo offrendo spunti di riflessione in molte utili direzioni, anche per chi si occupa di ordinamenti spaziali entro il campo della città e della sua regolazione istituzionale. Non è possibile sintetizzare le analisi molto acute proposte nel libro. In forma esplicitamente semplificata provo a definire quelli che mi sembrano i principali statement del volume, sui quali sarebbe importante continuare a lavorare, a partire da una riflessione accurata non tanto di quel che il confine "è", quanto di quel che il confine "fa".
Primo: per studiare i confini è necessario abbandonare il pregiudizio statocentrico. Esistono moltissimi tipi di confini (per esempio, quelli amministrativi che si intrecciano nello spazio urbano) che operano all'intreccio tra territorialità istituzionale e consuetudinaria, in alcuni casi anticipando, in altri seguendo, in altri ancora orientando o correggendo l'andirivieni quotidiano delle pratiche.
Secondo: per questa ragione studiare i confini significa assumere la centralità della vita quotidiana, l'orizzonte delle pratiche abituali, essendo il confine "l'orizzonte delle molteplici pratiche abituali di una persona, così come di molteplici pratiche collettive" (p. 106).
Terzo: l'assunzione di una prospettiva centrata sulle pratiche abituali costringe ad abbandonare il "monofisismo", assumendo che "le determinazioni dei confini sono indifferentemente materiali e sociali; non nel senso che le qualità si confondono, ma nel senso che ogni determinazione materiale è anche sociale e viceversa" (p. 98).
Quarto: ciò implica una teoria del nesso tra relazioni sociali e spaziali che ha davvero elementi di grande originalità. Gaeta non sta argomentando che ci sono nessi stringenti tra le forme materiali dei confini e le relazioni sociali che li istituiscono o li subiscono, attraversandoli, proteggendoli o provando a scardinarli. Sta dicendo che confine materiale e sociale, nella pratica, sono uno.
Quinto: il significato di questa ipotesi sulla doppia natura del confine conduce a interpretare efficacemente la territorialità della vita quotidiana, assumendo la natura sfuggente e al tempo stesso strutturante del potere esercitato attraverso i confini amministrativi.
Sesto: se il controllo (parziale) esercitato attraverso pratiche di confinamento amministrativo (che sono anche forme di cittadinanza) può essere visto come il "verso" della relazione di controllo che si presenta come "regolazione di quanto c'è di sociale nelle pratiche abituali mediante quanto c'è in esse di spaziale" (p. 135); il "recto" della stessa relazione agisce indifferentemente in pratiche sociali, materiali e simboliche producendo lo spazio (che è necessariamente spazio relazionale), ossia fondando e stabilizzando lo spazio intersoggettivo attraverso il confinamento delle pratiche.
Settimo: per questa ragione lo spazio del confine è un campo relazionale, nel quale la pratica di confinamento si configura come una duplicazione delle pratiche abituali, in cui si esercitano i suoi effetti di controllo. Per usare le parole dell'ultimo, difficile capitolo del libro di Gaeta: "il confine fa effetto perché sta al bivio tra il mondo materiale e il mondo sociale, contribuendo al loro manifestarsi nella figura spaziale del contre rôle. Il mondo materiale e il mondo sociale si costituiscono in modo tale che i rispettivi fenomeni possano interagire, duplicandosi" (p. 165).

Non so se sono stato in grado di mostrare, almeno per cenni, la ricchezza e anche la complessità (che in qualche caso sarebbe necessario forse scogliere) dell'argomentazione di Gaeta. Sono tuttavia certo che il libro, proprio per la sua natura irregolare e indisciplinata, possa essere assai prezioso per chi, come gli urbanisti, lavora necessariamente sui confini, senza interrogarsi spesso su quel che sta facendo, sugli effetti che produce sul senso e sulle condizioni genealogiche di possibilità del suo agire. La civiltà dei confini è dunque una occasione di pensiero e di attenzione alle nostre stesse pratiche, di cui dobbiamo essere grati al suo autore.

Gabriele Pasqui

 

 

NdC - Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, dirige il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.

Tra le sue pubblicazioni: Territori: progettare lo sviluppo. Teorie, strumenti, esperienze (Carocci, 2005); Progetto, governo, società: ripensare le politiche territoriali (F. Angeli, 2005); con Pier Carlo Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio. Critiche e proposte (Maggioli, 2008); con Simonetta Armondi e Paola Briata, Qualità dell'abitare e nuovi spazi pubblici. Esperienze di rigenerazione urbana a Cinisello Balsamo (Maggioli, 2008); con un contributo di Marianna Giraudi e Anna Moro, Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli (a cura di), In movimento: confini, popolazioni e politiche nel territorio milanese (F. Angeli, 2008); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno: interpretazioni e prospettive (Recs, 2010); con Arturo Lanzani, L'Italia al futuro: città e paesaggi, economie e società (F. Angeli, 2011); con Matteo Bolocan Goldstein e Silvia Botti (a cura di), Nord Ovest Milano. Uno studio geografico operativo (Electa, 2011); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno. Interpretazioni e prospettive (Nuova Grafica Fiorentina, 2011); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli, Strategic Planning for Contemporary Urban Regions. City of Cities: a Project for Milan (Ashgate, 2011); Urbanistica oggi. Piccolo lessico critico (Donzelli, 2017); con Paola Briata e Valeria Fedeli (a cura di), Le agende urbane delle città italiane, secondo rapporto sulle città di Urban@it (Il Mulino, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018).

Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi, 26 febbraio 2016, ora in R. Riboldazzi (a cura di), Città Bene Comune 2016. Per una cultura urbanistica diffusa, Edizioni Casa della Cultura, pp. 102-105.

Del libro Urbanistica oggi. Piccolo lessico critico (Donzelli, 2017) si è discusso alla Casa della Cultura il 15 maggio 2018, nell'ambito della VI edizione di Città Bene Comune, con l'Autore e con Francesca Governa, Francesco Infussi, Camilla Perrone.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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11 GENNAIO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

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2018: Cesare de Seta
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- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione

 

 

 

 

 

 

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