Relazione pronunciata il 30 agosto us al Convegno "Costruiamo insieme il nostro futuro" organizzato dall'Associazione Ore undici onlus.
Ringrazio l'associazione "Ore undici" per l'invito: l'ho accolto molto volentieri perché ritengo prezioso l'incontro e lo scambio tra studiosi e organizzazioni che operano in contesti diversi e con finalità non identiche.
Ho accettato al volo anche il titolo proposto: "Amore per la polis, amore non paura". Si tratta di un titolo stimolante perché contiene, implicitamente, una tesi che dovremo verificare assieme e che ci spinge verso ragionamenti di stringente attualità.
Iniziamo dalla prima parte del titolo: "Amore per la polis". Esso evoca un'esperienza storica concreta, quell'Atene del V secolo che è diventata anche il simbolo per eccellenza della libera e consapevole partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Anzi, per essere più precisi, quell'"amore per la polis" richiama inesorabilmente quell'orazione, famosissima, che Tucidide mette in bocca a Pericle per celebrare i caduti ateniesi dopo un anno di guerra. In quel discorso vi è la rivendicazione orgogliosa del valore di quell'esperienza di libertà e di partecipazione che era sbocciata all'ombra del Partenone. La città, le sue leggi, erano pensate per favorire e stimolare la partecipazione. Fino al punto che i cittadini erano pagati per partecipare alle rappresentazioni teatrali, perché il teatro era considerato un momento decisivo della formazione dello spirito pubblico.
Noi, colmi di ammirazione, che abbiamo meditato a lungo su quella vicenda, non possiamo però non aggiungere che essa era riservata a una piccola parte dei cittadini: ne erano escluse - scusate se è poco! - tutte le donne, e poi i meteci - diremmo oggi gli immigrati - e gli schiavi.
E ancora, cosa spesso sorvolata, quella meravigliosa costruzione entrò drammaticamente in crisi a breve distanza di quel discorso: anche Pericle perì nell'epidemia di peste provocata dalla guerra e la morte del grande leader politico lasciò libero spazio a una nuova generazione di abili politici dal fascino e dall'eloquio irresistibile (ricordate il giovane, bellissimo Alcibiade?). Essi intuirono che nella città si stava diffondendo un clima di insicurezza e di paura per la guerra con le altre città greche. E cavalcarono spregiudicatamente quella paura: convinsero i cittadini che era necessario dare una lezione straordinaria ai nemici della patria, che era opportuno lanciarsi in un'avventura offensiva, fino alla conquista della più grande città greca al di fuori della madre patria, la potente e lontana Siracusa. La demagogia travolse ogni prudenza e ogni calcolo ragionevole: l'esercito ateniese partì per la Sicilia e andò verso una tragica sconfitta da cui non si risollevò mai più. Ma la sconfitta non calmò i demagoghi: dopo il disastro era venuto il momento della ricerca dei colpevoli. La città fu travolta da furiose lotte intestine che avevano bisogno di qualche capro espiatorio. E a un certo punto esso fu individuato nell'uomo più giusto della città: il secolo glorioso della democrazia ateniese si chiuse con la condanna a morte di Socrate.
Sono vicende lontane 2.500 anni. Eppure esse parlano di cose di sorprendente attualità: la democrazia, anche quella che funziona meglio, può entrare in crisi rapidamente: da temersi soprattutto quando incomincia a diffondersi la paura e si apre il terreno per il dilagare dei demagoghi.
Ed eccoci arrivati, seguendo lo sviluppo di queste antiche vicende storiche, alla seconda parte del titolo: "amore e non paura". Quando si diffonde la paura in modo incontrollabile l'amore per la polis può venire manipolato e travolto. E la crisi, ci dice l'esperienza ateniese, può precipitare anche in pochissimo tempo.
2 - Ma perché ne parliamo? Tutto ciò ha a che fare con l'oggi? Proviamo a rifletterci attentamente.
