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Il coraggioso libro di Montanari “le Pietre e il popolo“ mette in luce, dal punto di vista di un appassionato storico dell'arte impegnato in una battaglia civile che non solo è da sostenere ma a cui tutti dobbiamo nel nostro piccolo concorrere, un aspetto che trovo di particolare interesse, oltre alla constatazione di fondo, trattata anche da critici quali Jean Clair in “Hiver de la Culture” o ne “La crisi dei musei”, di un progressivo e indotto imbarbarimento della società occidentale.
Nodo centrale del libro sono le dinamiche di impoverimento e sottrazione di spazi pubblici e identitari - siano essi un museo, una biblioteca, un giardino, una piazza, una chiesa, un teatro.
Tra le righe delle sconfortanti cronache analizzate da Montanari, si legge in filigrana che la storia è una prospettiva futura che richiede conoscenza, rispetto, sensibilità, passione civile e creatività. Quando cita in negativo i casi di privatizzazione della cultura a Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, l'Aquila per un architetto della mia generazione - quella del Reduce, Reuse, Recycle della Biennale di Architettura del 2012, formatosi sui libri della scuola portoghese e sulla pratica della colta scuola milanese – verrebbe da abbracciarlo. E sono sicuro che non sarei il solo, in tanti siamo convinti che un programma di manutenzione degli edifici storici, il loro responsabile restauro e coerente riuso, l'utilizzo di concorsi pubblici quale principale mezzo di selezione, possano essere le migliori opportunità di valorizzare il nostro paese.
Nella più che condivisibile lettura di Montanari alcuni spazi pubblici sono “sacri”, in senso laico, ovvero sono la rappresentazione e identità stessa di uno Stato, di una cultura, di un'etica, dei valori fondanti di una società civile da trasmettere, tanto quanto la sua storia, fondatrice di identità individuale e collettiva. Nella stessa direzione Deyan Sudjic in “Architettura e Potere”, riporta una frase illuminante di Churcill, dichiarata al Parlamento inglese quando si discusse del come ricostruire Westminster dopo i bombardamenti nazisti: “noi diamo forma agli edifici e successivamente gli edifici danno forma a noi”. Il progetto in questa ottica “alta” è interprete e sintesi del difficile rapporto tra natura e artificio, tra genius loci e invenzione, tra storia e modernità ma nel caso di Westminster, andava ricostruita tale e quale a come era prima della guerra, per orgoglio nazionale e valore simbolico.
Invece purtroppo oggi, complice una spietata crisi economica ed una deleteria gestione dei fondi pubblici – l'1,1 % della spesa pubblica viene destinata alla cultura, con una media europea del doppio; 8,5 % all'istruzione; ultimi e penultimi in Europa - siamo ancora sotto il bombardamento di una generalizzata deregulation sia in ambito Cultura che in quello Territorio, ma non possiamo permetterci di stare chiusi in un metaforico bunker a rivedere film come Underground di Kusturica o il Comandante e la cicogna di Soldini dove la statua di Garibaldi vedendo cosa capitava alla sua città dall'alto di un piedistallo si chiese: 'Sale il timore che questo popolo non fosse atto a governarsi da sé; un dubbio mi brucia nel petto: se non fosse meglio tenersi gli austriaci '.
Il libro di Montanari è di alto valore civico, cerca di trovare soluzioni, oltre che di rendere noto - cosa già di per se utile - il colpevole decadimento istituzionale, non da oggi, e la mancanza di un progetto culturale sostenibile; un progetto che bisogna oggi trovare il modo sia di elaborare che di tradurre per formare una cittadinanza attiva che, nell'odierno mondo delle immagini, ha sempre meno strumenti culturali e capacità di discernimento a disposizione. In ambito milanese, l'alter ego de “Le pietre e il popolo” è stato a mio avviso l'inchiesta di Stefanoni “Le mani su Milano”, edito nel 2013 e riguardante l'architettura; mi piacerebbe tentare di intrecciare i due temi che rispondono, in forme diverse, alle stesse dinamiche predatorie di spazi pubblici identitari.
Ad esempio, quando alla Fondazione Catella, fondata dal figliol prodigo dell'immobiliarista Ligresti, inaugurarono la mostra “Grattanuvole a Milano”, con un bello stampino del Politecnico, all’insegna di un memorabile intervento della curatrice “La verticalità è nel Dna della città, fin dalla guglia maggiore del Duomo di Francesco Croce” (poi partirono i fuochi d'artificio!), alla Fondazione Corrente - piccola gemma milanese resistente dal 1978 dove si diffondono saperi e cultura - venne l'idea di organizzare una mostra.
