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Nella interessante collana “Sguardi sul mondo attuale” dell’editore Guerrini e associati esce ora l’ottimo libro di Ferruccio Capelli “Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il fenomeno populista” che ha il pregio di offrire un’analisi del nostro tempo tramite un incrocio di saperi economico, sociologico, politico e storico che, riflettendosi reciprocamente, offrono un sicuro effetto di conoscenza e, soprattutto, la comprensione di quella che un tempo era chiamata “opinione pubblica” (ricordate Habermas?) e ora, nella distruzione contemporanea dei significati, viene definita “la gente”.
Il libro di Capelli, intessuto da una straordinaria conoscenza bibliografica, può costituire un punto d’arrivo della nostra storia, una specie di autobiografia sociale che pone difficili interrogativi sul nostro destino, se non quello sottinteso e sicuro di una pessima sorte per la distruzione dell’equilibrio planetario che è stato il costo della modernità. Capelli scrive: “Per evidenziare gli effetti della nuova grande trasformazione sono stati scelti tre campi di ricerca: la disintermediazione, la solitudine e lo spaesamento. La disintermediazione deriva dalla rivoluzione informatica che pone direttamente gli individui nello spazio del mondo: il digitale tende ad appiattire il mondo”. Da qui un individualismo mentale (ho evitato apposta “simbolico”) che rafforza quello economico e ha come risultato una folla priva di qualsiasi solido riferimento collettivo, una folla che “si muove nella mediosfera, soprattutto in Rete”. La democrazia (che è tale se funziona come un sistema che contempla poteri e regole in equilibrio) entra in crisi perché cambiano tutti i rapporti di mediazione che sono necessari. È necessario concludere che il risultato sociale è di fatto che la democrazia “sotto la spinta della nuova tecnologia digitale” si è trasformata in una democrazia disintermediata nella quale imperversano la folla e i nuovi leader autoritari. Sarebbe scorretto parlare di fascismo poiché sono molto diversi i referenti sociali, ma certamente di una nuova forma di autoritarismo sorretto dalla formalità democratica che, a dispetto di ogni retorica, merita una consapevolezza rigorosa. Capelli poi passa ad esaminare la forma sociale del lavoro che è del tutto mutata sia nella sua forma esecutiva con i sistemi di automazione sia nei suoi effetti psicologici privi della tradizionale solidarietà, sia nella sua valutazione etica, sia nel suo esito politico. Ciascuno diventa imprenditore di se stesso in una sottintesa concorrenza. È, aggiungo io, la vittoria della lotta di classe che i ceti ricchi hanno vinto con una potente macchina ideologica che interpretava come bene necessario la situazione di fatto. Era possibile ri-cominciare con una nuova critica dell’economia politica? Dal punto di vista teorico era molto facile, ma nella situazione concreta una simile critica al “popolo” pareva una vichiana “boria dei dotti”. Così che la “teologia mercantile” (non è il linguaggio di Capelli) non è proprio per niente la “fine della storia”, è solo l’inizio di un modo di essere con un effetto contrario ma invisibile rispetto all’umanesimo in crisi della società contemporanea: un dio che usa e disprezza le sue creature.
Questo è forse un altro modo di dire quella situazione che Capelli segna come solitudine che, nella povertà della propria identificazione, deve distruggere qualsiasi livello simbolico comunque costruito: soli, poveri, drogati dallo spettacolo, aggressivi, nei confronti di qualsiasi livello del sapere. Forse devoti a microtecnologie. Cambia anche qualsiasi relazione temporale. Capelli dice che il futuro è “entro di noi prima che accada”. Probabilmente questo fatto è possibile come effetto di un “presente assoluto”. L’avvenire è una parola da Feuerbach, ma è anche una parola popolare come nel celebre inno dell’Internazionale”. A livello della immaginazione di questa nuova forma di soggettività c’è l’identificazione populista che, tuttavia è una variabile sociale nei diversi ambienti etici e politici. Capelli scrive: “il populismo è il sintomo più evidente della crisi della politica ridotta nella stagione neo-liberale a tecnica di adattamento al mercato e di gestione del contingente”. Domanda: quanto di questi elementi era presente anche nella politica che si riconosceva in un modello culturale? In questo contesto nasce un’idea di popolo che non ha niente a che vedere né con la tradizione che discende da Rouseau, né con la tradizione tedesca da Bach a Nietzsche, né con la tradizione americana della rivoluzione. Il popolo è l’argomento che non ammette repliche, la parola sovranità, stravolta dal suo significato originario, legittima qualsiasi arroganza. Capelli mostra le diverse forme di populismo, nella prassi forse vi è sempre un certo mixage. Il finale è con la domanda: “il populismo come destino della democrazia?”. Sappiamo sin dal vecchio De Sanctis che la democrazia può coltivare anche la propria crisi. E temo di dover dire che il populismo ha già trasformato la democrazia nella sua parodia. Credo però che dobbiamo anche misurare noi stessi allungando la prospettiva in una dimensione culturale e politica mondiale. Quivi troveremmo che l’Europa, un tempo dominatrice del mondo, oggi “paga il fio” della sua potenza, e vive l’ora del vero tramonto. Non quello ideologico e fantasioso di Splenger duramente criticato da Croce e copiato invece dal Duce. Misurare dunque noi stessi, imparando da Spinoza a diffidare della nostra immaginazione, magari aiutata da una kantiana “buona volontà”, e da una emotività che deriva da un pensiero filosofico che si è sempre attribuito il compito di una pedagogia. Ed è per questo che i rimedi indicati nel libro mi paiono vittime di una tautologia: adoperare come rimedi le stesse categorie di cui, molto lucidamente, si vede la fine. Ma resistere si può, e lo si deve alla nostra storia.
Pubblicato su ODISSEA
© RIPRODUZIONE RISERVATA 01 FEBBRAIO 2019 |