Noi abbiamo la fortuna di vivere in paesi democratici, che da anni non registrano guerre sul loro territorio, con un reddito di vita mediamente buono. Eppure la paura è tornata prepotentemente tra di noi. La paura è evocata in continuazione nel dibattito pubblico. E vediamo agitarsi sulla scena pubblica veri e propri imprenditori della paura che stanno riscuotendo un enorme successo.
Ascoltiamo i dibattiti pubblici sule nostre televisioni e guardiamo cosa accade su quei social cui quasi tutti noi dedichiamo una parte non piccola del nostro tempo: avvertiamo un clima sovraeccitato; sentiamo parlare di paura e notiamo, spesso increduli, che questo sentimento di paura si trasforma facilmente in rancore, rabbia, perfino odio. Altro che amore per la polis: questi rumori pubblici ci segnalano un umore cupo e incattivito.
Hanno ragione gli organizzatori: dobbiamo ragionare seriamente su questo diffuso sentimento di paura.
Da dove viene? I pubblici agitatori parlano sempre dei pericoli connessi con la criminalità. Certo, il rumore mediatico attorno ad ogni singolo fatto di criminalità è assordante. Eppure i dati ci dicono che viviamo nell'epoca meno violenta della storia. Mai così pochi crimini contro la persona!
Forse, allora, la traccia da seguire è un'altra: forse, possiamo ipotizzare, la paura è provocata dall'impatto con l'immigrazione. Qui probabilmente c'è qualcosa di più serio: da che mondo è mondo l'incontro con il diverso e lo straniero crea inquietudine. Lasciamo parlare ancora una volta gli antichi: avevano chiamato hostis lo straniero: significava ospite ed era una figura sacra. Ma a un certo punto questa stessa parola ha mutato significato: hostis ha cominciato a significare anche nemico.
Il rapporto con l'immigrazione, ci dice anche la storia delle lingue antiche, non è cosa da prendere sotto gamba. Qualcosa del genere ci ricorda anche un capolavoro della letteratura novecentesca: molti di voi sicuramente hanno letto "Furore" di John Steinbeck. È la storia dell'emigrazione tra alcuni paesi degli Stati Uniti. Emigrazione interna, quindi, di contadini che dovevano fuggire dall'Oklahoma causa una spaventosa calamità naturale. Parlavano la stessa lingua dei californiani, avevano la stessa religione. Accadde che i primi gruppi di disperati suscitarono pietà, poi cominciò a diffondersi preoccupazione e paura che alla fine si trasformò in odio furioso fino al linciaggio.
La migrazione di popoli, un fenomeno epocale dei nostri tempi, è un grande problema, che sarebbe assurdo banalizzare e rimuovere. Eppure anche l'immigrazione non motiva a sufficienza le onde di paura che attraversano il mondo di oggi. Come potrebbe spiegarsi, allora, la paura rabbiosa che attraversa paesi come l'Ungheria e la Polonia in cui l'immigrazione praticamente non esiste? Oppure, ancora, perché la paura agita paesi come l'India e il Pakistan, terre di emigrazione e non di immigrazione?
Evidentemente c'è dell'altro. E noi dobbiamo scavare e capire cosa è quest'altro che alimenta le ondate di paura nel mondo contemporaneo.
3 - Abbiamo accennato all'Ungheria. In quel paese il rancore pubblico ha cominciato ad accumularsi una ventina di anni fa con la rievocazione del Trianon. Cos'è, mi potete chiedere a buon diritto? Si tratta del trattato siglato alla fine della Prima Guerra Mondiale. Ha cominciato ad essere rievocato a distanza di ottant'anni come simbolo del trattamento ingiusto che gli "altri" hanno inflitto all'Ungheria: le hanno sottratto la sua grandezza. Da allora questo nazionalismo cupo, suscitato improvvisamente, non è più arretrato.
Pensiamo alla Polonia. In Polonia gli islamici sono lo 0,5 % - ripeto: 0,5 % -: praticamente non esistono. Eppure in Polonia si è sviluppato un impetuoso movimento di massa per rievocare la battaglia di Lepanto: nel nome di Lepanto migliaia di polacchi hanno marciato verso i confini nazionali con i rosari in mano: le manifestazioni politiche con i rosari in mano sono un'invenzione dei nazional - populisti polacchi.
