Vi ricordate quando i due mantra della politica erano "convincere gli indecisi" e "le elezioni si vincono al centro"? Roba del passato. L'utilizzo dei social network da parte dei politici ha rovesciato le priorità della comunicazione, che si è fatta più diretta, spontanea e aggressiva; rivolta soprattutto (se non esclusivamente) ai propri sostenitori. Ma perché profondere tutte queste energie al solo scopo di rivolgersi a chi ha messo il like alla pagina Facebook, o segue il profilo Twitter, di un particolare politico e quindi con tutta probabilità è già orientato a votarlo?
"La verità è che rivolgersi solo ai propri sostenitori non è considerato un rischio", spiega Giovanni Ziccardi, docente di Informatica Giuridica alla Statale di Milano e autore di Tecnologie per il potere (in uscita il 21 febbraio da Cortina editore). "Il politico oggi vive in un contesto di polarizzazione: la profilazione e il marketing mirato reso possibile dai social network puntano molto di più a consolidare il voto e a risvegliare determinate idee in chi ha già un orientamento preciso.
Quasi nessuno cerca di far cambiare idea agli elettori. Da questo punto di vista, la politica non è più l'arte della persuasione, perché per molti politici è sufficiente coccolare il proprio elettorato. Non c'è un dialogo, ma un costante gettare benzina sul fuoco".
Una metafora incendiaria che sintetizza chiaramente il livello raggiunto dal dibattito politico in molte democrazie occidentali (e non solo). E che ha dei risvolti inquietanti: "I toni che oggi si stanno diffondendo erano usati, fino a poco tempo fa, solo dai partiti estremisti", prosegue Ziccardi.
"L'aggressività paga in termini di consenso e diventa un modello; mentre essere pacati e provare a fare un ragionamento sta diventando merce sempre più rara". Dare la colpa direttamente alle piattaforme digitali, però, sarebbe un errore: "Non è colpa dei social network se è cambiata completamente la modalità di fare politica. È più corretto dire che i politici hanno capito che questi strumenti possono essere utilizzati per ottenere un consenso, una gratificazione e un riscontro immediato; e li sfruttano di conseguenza".
È lo stesso meccanismo di immediatezza (soprattutto in termini di condivisioni e impatto emotivo) che ha trasformato le fake news in uno dei temi più dibattuti dei nostri anni. Un dibattito in cui si confrontano due correnti di pensiero: chi le considera uno strumento in grado di manipolare l'opinione pubblica e chi pensa che si tratti un fenomeno oggi più evidente, ma il cui effetto è limitato e che comunque non rappresenta una novità (sotto questo aspetto, il recente caso con al centro i Protocolli dei Savi di Sion sembrerebbe dare loro ragione).
In maniera simile, anche la targettizzazione dei contenuti - che sui social ha avuto il suo esempio più lampante durante lo scandalo Cambridge Analytica - è in verità uno strumento tutt'altro che nuovo; basti pensare ai giornali di partito, ai circoli, al ruolo della Chiesa, ecc. ecc.
"In questa visione c'è solo una parte di verità. L'errore sta nel sottovalutare quanto il volume dei dati analizzabili e l'immediatezza della condivisione consenta una proliferazione dei contenuti che prima ci si poteva solo sognare", precisa il docente. "Ormai è possibile conoscere l'elettore ancora meglio di quanto lui non conosca se stesso. Questo è il potere degli algoritmi: trovare correlazioni che la mente umana non è in grado di individuare; analizzare milioni di dati e trovare la fascia elettorale perfetta a cui rivolgere determinati slogan. La natura di fake news e targettizzazione magari è la stessa del passato, ma il loro potenziale è completamente differente".
A causare preoccupazione, ovviamente, è anche il fatto che questi strumenti potrebbero aver giocato un ruolo di primo piano nella vittoria di personaggi come Donald Trump e il presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Forse, però, si tende a dimenticare che internet è stata centrale anche nelle campagne elettorali di Barack Obama e oggi contribuisca notevolmente al successo di Alexandria Ocasio-Cortez.
Non sarebbe il caso di considerare i social un campo di gioco neutro, che può premiare sia i buoni sia i cattivi (per così dire) e che, soprattutto, con il tempo diventerà un territorio sempre più livellato, sfruttato da tutti in maniera ugualmente efficace?
"Solo in teoria. In pratica le cose funzionano diversamente. Se anche tutti i politici usassero i social in maniera simile, ci sarà sempre qualcuno che può contare su tecnologie nuove e differenti; allo stesso modo in cui Trump ha usato in maniera diversa e sempre più precisa gli stessi strumenti usati da Obama. Non ci sarà mai una vera parità delle armi; avrà sempre un vantaggio chi riesce a sfruttare l'ultima tecnologia (e quindi chi ha più soldi da spendere) e soprattutto chi è disposto a giocare sporco senza farsi troppi scrupoli morali".
Giocare sporco, sui social, significa utilizzare sistemi ben precisi: creare innumerevoli profili falsi e automatizzati (i bot) in grado di diffondere a macchia d'olio determinati messaggi, mettere in moto eserciti di troll per colpire e diffamare un avversario, far circolare fake news per intorpidire le acque.
