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Consentitemi di cominciare la nostra riflessione con alcune esortazioni del grande fisico teorico Stephen Hawking a fronte delle disuguaglianze crescenti e intollerabili che affollano il pianeta: "l'aspetto veramente preoccupante di tutto questo è che mai come adesso, nella storia, è stato maggiore il bisogno che la nostra specie lavori insieme. Dobbiamo affrontare sfide ambientali spaventose: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di altre specie, le epidemie, l'acidificazione degli oceani. Insieme, tutti questi problemi ci ricordano che ci troviamo nel momento più pericoloso della storia dell'umanità. Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la tecnologia per sfuggire da questo pianeta. In questo momento condividiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo. Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed esterne alle nazioni, non costruirle. Se vogliamo avere una possibilità di riuscirci, è necessario che i leader mondiali riconoscano che hanno fallito e che stanno tradendo le aspettative della maggior parte delle persone. Con le risorse concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo oggi".
Ai tempi di incerte transizioni e all'epoca del grande disordine mondiale, Zigmunt Bauman ci ha ricordato: un solo pianeta, una sola umanità. La visione lungimirante di una sinistra europea da ventunesimo secolo deve prendere sul serio e mettere a fuoco un'idea di umanità, nelle circostanze in cui questa idea è insultata ed erosa dalle politiche delle destre sovraniste. È erosa dalle scelte e dagli atti, dai poteri e dalle autorità illiberali e autocratiche, che erigono frontiere per escludere e dividere persone che hanno la stessa proprietà di campo della comune umanità. È insultata dalle scorribande planetarie di un capitalismo finanziario e predatorio, che usa come arnesi le vite di scarto. È minacciata dall'ideologia prometeica di sviluppi tecnologici che inducono a immaginare un'era ibrida e post-umana. La lunga fase neoliberista della globalizzazione con i suoi lati oscuri e luminosi, con i suoi vincenti e perdenti redistribuiti negli angoli dell'unico pianeta, che sino a prova contraria condividiamo, sembra oggi conoscere trasformazioni e rischi di chiusura nell'arena delle mutevoli relazioni internazionali.
In questo tempo incerto di passaggi, una visione lungimirante di sinistra deve partire da qui. Esamineremo ora i) una visione complessa della qualità di vite umane; ii) il repertorio del passato come repertorio di possibilità; iii) lo spazio delle ideologie; iv) i dilemmi dell'innovazione tecnologica; v) l'idea di sviluppo sostenibile e il diritto umano fondamentale a un futuro sostenibile; vi) la nozione multidimensionale di progresso.
i) Una visione complessa della "comune umanità"
Amartya Sen nelle ultime pagine del suo grande libro, L'idea di giustizia, ci ha suggerito di non dimenticare mai, nella ricerca e nel disegno di un futuro migliore per il pianeta, che la domanda centrale è e resta la seguente: che cosa si prova a essere esseri umani? È su questo sfondo che ho introdotto la distinzione fra agenti e pazienti morali nello spazio della comune umanità. Mentre il riferimento alla comune umanità evoca un'idea elementare di uguaglianza umana, la distinzione fra agenti e pazienti connette la nozione di agente morale al livello delle capacità, nel senso della libertà per le persone di avere scopi, di essere originatrici di fini, di progetti di vita nel tempo. Come sappiamo, in questo caso la qualità della vita per agenti morali dipende dal grado maggiore o minore per le persone di poter perseguire e rivedere il proprio progetto di sé nel tempo. Istituzioni e pratiche sociali che non rispondano nel modo appropriato alla libertà di scelta di sé degli agenti morali e, se è il caso, al loro merito, generano effetti di degradazione o di umiliazione delle persone. Il deficit delle capacità è una lesione della dignità delle persone, nel senso della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Abbiamo detto che la nozione di paziente morale è invece connessa al livello dei funzionamenti di base. Il deficit dei funzionamenti converte gli agenti in pazienti e, in questo caso, la risposta all'urgenza del bisogno iniqua, o anche solo inefficiente o inefficace, di istituzioni e pratiche sociali genera effetti di sofferenza socialmente evitabile. Come ci ha insegnato Spinoza, l'esperienza del male per i pazienti morali funziona come preclusore ex ante di qualsivoglia perseguimento di una varietà di beni o di scopi.