Una efficace agitazione ha trasformato lo 0,5 % di immigrati islamici in una minaccia per il popolo polacco. Non è difficile capire allora quanto ha potuto essere efficace e penetrante la campagna contro i barconi sulle spiagge italiane. Pensate: in un colpo solo poveri, immigrati, neri, islamici. Per di più gente che viene dal mare, come i turchi e i saraceni dei secoli passati. Impossibile pensare a un bersaglio migliore per scatenare demagoghi e imprenditori della paura.
Ma, torniamo al punto, perché queste campagne ossessive contro i diversi, contro gli altri lasciano un segno così profondo? Perché paesi che hanno assaporato un così lungo periodo di pace - e ne hanno tratto enormi vantaggi - riscoprono quasi con voluttà l'idea del nemico? Perché un po' in tutto il mondo risuonano appelli nazionalisti (il nazionalismo oggi si chiama sovranismo, ma è una differenza di lana caprina)?
Questa è la grande questione dei nostri tempi. Su questo nodo dobbiamo fare chiarezza se vogliamo smontare la paura dilagante e riaffermare l'amore per la polis.
Al fondo di questa paura diffusa - ecco la risposta che suggerisco - al fondo dell'insicurezza che di questi tempi agita l'opinione pubblica in tanta parte del mondo, vi è la "grande trasformazione" che sta segnando sempre più in profondità la nostra epoca.
"Grande trasformazione": è un concetto che vi pregherei di prendere molto sul serio. Esso è più ampio e comprensivo di quello di crisi. La crisi c'è, non c'è dubbio. C'è stata la grande crisi finanziaria del 2008, non ancora assorbita dopo oltre un decennio, con le dolorose ferite che ha trascinato con sé, con l'ulteriore aumento delle disuguaglianze. Aggiungiamo pure che vi è anche la nostra crisi: intendo la crisi del nostro Occidente, la percezione che il ruolo storico del nostro mondo, dell'Occidente, è messo in discussione: nuovi popoli, nuove culture stanno premendo. Non capiremmo se no perché la paura attraversa così rumorosamente anche le opinioni pubbliche dei paesi più ricchi e sviluppati. Ma quando parlo di grande trasformazione segnalo un fenomeno più generale e più profondo, provocato dagli effetti intrecciati della globalizzazione e degli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica.
La globalizzazione, questa globalizzazione neoliberale tanto rapida e travolgente, sta incidendo profondamente sulla vita delle persone. Sommata agli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica sta letteralmente riplasmando i modi di lavorare, di vivere e di comunicare delle persone. Milioni di persone nel mondo intero vivono sulla propria pelle fenomeni come la disintermediazione, come la solitudine involontaria.
Tutto cambia e, come se non bastasse, un cambiamento ulteriore, più accelerato, viene invocato giorno per giorno dagli opinion leader. Per reggere la concorrenza globale, ci viene detto ossessivamente, bisogna innovare sempre di più. L'innovazione è un autentico mantra della nostra epoca, ma curiosamente (attenzione: nodo decisivo) mentre tutti parlano di innovazione nessuno ha il coraggio di evocare l'idea di progresso.
Innovazione senza progresso: come se ciò che noi facciamo, il risultato dei nostri sforzi debba servire a generare qualcosa che non siamo che certi cambi in meglio la nostra vita.
Ciò che noi facciamo, il frutto del nostro lavoro, avrebbe detto un ragazzo geniale verso la metà del diciannovesimo secolo, si erge contro di noi, fino a mettere in discussione il rapporto con gli altri esseri umani e a spezzare l'equilibrio con la natura. Pensiamo alle minacce incombenti del riscaldamento globale, ai sempre più frequenti fenomeni metereologici estremi: sono problemi da noi stessi generati, dalla nostra attività umana, che si stanno trasformando in una vera e propria minaccia per la stessa specie umana. È come se le conseguenze delle nostre attività cominciassero a rivoltarsi contro di noi, come se avvertissimo che il futuro che stiamo preparando possa rivoltarsi addosso a noi. "Il futuro addosso", ho sintetizzato nel titolo di un mio lavoro recente
Ecco le radici profonde della grande paura e dell'insicurezza che attraversano il mondo intero.
