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«Rosetta. Un progetto culturale nomade» è un ciclo di incontri che per due anni ha messo in relazione tra loro i luoghi milanesi della produzione e della distribuzione culturale affrontando temi diversi tra loro come le migrazioni, l’accessibilità, la diffusione del sapere e dell’ignoranza, i beni comuni e gli spazi di produzione culturale, il significato di concetti come classi sociali, genere, conflitto, piacere e tanti altri.
È un progetto ideato e promosso da Casa della Cultura di Milano e cheFare, realizzato con Fondazione Cariplo.
Fare i bilanci a fine anno, o a conclusione di un percorso di due anni, richiede un’oggettività che spesso manca. In alcuni casi per troppa fiducia nelle proprie capacità, in altri, come nel mio, perché le esperienze assumono un valore affettivo che falsa ogni valutazione, e perché è difficile, nello specifico, pensare al lavoro fatto senza vedere un possibile miglioramento, correttivo, aggiustamento in corsa.
Per questo ci piace farli a mente fredda, ad anno concluso, già pronti per i nuovi inizi, per correggere il tiro senza crogiolarsi nella nostalgia, lasciando sedimentare gli elementi e le emozioni.
Questa modalità -sicuramente faticosa- ci ha permesso di trasformare in due anni il percorso culturale nomade di Rosetta e di riflettere, insieme, lungo il cammino. Si è trattato di una traiettoria urbana e culturale che per conformazione, per modalità e per natura, è stata sempre unitaria, sebbene ogni incontro abbia una storia propria, perché prodotto di relazioni plurime, che hanno rafforzato e dato senso al percorso. Se prima le azioni che portavano alla serata venivano fatte sulla base di urgenze, in due anni è stato visibile come ogni passaggio (in primis con Giulia Osnaghi, poi con il resto del gruppo di lavoro e dei partners) fosse non solo un obbiettivo di lavoro, ma una tappa di senso.
Immaginare un tema che avesse un interesse, una connessione col percorso, con Milano, con i suoi spazi e le sue urgenze; collocarlo idealmente in un luogo; contattare quel posto, quell’organizzazione, sono le prime fasi che hanno accompagnato ogni incontro. E quel passaggio -inizialmente pensato per individuare uno spazio fisico e una data possibile- è stato la parte principale e più importante degli eventi, perché basata su relazioni nuove, sull’ascolto e su molti tentativi di incontro, non solo virtuale, ma di presenze e di viaggi.
Lentamente, una traiettoria obbligata è diventata una co-progettazione degli eventi, e più si è dialogato con i gestori dei nuovi centri culturali, più gli incontri hanno assunto un senso, un’importanza, una fisionomia precisa e un allineamento tra spazio e tema. Non solo. Si creavano legami. Di queste relazioni, di queste fiducie accordate e di questo pensare insieme gli incontri, siamo infinitamente grati.
Con questo metodo abbiamo trasformato (insieme) il rapporto tra luoghi e tematiche, seguendo le urgenze e le passioni non solo nostre, ma anche dei nostri interlocutori – e di urgenze ne abbiamo incontrate: da Macao sotto sfratto per parlare di diritto alla città, al Cinemino sequestrato in cui si discute di rivoluzione delle piattaforme, fino alla Santeria, nell’occhio del ciclone per la mostra di “porno per bambini” in cui, mesi prima, avevamo fissato l’incontro sul piacere.
Il senso unitario dell’andare non è stato di immediata comprensione all’esterno, sebbene per noi fosse chiarissimo. Quei legami, quelle mail, telefonate, sopralluoghi, che non avevano – spesso – un riscontro materiale nelle tre ore della serata, erano Rosetta, così come il dialogo e gli scambi con gli autori prima di riuscire a portarli sui divani (o sulle panchette, o sulle poltroncine) della discussione hanno invece un peso fondamentale per il progetto e per la sua riuscita, perché è quell’alchimia che rende la serata piacevole, sono quelle sintonizzazioni che fanno stare bene in quel luogo, ascoltando quel tema, insieme.
Abbiamo sommato molte variabili – tra le varie: andranno d’accordo tra loro gli ospiti? Si ascolteranno? Accetteranno l’informalità del contesto? Affronteranno il tema? Ci sarà l’aperitivo? Ci sarà pubblico nonostante la neve/la pioggia/le zanzare/lo sciopero dei mezzi?- rendendo ogni serata una sorpresa, una scommessa e spesso una scoperta.