L'occasione di fare da contraltare al percorso espositivo che partiva dai disegni della torre Galfa, ex proprietà del mentore di Catella, e si concludeva con una collezione di cartoline da New York di Italo Rota, era troppo ghiotta.
Nacque cosi la mostra collettiva e ciclo di incontri “Horizontal city”, che voleva stimolare una riflessione sul “modello verticale” milanese, presunto Dna che si sovrapponeva alla città storica ed alla memoria di essa dei suoi abitanti.
La “città orizzontale”, attraverso l'interpretazione di artisti di diverse generazioni, è la città degli abitanti, del mondo del lavoro, dei rapporti tra persone, luoghi e memoria che creano quell'identità urbana, oggi velata, di cui scrive tra le righe anche Montanari. Horizontal city quindi non è un “derby” milanese tra “modello verticale” e “modello orizzontale”, ordinata e ascissa, bianco e nero, padroni e sudditi, ne un riferimento a vetusti modelli urbanistici, ma un ventaglio di temi: quale rapporto tra città e abitanti produce il “nuovo” modello insediativo dei grattacieli nel territorio di Milano? quale etica? quale valori?
Mi piacerebbe analizzare alcuni aspetti critici del modello verticale, che meriterebbe analisi molto più approfondite, e sapere che cosa ne pensa in merito Montanari, quando scrive “come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, sopratutto economici”:
La tendenza a crescere in altezza è datata, era avanguardia ai tempi di Chicago, nei primi del novecento, ma oggi è indubbiamente un modello speculativo superato, come scrive anche Boatti, docente di Urbanistica. Nella stessa direzione un maestro (cattivo?) come Rem Koolhaas, cittadino di uno Stato dove i terreni per costruire città come Amsterdam sono da secoli in larga parte proprietà del Comune stesso (il Bene Comune, la terra, non è mai venduta ma è data solo in concessione..) in Delirious New York (dove in copertina ci sono due grattacieli sdraiati a letto) illustra con profonda ironia l'esegesi di Manhattan, nata sulle ceneri di un Luna Park (ai milanesi ricorda niente il luna Park delle Varesine?) all'insegna della massimizzazione del profitto. Salvatore Settis in “Se Venezia muore” parla di “retorica dei grattacieli”, di modernità di accatto, di modelli insediativi da provincia dell'Impero.
Il modello economico del grattacielo è infatti quello del maggior sfruttamento possibile dell’area a disposizione, e cioè la massimizzazione del profitto (Fuksas, intervistato sempre alla mostra “Grattanuvole” sosteneva candidamente: “Diciamolo, i grattacieli fanno la felicità unicamente degli imprenditori edili”).
I prezzi al metro quadro creano il cosidetto fenomeno di ‘gentrificazione’, che avviene quando, mettendo sul mercato appartamenti che hanno una soglia accessibile solamente dal 5% della popolazione, si fa in modo che tutti gli altri siano portati a cercare casa altrove. E' esattamente il contrario del modello di città “come spazio di dialogo e non come fulcro gerarchizzato” di cui scrive Settis.
Autorevoli studi del Politecnico di Milano affermano che la richiesta abitativa della città, la famosa domanda, sarà tra tre anni di circa 240.000 alloggi di edilizia popolare “pura”, le case popolari, ne “social housing” ne tantomeno i 220.000 mq di uffici di Garibaldi Isola, oggi di proprietà dello Stato del Qatar, venduti a circa 9000 euro al mq.
La vecchia equazione, sostenuta da Boeri sulla scia del peggior Lecorbusier (la generazione del più grande tra i grandi in urbanistica aveva qualche defaillances..) “il grattacielo, liberando spazio a terra e crescendo in altezza, tutela il consumo del suolo” senza rigorosi regolamenti urbanistici è un falso storico, mistificazione al pari dei campi di grano seminati dove il grano non può crescere, perchè nati nell'ombra di una giungla di ferro e vetro.
Il grattacielo corrisponde inoltre ad una precisa forma mentis, c'è chi stà ai piani alti e chi ai piani bassi. Infatti oggi vi investono, per autoalimentare e garantire adeguate rendite finanziarie, fondi stranieri il cui principale modello di società è profondamente antidemocratico e classista, rappresentativo di quelle culture in cui l'immobilità sociale, e il suo mantenimento, è un nodo centrale.