4 - Facciamo ora un altro passo in avanti nel nostro ragionamento. L'insicurezza e la paura, cavalcati spregiudicatamente dagli imprenditori della paura, stanno ridisegnando le modalità della vita pubblica. All'orizzonte, al momento, non ci sono svolte verso dittature militari o simili. Ma c'è un fenomeno che dobbiamo cogliere: una trasformazione profonda della democrazia, verso qualcosa di nuovo, verso una democrazia autoritaria, verso una "democratura", verso - ha sintetizzato Wladimir Putin in un'interessantissima intervista al Financial Times - verso una democrazia illiberale.
Lasciamo parlare Putin: ai cittadini non interessano la partecipazione, le garanzie liberali. I cittadini vogliono sicurezza: nessuno può garantirla loro più e meglio di un uomo forte al comando.
L'intervista di Putin è, ad oggi, il testo più lucido di un leader nazional populista: sintetizza chiaramente i processi che stanno prevalendo in tanti paesi. La trasformazione della democrazia in plebiscito per l'uomo forte, che rassicura contro i nemici interni ed esterni, che propone un modello di vita conservatore, sprezzante delle diversità, insofferente verso gli immigrati, cultore di valori nazionali, possibilmente ammantato con un tocco di religione. Putin stesso non perde occasione per farsi fotografare alle cerimonie religiose con un cero in mano. Lo stesso atteggiamento dei leader nazional - populisti del subcontinente indiano: un nazional populismo induista fronteggia a muso duro un nazional populismo islamico. E ho richiamato questo confronto India - Pakistan perché trattasi di due paesi armati fino ai denti che stanno imboccando giorno per giorno una strada sempre più pericolosa.
Insomma, vi sono tanti brutti segnali di cambiamento profondo della democrazia. Un punto merita di essere sottolineato perché riguarda direttamente paesi di democrazia consolidata come il nostro: le nuove forme della comunicazione - diretta, immediata, senza filtri - stanno dissolvendo i corpi intermedi. Passo dopo passo si sta scivolando verso una forma inedita di democrazia: la democrazia disintermediata. Dove la discussione e il confronto, il sale della democrazia, lasciano il posto a messaggi sempre più semplici, più stringati, più rumorosi. Invece di ragionare si lancia un tweet. Il Presidente degli States ne lancia una ventina al giorno con cui parla direttamente, senza mediazione alcuna, più volte al giorno, ai quaranta milioni dei suoi followers. Non si discute: si proclama, si agita. La discussione democratica cede il passo all'agitazione permanente. I social, la forma contemporanea della comunicazione, da questo punto di vista sono micidiali: sembrano spingere inesorabilmente verso la comunicazione non mediata, nella quale la riflessività viene travolta dalle passioni immediate, dove l'istinto immediato prevale sulla ragione.
Le conseguenze sono impressionanti. Pensate a come sono cambiate le leadership dei paesi anglosassoni: fino a poco fa esibivano sempre, conservatori o progressisti che fossero, fermezza mista a pacatezza, autorevolezza intessuta di prudenza. Self control: ricordate? Oggi i leader dei due più importanti paesi anglosassoni esibiscono stile, perfino aspetto fisico, da arruffapopoli. Un cambiamento radicale. Per noi in Italia ormai è cosa quotidiana: discorsi ragionati hanno lasciato il posto a comparsate sule spiagge, in mezzo a cubiste e tronisti in costume da bagno.
La democrazia è cambiata davvero, anche qui da noi. La democrazia disintermediata ha spianato la strada al leaderismo, alla semplificazione, all'agitazione, alla ricerca affannosa, a getto continuo, dei nemici, dei capri espiatori. Leader arruffapopoli e, avrebbe detto Freud, cittadini che sembrano ansiosi di consegnarsi nelle mani del leader. Consegnarsi al leader: è un'immagine proposta nel primo dopoguerra da Freud, attento osservatore dei fatti sociali: qualcosa che sta accadendo proprio attorno a noi.