Che cosa si prova o che effetto fa a qualcuno vivere la vita che vive? Sembra difficile che un giudizio valutativo sulla qualità di vita di qualcuno non sia rispondente in alcun modo al punto di vista personale e soggettivo di chi vive quella vita, ne prova l'esperienza, la guarda in una certa luce e le assegna un variabile valore e un senso. La visione politica di una sinistra europea da ventunesimo secolo deve prendere sul serio il dovere e la responsabilità di rispondere a questa dimensione della qualità di vita delle persone perché essa è modellata da un'idea di sviluppo e fioritura umana, il "sogno di una cosa" di Marx, per chiunque, ovunque.
ii) Il passato come repertorio di possibilità
Mettiamo a fuoco, ora, quello straordinario repertorio di possibilità che emerge dall'esercizio del senso del passato. Nel recente Illuminismo europeo, viene fatto di pensare ad Adam Smith, alla sua teoria dei sentimenti morali e alla giustizia come imparzialità di un osservatore simpatetico che guarda al pianeta con gli occhi del resto dell'umanità. A Voltaire, al suo appassionante trattato sulla tolleranza e alla preghiera laica finale che, come abbiamo detto, può essere replicata nel solo pianeta condiviso, "in mille lingue, dal Siam alla California". A Condorcet e al suo Esquisse sulla perfettibilità e il progresso dell'umanità. A Kant e al pensiero largo o al pensiero esteso, con cui guardiamo e valutiamo il mondo adottando il punto di vista di chiunque altro lo condivida. Nei tempi in cui "la violazione di un diritto in un punto della terra è avvertita come tale in tutti gli altri punti". Ai tempi delle grandi migrazioni strutturali, come avrebbe detto più di due secoli dopo il grande fisico che aveva la cattedra di Newton, Kant ci ha suggerito di riflettere sul fatto che "dato che la terra è tonda, noi siamo destinati prima o poi a reincontrarci". E viene fatto di ripensare al "sogno di una cosa" di Marx. A un'idea elementare di emancipazione umana. In questo repertorio di possibilità affondano, dopo tutto, le radici di quel grappolo di valori che dovrebbero orientare, in tempi mutati, la visione di una sinistra europea.
Viene naturale, a questo punto, chiedersi se la mia ipotesi a proposito di una visione politica non coincida con un invito alla deferenza verso una ennesima versione di un'ideologia. Molti dicono che viviamo in un'epoca postideologica e che abbiamo ormai scritto un bel po' di necrologi per le ideologie, tramontate per sempre alle nostre spalle e mandate inesorabilmente al macero. Vediamo allora di chiarire le cose a proposito della morte delle ideologie.
iii) A proposito della morte delle ideologie
Quando si addensano i necrologi per un'ideologia che non c'è più, una buona massima è quella che ci suggerisce di scrutare i segni dei tempi e stanare, in stato nascente, qualche altra ideologia. Lo spazio delle ideologie è sempre affollato, semplicemente perché esse, quali che siano, generano per le persone criteri di orientamento e di valutazione, delineando orizzonti di senso e appartenenza. Per questo, l'idea che la fine di un'ideologia implichi la fine di qualsiasi ideologia è tanto corrente e popolare quanto fallace.
Di fine o di morte delle ideologie si è a lungo discusso nel giro di boa della fine del secolo scorso. Quando il sisma geopolitico generato dall'implosione dell'impero sovietico trascinò con sé il collasso dell'ideologia del socialismo reale, che aveva per parecchi decenni occupato una regione dello spazio ideologico disponibile. Si proclamò immediatamente, in quel contesto di mutamento e incertezza, la irrevocabile fine delle ideologie. In realtà, si proclamarono un bel po' di "fini": per esempio, come cercò di mostrare Francis Fukuyama, niente meno che la fine della storia. Sono al contrario convinto che nell'ultimo decennio del Novecento abbiamo assistito a un'insorgenza e a una rigogliosa fioritura di ideologie destinate a modellare e rimodellare la geografia delle credenze, delle lealtà e delle devozioni dei primi due decenni del ventunesimo secolo, quello in cui ci accade di vivere.
