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Cos’è il populismo e perché oggi sembra incontenibile e globale, dopo essersi affacciato in realtà ben prima della crisi del 2007? Le risposte sono molte perché molti sono i populismi e molte le cause che li hanno prodotti. Elenchiamone alcune, per approssimazione: per una nuova psicopatia sociale fatta di servo-padrone, di servitù volontaria/istinto gregario alla ricerca di un capo-branco, di conformismo e di effetto-rete, di inchino (o baciamano, per Salvini) al Grande Inquisitore; per l’incapacità della sinistra di resistergli dopo averlo prodotto con le sue politiche scellerate; perché sembra una valanga che trascina tutto a valle, o sabbie mobili che inghiottono la democrazia, la libertà, i diritti umani civili politici e sociali, l’idea di solidarietà e di umanità facendoci navigare non solo a ritroso verso una retrotopia (Bauman), ma verso una animalità ferina da stato di natura pre-contratto sociale, figlia di trent’anni di egoismo/egotismo neoliberale e di società della prestazione/competizione. Tutto però in nome del popolo sovrano, un popolo in realtà totalmente de-sovranizzato proprio dal populismo - molto più che dalle élite che dice di combattere.
Non dimentichiamoci poi che in questi ultimi trent’anni le élite e le classi dirigenti che Baricco critica su Repubblica hanno fatto solo ciò che tecnica e neoliberalismo chiedevano loro di fare: cancellare la società (che non esiste e non deve esistere, come sintetizzava Margaret Thatcher, perché esistono solo gli individui); trasformarla in mercato e tecnica e in innovazione/disruption incessante; rimuovere la democrazia se necessario perché, come sosteneva il neoliberista von Hayek, meglio una dittatura favorevole al mercato che una democrazia contraria al mercato, un principio oggi aggiornabile in: meglio un populismo pro-mercato che una democrazia contraria al mercato (e quindi, se non deve esistere la società può essere invece utile creare il popolo per proseguire il neoliberalismo, con altri mezzi). Detto altrimenti: il populismo potrebbe essere (è?) la risposta del sistema alla sua stessa crisi, dal contratto neoliberale Lega-M5S allo sfruttamento capitalistico dell’Amazzonia di Bolsonaro, alla ordoliberale legge sul lavoro di Orban. Creando cioè il tecno-capitalismo - è la sua grande abilità antropologica e psicologica - i meccanismi di compensazione emotiva necessari a ristabilire un certo equilibrio psichico (i social, le community e infine i populismi digitali/politici) per far sentire meno soli quegli individui prima de-socializzati e poi incattiviti perché potessero essere più performanti/innovativi per la volontà di potenza richiesta dal sistema.
Ma stiamo divagando. Per rispondere alla domanda iniziale occorre leggere con attenzione questo nuovo volume di Ferruccio Capelli – Direttore e animatore della Casa della Cultura di Milano dal 2000, nonché fine saggista – Il futuro addosso*, dove appunto si cercano le cause del populismo ma soprattutto si cerca di ricomporle in un quadro coerente perché «serve uno sguardo a tutto campo della nuova grande trasformazione nella quale siamo immersi». Partiamo allora, tra i molti punti/spunti offerti da Capelli, dalla globalizzazione. Ricordando con lui che già a metà Ottocento, «due giovani tedeschi scrissero, in un Manifesto che diventerà celebre: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”». Una analisi che allora «sembrava ardita e visionaria», mentre «è una delle più stringenti caratterizzazioni della modernità». E se tutto è movimento – e una schumpeteriana distruzione (molta) creatrice (poco), oggi aggiornata in disruption (sempre) – occorre guardare anche alla tecnica, perché globalizzazione e innovazione tecno-scientifica sono processi che si sono «incrociati e sovrapposti sistematicamente». Ai quali va sommata «l’ideologia neoliberale che ha guidato l’attuazione pratica di questi processi», il neoliberalismo essendo l’ultima ideologia del Novecento e l’unica tracimata nel nuovo secolo: oggi forse in crisi, ma sicuramente «la più potente, l’unica a raggiungere diffusione e influenza globale».