5 - Ma, allora, ha ancora un senso che noi qui ci troviamo assieme per ragionare di "amore per la polis"? Il quadro che ho tracciato, purtroppo, è realistico: sono convinto che non serva edulcorare la situazione. Essa ha preso una china brutta, inquietante e pericolosa. Motivo in più per ragionare se e come sia possibile aprire strade diverse. I tempi difficili richiedono coraggio, idee nuove, visioni nuove. In tempi difficili bisogna ritrovare la strada per rimettere in circolo idee forti, anche - perché no? - un'utopia ragionevole.
Utopia ragionevole: ovvero idee nuove ma che non siano campate per aria, che abbiano agganci con processi reali, che possano innescare fatti ed esperienze reali. Per questo, nello sforzo di mettere a fuoco uno spiraglio positivo, vorrei partire da due fatti accaduti nel marzo scorso. Io li ho visti e vissuti a Milano, ma non sono fatti milanesi: essi ci parlano di un pezzo di società che ha difficoltà a fare sentire la propria voce in questo rumore pubblico, ma che c'è, vive e opera: sta a noi trovare la forza di rimetterla al centro della narrazione pubblica.
2 marzo: una manifestazione inconsueta. "People" l'hanno chiamata gli organizzatori: ebbene le strade di Milano si sono riempite di una folla strabocchevole. Non era una manifestazione di partiti o di sindacati: era promossa da associazioni. Tante e diverse: associazioni impegnate nel sociale, associazioni laiche e religiose, ambientali o di cura. I loro cartelli parlavano di solidarietà e di mutualismo. Di attenzione per gli esseri umani. Mettere al centro le persone, "people" per l'appunto: ritrovare idee e comportamenti degni di esseri umani.
14 marzo: Fridays for future. Era il giorno della mobilitazione globale innescata dalla giovane militante ambientalista svedese, Greta Thunberg. Io l'ho vista e vissuta a Milano: una fiumana di giovani, mai vista, è letteralmente dilagata nelle piazze. Per dire che il nostro pianeta è a rischio e rischiamo di perderlo. Non c'è più tempo da perdere. Si è discusso molto di questa manifestazione: c'è chi l'ha definita superficiale, innescata dai media ed altro ancora. Io invece ho percepito una molla, una scintilla, che è scattata nella testa e nella coscienza di tantissimi giovani. Una generazione, forse, si sta ritrovando e muovendo.
Proviamo a legger assieme queste due manifestazioni: esse lasciano intravedere il segno, il messaggio di un altro possibile sguardo sul mondo. Uno sguardo umano. Di donne, uomini, giovani (tantissimi giovani) che cercano una loro strada per reagire al clima di paura e di insicurezza: reagire senza isterismi, senza chiusure rabbiose, senza alzare muri e senza mostrare i denti verso gli altri.
Esse ci dicono che vi sono tante persone che cercano di reagire all'isolamento e alla solitudine involontaria. I filosofi tante volte nel passato ci avevano detto che la solitudine involontaria era il castigo peggiore per gli esseri umani. Pietro Verri diceva che un uomo solo è come un viandante nel deserto: sperso e disperato. L'uomo senza relazioni con l'altro non può vivere, non può condurre una vita umanamente dignitosa.
Queste manifestazioni ci hanno detto che, forse, si può cominciare a reagire all'idea, dilagata negli ultimi decenni, che la molla dell'esistenza non può che essere l'egoismo dell'Homo oeconomicus, che tutta l'organizzazione sociale deve ruotare attorno alla massimizzazione dell'interesse egoistico dell'operatore economico. È il nucleo essenziale del pensiero neoliberale: ha dominato per decenni, ma forse qualcosa sta scricchiolando.
C'è stato, c'è, in queste manifestazioni - o almeno io ho percepito - un messaggio forte per ricostruire l'amore per la polis.