Una cartografia sommaria dello spazio ideologico che si è ridisegnato sullo sfondo delle dichiarazioni della morte delle ideologie negli anni Novanta può mettere a fuoco un duplice campo di credenze e valutazioni che, incentrate sull'ideale universalistico di un pianeta senza confini, chiamano in causa per un verso la prospettiva cosmopolitica dei diritti umani e dei cittadini del mondo e, per altro verso, consacrano le virtù del mercato come unico strumento disponibile per la soluzione dei problemi sociali ovunque e per chiunque in giro per il mondo. I due campi ideologici di credenze possono intersecarsi o confliggere fra loro, offrendo ragioni, giustificazioni e motivazioni per scelte e condotte a volte nettamente contrastanti. Ma di entrambi si può dire che identificano e definiscono fini intrinsecamente al di là dei confini delle sovranità nazionali. Che si tratti di movimenti che mirano a un altro mondo possibile e che si coagulano contro il lato oscuro della globalizzazione neoliberista fin de siècle, o di movimenti che insorgono per la tutela e la custodia dell'ecosistema inquinato e depredato, o di movimenti che si impegnano nella difesa di lingue e culture minacciate di sparizione, o di cerchie epistemiche e di opinione che elaborano discorsi sul nuovo ordine mondiale e sulla governance globale. L'aria di famiglia fra queste visioni fra loro distinte consiste nel riferimento a un "noi" che è in ogni caso sovranazionale, aperto e inclusivo nei confronti di chiunque. Ma lo stesso vale, anche se in modo radicalmente diverso e alternativo, per l'ideologia mercatista: il suo dogma centrale, che coincide con il principio di autoregolazione dei mercati, non vale per territori e contesti definiti da frontiere quanto piuttosto per il pianeta e per i suoi coinquilini. Non è forse inutile ricordare che il dogma centrale del mercatismo neoliberista ha conosciuto nel 2008 una catastrofica smentita, esemplificata congiuntamente da una dissipazione di diritti e da una perdita impressionante di benessere per uomini e donne, in giro per il mondo. (Si osservi che il mercatismo ha ben poco a che vedere con qualcosa come i "mercati", quanto con le strategie e i poteri di oligopoli o monopoli ubiqui e senza frontiere. Dobbiamo accuratamente distinguere la nozione di mercato da quella di una qualche forma di capitalismo. In particolare da quelle forme di capitalismo che distorcono e violano le proprietà e le norme soggiacenti al mercato.)
Così, sembra di poter dire, il revival del diritto cosmopolitico di Per la pace perpetua di Immanuel Kant va in tandem con il revival della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. E i due campi ideologici che modellano credenze, orientamenti e criteri di valutazione sono naturalmente destinati a conoscere varianti e versioni fra loro distinte, così come sono responsabili delle risposte reattive che, nello spazio ridisegnato delle credenze, non tardano a emergere e a consolidarsi. In una manciata affannosa di anni, in cui la fine dichiarata della storia si converte in una sarabanda di mille storie inedite, con il loro corteo di mutamenti e metamorfosi, in cui tipicamente irrompe per osservatori e partecipanti l'inaspettato.
Per illustrare a grandi linee la famiglia delle risposte reattive alle offerte ideologiche di un qualche universalismo, mi avvalgo del termine-ombrello del comunitarismo che ha caratterizzato una regione dello spazio ideologico, in cui prevale una sorta di nuovo romanticismo. Una qualche versione del comunitarismo è alla base delle ideologie del localismo, delle piccole patrie, delle forme di vita contestuali e delle radici, della decrescita felice, che alimentano le politiche dell'identità. Si consideri che la famiglia dei comunitarismi è tenuta assieme dall'ideale di un "noi" chiuso e stabilmente definito da frontiere in quanto distinto da "altri". È così all'opera la tensione essenziale nello spazio ideologico fra apertura e chiusura. E l'offerta di chiusura si basa su una domanda di eticità omogenea che emerge da frazioni di popolazione qua e là per il mondo. L'offerta di chiusura e la costruzione di frontiere assicura le persone contro il rischio della porosità dei confini fra "noi" e gli "altri", contro il rischio della contaminazione e della perdita di sé.