Eppure c’era un momento, spesso percepibile durante la moderazione in cui quel pubblico, quei pubblici (a volte volti amici, altre volti nuovi) e gli ospiti si facevano uno. Un’unità silenziosa, attenta, in ascolto. Era quel momento che ci permetteva di dire: “anche stasera l’abbiamo portata a casa”. E questo è stato uno degli insegnamenti da mettere a frutto nel nuovo anno.
Quando abbiamo immaginato due anni e mezzo fa Rosetta, le sfide erano due: una, morettiana, che si fondava su “No! Il dibattito no!”. La seconda era il portare i pubblici in periferia, attraverso un immaginario nuovo (pensato e realizzato da Maddalena Fragnito, che non ringrazieremo mai abbastanza per l’identità grafica di Rosetta).
La prima sfida è stata – fortunatamente – persa. Ci siamo resi conto, di tappa in tappa, che tentare di trasformare il dibattito in qualcosa di differente non sarebbe stato fruttifero, perché le persone vogliono e desiderano discutere. Si tratta di un’urgenza crescente, quasi più forte di quella iniziale, pedagogica, di proporre percorsi culturali. I nostri pubblici volevano tornare a casa con domande, più che con risposte puntuali. Ogni serata ha sollevato dubbi, posto questioni, e spesso avviato scambi che continuavano poi tra il vino e i taralli.
Rosetta ha reso più piacevoli e meno tristi i luoghi in cui spesso avviene, e ha avvicinato pubblici che sentono questa urgenza ma che spesso non frequentano i luoghi classici della discussione, come le aule dell’università o i centri studio. Per questo gli spazi incontrati hanno rappresentato uno sfondo più naturale, ma non scontato, per le discussioni.
Se si uniscono gli spazi in un percorso a piedi nella città di Milano, si raggiungono e superano i settantadue chilometri. I diciotto luoghi che abbiamo attraversato in due anni si posizionano (salvo un paio di casi) tutti all’esterno della cerchia dei bastioni, spesso fuori anche da quella della circonvallazione. Sono spazi polifunzionali, e spesso diventa difficile trovare le forme giuridiche corrette per descriverli. Sono luoghi differenti, ma che hanno dimostrato sempre curiosità e disponibilità al ragionamento condiviso, ad ospitare pubblici e interlocutori, a proporre nomi, temi, interessi.
Quindi grazie in primis a Fondazione Cariplo, che ha creduto per prima nell’impresa e ha deciso di sostenerci economicamente nei due anni di lavoro appene terminati. Grazie a Casa della cultura, partner attento e disponibile, che ha messo a disposizione quasi settant’anni di esperienza nella riflessione critica e negli incontri aperti al pubblico, nell’approfondimento e nella ricerca di una condivisione dei saperi. Con loro abbiamo ragionato di come individuare e sviluppare nuovi pubblici (il progetto nasceva da un bando sull’audience development) ed è stato interessante e stimolante metterci in discussione insieme per questo. Un grazie speciale va a tutti coloro che ci hanno ospitato: Cinema Beltrade, WeMake, Bar Joy, Otto, Rob de Matt, Libreria Gogol & co., Opendot, Macao, Santeria Paladini, Base, Polifactory, Mare Culturale Urbano, Mercato Lorenteggio, Nuovo Armenia, Libreria Verso, Il Cinemino, Santeria Social Club.