Alla fine, come campi di ricerca scelti da Capelli, ecco gli effetti più evidenti di questa trasformazione: la disintermediazione prodotta dalle nuove tecnologie digitali (che riguarda la democrazia, l’economia, il lavoro e le relazioni umane); la solitudine (effetto inesorabile della morte della società e della socialità/solidarietà, ma anche delle trasformazioni del lavoro, ciascuno tuttavia oggi avvolto dall’illusione di una assoluta libertà e di un assoluto protagonismo di sé come imprenditore di se stesso, libero di scegliere quando e quanto lavorare); e lo spaesamento (la perdita delle grandi narrazioni del passato, che tuttavia hanno lasciato il posto alla grande narrazione di tecnica e neoliberalismo). Capelli analizza poi il concetto di istinto gregario, del populista come nuovo meneur de foule, di spazio pubblico/corpi intermedi e del loro logoramento prodotto dalla tecnica, della trasformazione della democrazia basata sulla rappresentanza in democrazia disintermediata (o forse, solo apparentemente disintermediata, l’intermediazione essendo oggi prodotta da piattaforme/social) nonché della insicurezza sociale, «vero terreno di coltura di quelle ondate di paura, di rabbia e di rancore che sono cavalcate con tanta spregiudicatezza dai vari populismi».
E ancora la rete, «che favorisce il protagonismo individuale ma spezza il sistema di mediazione», dove «vincono la folla e i nuovi leader autoritari» e nella quale «la discussione si fossilizza e si inasprisce. (…). Il dubbio e il confronto, ovvero i presupposti stessi di un atteggiamento e di un pensiero critico, vengono accantonati e depotenziati». Per non parlare del fake. Per cui la democrazia – scrive Capelli - è diventata una partita di hockey su ghiaccio: «gioco veloce, continui ribaltamenti di campo, scivoloni e risse sempre in agguato».
Tutto questo impedisce di guardare al futuro, di esercitare un doveroso principio di responsabilità e di precauzione, tutti arrendendosi alla pedagogia neoliberale e tecnica del non ci sono alternative e a un divenire (Capelli cita Rilke) dove il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada. Una resa che è tuttavia perfettamente funzionale a ciò che noi definiamo il determinismo di tecnica e neoliberalismo per cui l’uomo deve solo adattarsi (meccanismo criticato anche da Capelli) alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione tecnica del lavoro. Ovvero: «il futuro incombe ma non è prevedibile e narrabile. Il passato è ridotto a passione erudita o ad acritica nostalgia. Il nostro orizzonte è tutto rinchiuso dentro (…) un presente in continuo movimento (…), la retorica dell’innovazione non lascia scampo».
Molti populismi, dunque, classificabili, secondo Capelli, in sei tendenze, variamente ricombinate/ricombinabili tra loro: nazionalpopulismo, populismo identitario, patrimoniale, antipolitico, mediatico, populismo per contagio. Ma con un di più: «il populismo, una volta insediatosi, tende a riprodursi e ad alimentarsi ulteriormente» e lo stile populista viene «imitato e riprodotto dagli altri competitori» politici – come il caso del populista Renzi.
Che fare, come uscire dal populismo, «un fenomeno politico pervasivo quant’altri mai»? Ripartendo – scrive Capelli – dalla battaglia delle idee («antica e nobile funzione di cui sembra si siano perse le tracce»), perché senza idee è impossibile ricostruire un pensiero critico che possa poi tradursi in azione politica. Una critica capace – riappropriandoci della possibilità e della capacità di praticarla - di mettere a fuoco e di governare democraticamente e in termini di giustizia sociale e di solidarietà anche con le future generazioni alcune questioni-chiave: il riscaldamento climatico, frutto perverso di una ideologia della crescita illimitata e «di un Prometeo scatenato che ha rotto ogni argine»; le migrazioni; le disuguaglianze; la disoccupazione tecnologica. Ma per questo, conclude Capelli, occorre imparare a pensare criticamente anche la democrazia e la libertà («svilita e impoverita dal neoliberalismo e dal postmodernismo»), «cambiando la scala delle priorità, ragionando su una nuova agenda». Recuperando – contro una trasformazione «trainata da automatismi che sembrano fuori controllo» - una visione umanistica del mondo: «Perché il futuro non ci rotoli addosso, ma si possa tornare a progettarlo e costruirlo».
* Ferruccio Capelli Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista Guerini e Associati Pag. 214 € 19,50
Pubblicato su alfabrta2 © RIPRODUZIONE RISERVATA 30 GENNAIO 2019 |