Si pensi ai molti volti della diversità: alla differenza di genere, di colore della pelle, di etnia, di cultura, di religione, di etica. Le ideologie della chiusura, ai tempi della crisi sistemica e strutturale in cui siamo intrappolati, ai tempi delle grandi migrazioni, offrono ragioni, motivazioni e giustificazioni per le politiche dei muri. E molto spesso la famiglia dei comunitarismi definisce e assegna fini collettivi a un livello subnazionale o, al massimo, nazionale. Se il "noi" illuministico è aperto e i suoi confini sono mobili e mirano a sconfinare - nel bene e nel male - nell'apertura, il "noi" romantico è presidiato e immunizzato rispetto allo "straniero" perturbante, grazie alla chiusura entro frontiere che non coincidono con i confini, pur contingenti e storici, della "grande società". Sembra che, al livello delle comunità statuali, l'erogazione di ideologie sia indebolita e tenue, fatto salvo il caso delle ideologie della cosiddetta "anti-politica" populista o del revival sovranista che drenano le loro risorse motivazionali e le loro giustificazioni dalla dissipazione del vincolo sociale, dall'aumento della sofferenza socialmente evitabile e, quindi, dalla revoca di fiducia nei confronti delle élite e dei detentori di autorità politica, economica, istituzionale ed epistemica.
Queste sommarie osservazioni su alcuni tratti della geografia mutata dei campi ideologici si basano sul riferimento a un contesto e a uno sfondo quasi esclusivamente "occidentale". Ma sarebbe intellettualmente fatuo non prendere sul serio, in un mondo sempre più interdipendente, l'insorgenza di un'ideologia di portata universalistica quale quella generata dal radicalismo islamico. Che si tratti di un effetto della radicalizzazione dell'Islam o di un effetto dell'islamizzazione del radicalismo, in ogni caso l'ideologia della Jihad che si avvale delle risorse motivazionali e delle giustificazioni proprie di un'appartenenza religiosa mira con il terrorismo globale e molecolare alla costruzione di un "noi" che esclude ex ante gli "altri". E si basa sull'assioma secondo cui non deve essere possibile convivere nella diversità. Di fronte alla sfida, sono convinto che noi, eredi del recente progetto dell'Illuminismo, siamo inevitabilmente indotti a preservarne il retaggio. Mantenere lealtà a un grappolo di valori, di cose elementari che contano e che fanno la differenza per le nostre vite e per le vite di chiunque, non vuol dire consegnare a una damnatio memoriae i numerosi mali di cui siamo responsabili nella storia alle nostre spalle, storia recente e remota. Vuol dire solo far vivere e fiorire il meglio che siamo riusciti a combinare e che ritroviamo in quel repertorio di possibilità che è il passato.
iv) Innovazioni tecnologiche e qualità della vita
Ai tempi del romanticismo politico, la crescita della conoscenza scientifica e le frotte delle innovazioni tecnologiche sono fonte di sospetto e discredito. Una visione progressista ha il dovere di ridurre, per quanto è possibile, il disagio di ampie frazioni di popolazione nei confronti della scienza e della tecnica e, al tempo stesso, di promuovere la consapevolezza che quella sceintifico-tecnologica è solo una fra le dimensioni plurali del progresso. Ora, che gli esiti della crescita della conoscenza scientifica e dell'innovazione tecnologica siano fra i più rilevanti fattori di miglioramento della qualità di vita di persone è un fatto per lo più incontrovertibile nella cultura contemporanea. Il riconoscimento di questo fatto assume spesso il carattere di una convinzione e di una credenza ordinaria. Tuttavia, non appena si mettano a fuoco la natura e le implicazioni della convinzione e della credenza ordinaria, si incappa immediatamente in una ampia gamma di dilemmi. Ne esamineremo solo due.
Alcuni dilemmi concernono la ricerca scientifica, altri sono generati dall'innovazione tecnologica, altri -infine- chiamano in causa la stessa nozione di qualità di vita. La distinzione fra i tre tipi di dilemmi è solo un artificio espositivo, dato che molto spesso essa è debole e porosa. E hanno luogo molte intersezioni fra i tre tipi individuati, per convenzione, come distinti.