Un ulteriore, doveroso, ringraziamento va ai nostri ospiti. 78 autori che hanno accettato il nostro invito, e che si sono dimostrati curiosi, partecipi, polemici, appassionati e generosi. Tra di loro ci sono docenti universitari italiani e stranieri (da Michel Bowens a Stefano Simonetta, da Andrea Fumagalli a Valentina Pisanty, da Gloria Origgi a Giovanni Ziccardi, da Pietro Vereni a Paolo Mottana, da Umberto Curi a Salvatore Veca, passando per Claudio Paolucci e Matteo Schianchi), scrittori (in ordine sparso: Edoardo Albinati, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta, Francesco Pecoraro, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Ugo Cornia, Veronica Raimo, Marco Philopat, Paolo Nori, Gabriella Kuruvilla), quattro registi (Suranga Katungapala, Sebastiano Mauri, Alessio Cremonesi, Monica Stambrini), attori (She Yang Shi) , uno psichiatra (Thomas Emmenegger), una sociologa basagliana (Maria Grazia Giannichedda), alcuni giornalisti e autori (Stefano Liberti, Christian Raimo, Antonio Sgobba, Nicola Bruno, Marina Pierri, Hamilton Santià, Valerio Mattioli, Raffaele Alberto Ventura, un sindacalista (Aboubakar Soumahoro), una direttrice di un festival teatrale (Eva Nekylayeva) svariati designer (Enrico Bassi, Stefano Maffei, Ezio Manzini) un artista (Adrian Paci), qualche avvocato, un pizzaiolo scrittore (Cristiano Cavina) , alcuni critici cinematografici (come Gianni Canova, Fabrizio Luisi), altri letterari (come Daniele Giglioli) , molte femministe (Giorgia Serughetti, Elisa Cuter, Carlotta Cossutta, Giulia Blasi, e quasi tutte le ragazze citate in precedenza), oltre ad attivisti e attivatori sociali, curatori museali, pensatori e ribelli.
Leggerli in fila, oggi, restituisce la complessità e la pluralità del dialogo che si è tentato di tracciare, non sempre intergenerazionale ma di sicuro interdisciplinare, politico, che pensa alla città e alle sue forme.
Nel tempo, il pubblico si è creato e consolidato, spesso differenziandosi per luoghi e temi di interesse. Senza esagerare, abbiamo visto e dialogato con circa 1500 destinatari nelle varie serate, a volte inserite anche all’interno di programmazioni più articolate (come nel caso del fruttuoso scambio con Bookpride sul tema “intellettuale”).
A questo pubblico dal vivo, si è aggiunto, nel tempo, un pubblico silente che ha seguito le serate in streaming (ogni puntata ha oscillato tra le 1000 e le 2000 visualizzazioni, raggiungendo nel 2018 circa 15000 accessi complessivi), oltre ai lettori degli articoli di accompagnamento.
Se l’impatto atteso, proprio nell’ottica dell’audience development, era l’allargamento del pubblico delle associazioni coinvolte, l’impatto inatteso è stato la creazione di una vera e propria comunità di intenti, che condivideva il desiderio di confronto, l’approccio critico, aveva letto o studiato alcuni degli autori, e si affidava a noi per conoscerne altri, così come per seguirci in posti più o meno conosciuti.
Più di una volta ci è stato detto: “Non ero mai stato in questo quartiere”, o “Pensavo che la Bovisa fosse lontanissima, ma invece si arriva”, o ancora “Dopo Rosetta sono tornata al mercato/al cinema/in libreria”. Nonostante i 72 chilometri percorsi, Milano è diventata più grande e più vicina, più conosciuta, più accessibile, proprio perché la distanza è una questione soggettiva e si dilata negli spazi sconosciuti. E questi risultati della sfida del nomadismo, non possono che farci felici.
Arrivati al termine di questi due anni, così come al termine di ogni incontro, rimangono molti temi aperti, così come la voglia di continuare a discutere.
Ogni concetto del 2018 potrebbe diventare una serie di incontri, perché riflettere di ceto, di conflitto, di genere, di piacere, di istituzioni e di futuro non si può esaurire in nove serate.
Rimane la voglia di discutere, e di farlo più a fondo, riprendendo le fila degli scambi passati, ritornando negli spazi ora amici.
Sebbene non sappiamo ancora con quali forme e modalità, quello che è certo è che, in qualche modo, continueremo a farlo nel 2019. Abbiamo voluto iniziare il nuovo anno da Rosetta come proposito, come monito, per tornare a ragionare insieme in questo nuovo anno che inizia.
Per cui, come dopo ogni serata, vi lasciamo con l’impagabile Matteo Saltalamacchia, questa volta in forma di playlist, che raccoglie alcuni dei pezzi ascoltati nelle rosette passate. Speriamo possano distrarvi in questo inizio lavorativo, e che riescano nell’attesa, a mantenere viva la voglia di ascoltare, l’attesa di Rosetta. La scritta luminosa è nel baule (dell’auto), pronta a ripartire.
Per chiudere in bellezza abbiamo chiesto al nostro DJ Matteo Saltalamacchia di farci una selezione della musica che ha portato in giro per Rosetta durante il 2018. Questa playlist è il risultato
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