Inoltre Milano ha perso negli ultimi dieci anni circa 400.000 abitanti perché è una città dove la casa costa troppo rispetto ai redditi medi. La questione centrale è allora rigenerare la città esistente, magari a metro cubo zero.
Infine i grattacieli modificano il paesaggio, il rapporto visivo e simbolico tra città, campagna e Alpi che la cingono. Più in profondità, i grattacieli sradicano il “genius loci“ di Milano, più prossimo all’orizzontalità delle marcite, delle risaie, delle cascine, insomma l'orizzonte convesso della pianura padana e dei filari di platani, come giustamente sosteneva Gregotti (unica voce contraria fin dall'inizio anche ad Expo).
E' un fatto urbano che Garibaldi Isola, con la sua piazza rialzata dal suolo pubblico della città, abbia creato una nuova centralità semiprivata rivolta ai “cittadini metropolitani” della stazione Garibaldi, come sostiene Battisti, sovrapponendo il suo skyline, divenuto ormai logo anche per testate giornalistiche, alla città storica del Manzoni o di Stendhal (che scriveva “mentre nel 1496 Leonardo faceva il canale che unisce l’Adda al Ticino, noi francesi eravamo ancora dei barbari, come tutto il Nord”, elogiando al contempo anche il fascino delle donne milanesi). Una città storica che seppe a tratti, attraverso amministratori consapevoli, tutelare e mantenere eretti i Bastioni di Porta Venezia in quanto permettevano una vista sul Resegone di Lecco o evitare la lottizzazione di quello che divenne poi il Parco Sempione. Altro che perequazione!
Certo, Milano non è San Gimignano, posta in cima a una collina sulla via Francigena, dove le torri inizialmente crebbero come osservatorio di difesa ma divennero presto sterile simbolo di potere feudale, come osservato sempre da Le Corbusier in occasione del suo Grand Tour. Milano non è nemmeno Pisa, dove i fiorentini, subito dopo la conquista della città, decisero di far capitozzare tutte le superbe torri, come antidoto futuro ad ogni torcicollo... Milano è più tollerante: ha subìto la cupola più larga di San Pietro e più alta del Duomo, opera di Don Verzè per il “suo” San Raffaele (a noi oggi i debiti, Deo Gratias!) con alla sommità un minaccioso arcangelo tutto nudo e dorato, più brillante della Madonnina.
Insomma a Milano con il “modello verticale” si sono dimenticate le fabbriche, le case di ringhiera, le stadère, il Lazzaretto e l'Ospedale Maggiore; si sono dimenticati anche gli effetti dei bombardamenti, la Villa Triste e la Resistenza… non scandalizziamoci per l'ex “centro direzionale” Garibaldi isola, ma stiamo bene attenti a non far passare l'idea di una “matrice verticale” di un “Dna” perché l'eugenetica in architettura non esiste, è propaganda, utile a porre basi per nuove speculazioni che verranno poi subite dalla cittadinanza, che deve essere sempre più protagonista e consapevole di quanto anche l'educazione all'architettura possa fare contro il provincialismo e il conformismo. In fondo come ben sottolineato da Roberto Dulio, l'architettura verticale di Milano fino agli anni sessanta, se pensiamo al Pirellone o alla torre Velasca, era stata eccezionale nella sua non omologazione ad un “modello” a cui invece si è oggi piegata, ma c'erano ben altri protagonisti! Vedremo che cosa succederà, dopo l'exploit di City Life e di Garibaldi Isola, che ormai hanno conquistato una loro identità all'interno del tessuto urbano; certo non è auspicabile che lo stesso modello si ripeta anche negli scali ferroviari e nelle ex caserme oggi dismesse. E i rischi sono molto forti: forse, dopo i postumi di Expo, si aprirà un nuovo capitolo per il libro “Le Mani su Milano” inchiesta attuale dell'antico rito ambrosiano del mattone, che tante fortune private ha arricchito nel tempo.
Su Milano e i suoi nuovi grattacieli, sulla disfatta di una Expo senza senso, sui rischi connessi al deleterio progetto della Grande Brera, Montanari potrebbe dire la sua, noi lo seguiremo consapevoli di quanto scriveva Bertold Brecht 'Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono.”
Jacopo Muzio © RIPRODUZIONE RISERVATA 07 MAGGIO 2015 |