Il primo dilemma riguarda la tensione e la variabile prossimità o distanza fra l'immagine scientifica e l'immagine manifesta della realtà e del mondo (e di noi nel mondo), per dirla con Wilfrid Sellars. I costi cognitivi di accesso agli sviluppi della conoscenza scientifica possono essere molto alti per ampie frazioni di popolazione. In molti casi, la scarsa o nulla padronanza concettuale dei linguaggi scientifici viene sostituita dalla fiducia che si basa sulla convinzione e sulla credenza ordinaria del fatto incontrovertibile, cui ci siamo prima riferiti. Qui si formula il primo problema: come ridurre la distanza fra immagine scientifica e immagine manifesta della realtà e del mondo (e di noi nel mondo)? (Si osservi, a contrario, che paradossalmente si possono dare casi di revoca e ritiro della fiducia e di veri e propri processi di delegittimazione dei linguaggi "esperti".) Il primo problema è, in definitiva, un problema di human divide epistemico, uno dei molti volti della disuguaglianza. La riduzione di questa disuguaglianza è dettata per la sinistra dai principi di una giustizia come equità epistemica di cittadinanza. E se si condividono i principi, si aprono la discussione, la ricerca e la valutazione dei metodi alternativi per ridurre la disuguaglianza epistemica.
Un secondo dilemma, che concerne la cerchia dell'impresa scientifica, ha carattere sociale. Come ho più volte sottolineato, nelle nostre società assistiamo a una marcata revoca di fiducia nei confronti delle istituzioni e delle élites, siano esse politiche, economiche, epistemiche o culturali. La credenza ordinaria e la convinzione nel fatto incontrovertibile del nesso fra scienza e qualità di vita non sono immunizzate rispetto al rischio del ritiro di fiducia, cui ho prima accennato. Questo problema può essere formulato come quello della possibilità di una nuova alleanza o di nuovo contratto sociale fra la cerchia della ricerca e quella della cittadinanza. O un rinnovato legame di amicizia civica fra scienza e società. Ciò ha a che vedere con il legame sociale, da un lato, e con la responsabilità del rendere conto e del mantenere le promesse a proposito del nesso scienza-qualità di vita da parte della comunità scientifica.
v) L'articolo tre e il paradigma dello sviluppo sostenibile
Ho spesso suggerito che l'articolo tre della nostra Costituzione funziona come stella polare per la visione e l'agenda politica di una sinistra europea da ventunesimo secolo. Ora vorrei mostrare in che senso il compito arduo ed esigente "della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" si connetta, in una prospettiva progressista di sinistra, agli obiettivi di sviluppo sostenibile.
A me ora interessa mostrare, in una prospettiva progressista di sinistra, qual è l'interpretazione favorita delle politiche e delle scelte pubbliche e sociali miranti a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, in larga parte imputabili agli effetti globali di un capitalismo predatorio, ubiquo e selvaggio, che limitano e militano contro il pieno sviluppo della persona umana, erodendo, sfigurando e dissipando i fondamentali della convivenza democratica.
Sono convinto che gli ostacoli siano individuabili ricorrendo a quanto dettano gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 dell'ONU. L'idea di sviluppo sostenibile è incentrata sulla responsabilità nei confronti delle generazioni future che condivideranno l'unico pianeta che, sino a prova contraria, noi condividiamo. È una vera e propria questione di giustizia intergenerazionale che chiama direttamente in causa la dimensione del futuro. Il futuro di Rainer Maria Rilke, questa volta: quello "che entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada". Ciò vuol dire che è qui ed ora che dobbiamo agire, se prendiamo sul serio l'estensione dell'ombra del futuro sul presente. E il punto importante, in proposito, è che i diciassette obiettivi sono fra loro in vario modo connessi ed esemplificano una visione multidimensionale del progresso e dello sviluppo umano come libertà, nel senso di Amartya Sen. Aggiungo che una visione multidimensionale del progresso e dello sviluppo umano coincide con i vincoli cui dovrebbe essere coerente un capitalismo giustificabile e legittimabile. Noam Chomsky ha chiarito con forza che non v'è istituzione o pratica sociale che possano giustificarsi da sole. Dopo un qualche ancien régime, il capitalismo deve essere sottoposto al test di giustificazione etica. Ci chiediamo: quale capitalismo, se ve n'è uno -dato che ve ne sono stati molti- è possibile e giustificabile in quanto coerente con l'utopia sostenibile? E aggiungerei: quale capitalismo in quale democrazia?