"Abbiamo visto, proprio in Italia, un ministro aizzare i suoi seguaci su Twitter per colpire e insultare delle ragazze che lo avevano contestato; esponendole a una gogna che può anche rovinare la vita delle persone", prosegue Ziccardi. "Da questo punto di vista, le nuove tecnologie avvantaggiano i politici meno etici, che non si fanno scrupoli e che, tra l'altro, si comportano in modo molto diverso quando sono in televisione - dove mostrano il loro volto migliore - rispetto a come si comportano in rete".
Queste considerazioni, ovviamente, portano a una conclusione drammatica: i politici peggiori, privi di scrupoli e più spregiudicati sono quasi naturalmente avvantaggiati dai meccanismi dei social network. Come se ne esce? "Sono tre i rimedi da combinare", spiega l'autore di Tecnologie per il potere. "Prima di tutto, aumentare educazione e cultura; riportando in auge l'attenzione nei confronti delle fonti e la diffidenza verso i titoli più clamorosi.
Questo è già un buon 33% del lavoro da fare. L'altro aspetto è il diritto: ovviamente, siccome si parla di reati di opinione, bisogna trattare l'argomento con estrema delicatezza. In alcuni casi, però, è necessario intervenire: come dimostra la polemica riguardante le influenze russe nelle elezioni USA che non accenna a fermarsi. Infine, la tecnologia deve riuscire ad aiutarci a individuare i discorsi d'odio, i troll, le fake news.
Bisogna combinare questi tre aspetti e partire da quelli educativi; perché se oggi i ragazzini sentono che il ministro degli Interni si permette di usare certi toni, sono naturalmente portati a considerarli normali e a comportarsi di conseguenza. Un problema, per quanto invece riguarda l'aspetto tecnologico, è che i colossi digitali non hanno così tanto interesse economico a combattere questa battaglia e forse non stanno investendo quando dovrebbero".
Nonostante le promesse di internet di rendere l'informazione sempre più libera - e di trasformare in realtà l'utopia del cittadino informato - non siano state mantenute, ci sono oggi nuove "tecnologie del potere" che promettono di aumentare la partecipazione democratica, di rendere impossibili i brogli elettorali nei paesi a basso tasso democratico e altro ancora. Tra queste, spicca inevitabilmente la blockchain: "Negli ultimi due anni è sembrato che questa tecnologia fosse in grado di risolvere ogni problema", spiega Ziccardi.
"Io mi sono limitato a osservare i progetti che usano la blockchain per gestire i registri pubblici. È ciò che avviene in Estonia, dove grazie a questa tecnologia si può acquistare un terreno con lo smartphone in maniera completamente sicura. Nel contesto del voto si parla invece sempre in prospettiva, ma ancora non c'è stata alcuna sperimentazione".
Eppure, startup come Follow My Vote puntano a usare la blockchain per consentire a tutti di votare in sicurezza usando direttamente il computer di casa, puntando così ad aumentare l'affluenza alle elezioni. "Ma è ancora tutto sulla carta", precisa il docente. "Inoltre, non si guarda a sufficienza ai costi in termini di potenza di calcolo e di consumo energetico. C'è una grande attenzione nei confronti della blockchain e dei suoi possibili utilizzi nella filiera democratica, ma non c'è ancora nulla di concreto".
Da questo punto di vista, fa anche una certa impressione parlare di una tecnologia (ancora) avveniristica come la blockchain quando le piattaforme già oggi esistenti per la democrazia diretta - un'altra grande promessa del digitale - hanno più volte dimostrato di essere estremamente vulnerabili (com'è il caso di Rousseau del Movimento 5 Stelle).
"Gli strumenti informatici che raccolgono le opinioni politiche dei cittadini devono necessariamente essere progettati in maniera sicura; oggi invece l'attenzione alla sicurezza della macchina elettorale è ancora molto bassa e questo rende possibile rubare informazioni e dati riservati. Le potenzialità di queste piattaforme, anche per abilitare nuove forme di democrazia diretta, sono interessanti; ma l'investimento in sicurezza dev'essere enorme".
Se, da un lato, gli strumenti digitali potrebbero, in futuro, aumentare la partecipazione politica, dall'altro c'è chi si domanda se abbia ancora un senso andare a votare quando gli algoritmi di Google e Facebook ci conoscono meglio di quanto non ci conosciamo noi stessi.
Non sarebbe il caso, come si è provocatoriamente chiesto lo storico Harari in Homo Deus (e non solo), di lasciare che siano proprio questi algoritmi a votare al posto nostro? "Anche accettando la provocazione, c'è un problema insormontabile", prosegue Ziccardi. "Questi algoritmi non sono trasparenti, non abbiamo idea di quanto e come ci conoscano e continueremo a non saperlo. Si tratta di algoritmi segreti e che rimarranno tali, dal momento che rappresentano la forza economica delle aziende che li hanno progettati. Sulla carta il discorso potrebbe anche essere interessante, ma nella pratica affideremmo il voto a sistemi di cui nessuno conosce il funzionamento e che magari portano con sé i pregiudizi di chi li ha creati".
Di ottimismo nell'aria, in definitiva, ce n'è poco. "Ma questo è comunque un periodo di passaggio", conclude il professore. "Nella tecnologia non c'è niente di virtuale, è parte della nostra società. Se oggi siamo in un periodo di crisi tecnologica - a base di fake news e altro - è perché siamo in un periodo di crisi sociale. La tecnologia è solo lo specchio della situazione in cui ci troviamo attualmente".
Pubblicato su cheFare.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA 08 FEBBRAIO 2019 |