Ma allora, aggiungo, è anche il tempo di ragionare apertamente di un'idea di un'opzione, di una prospettiva ideale e culturale per sorreggere e dare continuità a queste sollecitazioni: l'idea, la prospettiva di un "nuovo umanesimo". Umanesimo, ovvero centralità della persona, impossibilità di vivere senza relazioni con gli altri. L'essere umano è un essere sociale, non un individuo che vive su un'isola deserta. E assieme agli altri può reagire alla paura e affrontare l'insicurezza.
"Nuovo umanesimo": ma perché nuovo? In quell'aggettivo, in quel "nuovo", c'è la percezione di un salto che dobbiamo riuscire ad elaborare e a delineare: umanesimo oggi significa anche responsabilità verso le generazioni future. Non abbiamo diritto di compromettere il loro futuro. Umanesimo oggi significa anche naturalismo: valorizzazione dell'uomo e difesa dell'ambiente non sono più separabili. È il messaggio di "Fridays for future", del mare di ragazzi che si è rovesciato nelle piazze di tutto il mondo. È lo stesso massaggio - notiamo bene - della enciclica papale "Laudato si", il documento più autorevole che negli ultimi anni abbia affrontato queste questioni. Un documento che parla a credenti e non credenti, che spinge a ripensare la scala delle priorità, a rimettere al centro la responsabilità per il futuro.
7 - Tutto bene, qualcuno potrebbe ancora obiettare, ma attorno a noi continuano a prevalere rumori e umori cupi. Che speranza possiamo avere che il dibattito pubblico cambi, che altre voci possa prevalere rispetto a quelle degli agitatori della paura?
La risposta mi è venuta improvvisa, ma chiarissima, mentre quest'estate rileggevo un romanzo. Una lettura non programmata. Mi trovavo a casa di mia mamma (tutte le estati cerco di passare qualche tempo con mia mamma, ormai molto anziana): mi è venuto tra le mani un libro che avevo letto da ragazzo.
Un romanzo breve, ma che riletto da adulti appare come un autentico gioiello della letteratura italiana. Penso che tanti di voi lo conosciate: "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern. Parla della ritirata dalla Russia di un battaglione di alpini, il battaglione Vestone (Vestone - lo preciso per trasmettervi l'emozione della mia lettura - è un paese che si trova a sette kilometri dalla casa di mia mamma). La ritirata è terribile: i russi hanno accerchiato il corpo d'armata italiana. Bisogna aprirsi disperatamente una via di fuga. Con poche armi, tanto freddo e tanta fame, mentre i compagni del sergente maggiore (allora Rigoni Stern era sergente maggiore) muoiono a uno a uno.
Proprio durante l'ultima battaglia, a Nikolajevska, il sergente maggiore deve, assolutamente deve, mangiare qualcosa. Allora bussa a una isba. Apre senza attendere risposta. Ma resta inchiodato sulla porta: l'isba è piena di soldati russi che, con il fucile mitragliatore poggiato al tavolo, stanno mangiando.
È un momento di gelo e di terrore. I soldati russi lo guardano in silenzio fino a quando una donna russa invita il nostro sergente maggiore a sedersi: gli offre un piatto di zuppa di latte e miglio. Il sergente maggiore si siede e incomincia a mangiare: nell'isba non si sente altro che il rumore del suo cucchiaio di legno che urta contro la tazza. Finito di mangiare il sergente si alza, ringrazia ed esce.
Tutto ciò, annota lo scrittore, è accaduto realmente. Quei soldati, impegnati in una disperata lotta per la vita, incontrandosi si sono riscoperti, almeno per un attimo, esseri umani.
Un episodio incredibile. Quasi fiabesco, ma accaduto. Che ci dice che anche nelle situazioni più estreme, gli esseri umani possono incontrarsi.
Il tutto per dire che si può ragionevolmente sperare che la scintilla scatti anche in tempi difficili, che con il coraggio, con la tenacia (come quelli segnalati dalle due manifestazioni), con idee e visioni nuove si può trovare la strada per rimettere al centro della vita pubblica quell'"amore per la polis" che giustamente avete proposto alla riflessione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 14 SETTEMBRE 2019 |