Che si tratti del contrasto alla povertà o del diritto a cibo sano e adeguato, della cruciale parità di genere o del contrasto alle disuguaglianze ingiustificabili entro le società e fra le società, della preservazione e della tutela della biodiversità o dell'accesso all'educazione e alla formazione, del diritto all'acqua pulita o dell'accesso alle energie rinnovabili, del contrasto al cambiamento climatico, alla desertificazione o all'acidificazione degli oceani, del diritto a una buona salute nel corso del tempo di vita o della buona occupazione e di una crescita economica inclusiva e di un lavoro dignitoso per chiunque o delle città sostenibili, il punto importante è il grado di interdipendenza e la connessione fra i diversi obiettivi.
Naturalmente, come ha suggerito Enrico Giovannini nel suo bel saggio, L'utopia sostenibile, possiamo individuare diversi gradi di interdipendenza fra gli obiettivi di sviluppo sostenibile, a partire da quelli indivisibili, inestricabilmente legati al raggiungimento di altri obiettivi sino ai casi difficili di trade off fra il perseguimento di differenti obiettivi e ai casi più difficili di incompatibilità fra obiettivi. Tuttavia, quanto vorrei sottolineare è il carattere olistico e, quindi, multidimensionale che contraddistingue il paradigma della sostenibilità. Il suo carattere non riduzionistico, come ho suggerito nella discussione sui temi della crescita dell'impresa scientifica e dell'innovazione tecnologica. La sostenibilità è economica, ma non è solo economica. È ambientale, ma non è solo ambientale. Essa è anche sociale e culturale. Il paradigma dello sviluppo sostenibile prende sul serio l'idea della comune umanità e dell'unico pianeta che, fino a prova contraria, condividiamo. E questa asserzione elementare è alla base di un complesso di politiche, di scelte pubbliche e sociali che caratterizzano una nuova idea di progresso umano che muove dal fine di rimuovere gli ostacoli, a volte crudeli e barbarici, a volte subdoli, ipocriti e suadenti, che negano di fatto alle persone il perseguimento della eudaimonia, dell'autonomia, della felicità e della libera fioritura. Che negano loro la pari dignità, violando la proprietà di campo della comune umanità.
La nuova idea di progresso umano modella la visione lungimirante di una sinistra europea da ventunesimo secolo che trova nel paradigma dello sviluppo sostenibile i variegati mezzi, i metodi e le scelte per mantenere l'antica promessa del "sogno di una cosa", in tempi drasticamente mutati. Una sinistra che mira con i mezzi, i metodi e le scelte dettate dal paradigma dello sviluppo sostenibile a modellare una globalizzazione equa dei diritti, delle regole e della giustizia, mirando a sfuggire al celebre trilemma di Dani Rodrik che coinvolge globalizzazione economica, democrazia politica e Stati-nazione. Non a subire gli effetti di "mercati" iniqui e opachi, negoziando al massimo con i potenti sociali e con un capitalismo predatorio e senza regole, né limiti. Adottando il punto di vista della comune umanità e assegnando priorità a chiunque, senza sua responsabilità, versi nelle differenti condizioni dello svantaggio e della sofferenza socialmente evitabile. Assegnando priorità ai mille volti della vulnerabilità delle vittime. Questo è ciò che suggerisce una visione lungimirante ai tempi delle politiche della chiusura, dei sovranismi di differente taglia e potenza, ai tempi dei dazi e delle guerre commerciali planetarie, ai tempi delle guerre sempre di moda, ai tempi di barbarie, terrore e massacro, ai tempi della vasta e ricorrente gamma delle pratiche del disumano. (Pensate al recente orrore e alla vergogna dei "porti chiusi".) Si consideri che le pratiche del disumano chiamano in causa l'impressionante e persistente violazione dei diritti umani in giro per l'unico pianeta che condividiamo. Per questo è importante connettere una prospettiva sui diritti umani e, in particolare sui diritti umani fondamentali, all'idea di sviluppo sostenibile e di progresso umano multidimensionale. La prospettiva è presentata grazie a una congettura.
Per fare ciò, prendiamo le mosse da Il diritto di avere diritti, l'opera di Stefano Rodotà cui mi sono spesso riferito nelle mie ricerche. Quest'opera coincide per l'autore con il suo opus maius. La considero uno dei testi fondamentali per ragionare insieme sulla questione dei diritti umani oggi, a circa settant'anni dalla proclamazione della Dichiarazione. In primo luogo, perché nell'opus maius di Rodotà confluiscono un gran numero di ricerche e di esperienze teoriche, giuridiche, politiche e civili. In secondo luogo, perché vi sono ospitate molte questioni decisive per la nostra convivenza, per il catalogo dei diritti dei contemporanei.
Ora, sullo sfondo della costituzionalizzazione della persona, al centro della ricerca di Stefano Rodotà, la mia congettura è basata su due presupposti. Il primo ha a che vedere con l'esigenza di una gerarchia dei diritti che, grazie all'adozione di una strategia deflattiva, mira alla definizione di un sottoinsieme di diritti umani fondamentali, che include quei diritti senza i quali nessun altro diritto è possibile. Come ho sostenuto altrove, i diritti fondamentali delle persone hanno il ruolo tanto prezioso quanto tragicamente e sistematicamente violato di funzionare come scudo protettivo contro il male e la varietà dei mali, che possono ledere e negare e calpestare la dignità alle persone. E, nella Dichiarazione universale, portano con sé l'eco del male assoluto del secolo breve, l'eco della Shoah.
I diritti fondamentali sono incentrati sulla memoria del male, non su una qualche idea di bene umano. In questioni di diritti umani noi siamo indotti alla massima intransigenza con il male e, al tempo stesso, alla consapevolezza della essenziale varietà dei beni umani. Spinoza ci ha suggerito che il male è l'esclusore ex ante di qualsivoglia bene per noi. In questa prospettiva, avanzo l'ipotesi che oggi, nel sottoinsieme dei diritti fondamentali che hanno priorità per le persone, siamo indotti a includere il diritto umano allo sviluppo sostenibile. Il diritto a condividere con miliardi di altre e di altri un pianeta, l'unico pianeta di cui, sino a prova contraria, disponiamo, che preservi nel tempo la essenziale varietà delle condizioni che rendono una vita, per una pluralità costituiva di ragioni, degna di essere vissuta. In termini analitici, la tesi si basa sul secondo presupposto della mia congettura: sulla connessione fra la Dichiarazione universale e gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'agenda Onu 2030. Nel senso che la lista dei diciassette obiettivi corrisponde alla lista del contrasto ai mali che, fra loro interconnessi, contraggono o azzerano la qualità di vita delle persone sino al limite estremo del rischio supremo e della perdita della vita stessa. Generando in tal modo quella impressionante e persistente violazione dei diritti, da cui ha preso le mosse la nostra congettura.
In parole povere, il diritto allo sviluppo sostenibile è il diritto fondamentale delle persone ad avere semplicemente un futuro in cui preservare nel tempo - in una varietà di modi - la propria comune umanità. Questa, e non altra, è la posta in gioco. Una posta in gioco che è intrinsecamente proiettata sulle dimensioni e le sfide del futuro d'umanità, ma che si mette a fuoco per noi oggi, nel presente di un pianeta interconnesso e minacciato, depredato e saccheggiato, sfruttato ed esposto al rischio severo di perdita. Con il Rabbi Hillel viene fatto di chiedersi: e se non ora quando? Ora, ha risposto Greta Thunberg con milioni di ragazze e ragazzi in giro per il pianeta.
Sia chiaro, infine, che adottare il punto di vista della comune umanità non equivale affatto, come sostengono i sovranisti, a negare la varietà essenziale delle appartenenze e delle identità collettive modellate dalla costellazione nazionale. Esso equivale piuttosto a immergere la varietà delle storie, delle religioni, delle tradizioni, delle culture, nel campo variegato e plurale della comune umanità. Quel campo in cui siamo diversi e diverse, allo stesso modo, in mille modi diversi.
vi) Il sogno di Condorcet e l'idea di progresso
Ricorriamo ora, ancora una volta, al passato come repertorio di possibilità. Nel 1793 Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Condorcet, di cui la Convenzione ha decretato l'arresto, trova rifugio nella casa di Madame Vernet vicino alla Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi. È in quella casa che il rifugiato si dedica alla sua ultima grande opera. Un'opera luminosa, scritta a lume di candela. Si tratta del celebre Esquisse, dell'Abbozzo di quadro storico dei progressi dello spirito umano. Il progetto, secondo Condorcet, è quello di delineare dieci epoche di una storia ipotetica e l'ipotesi consiste nella riduzione della storia di tutti i popoli del pianeta alla storia della comune umanità. Al termine dell'Esquisse, nella decima epoca Condorcet si interroga sui progressi futuri dello spirito umano. "Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza fra le nazioni; i progressi dell'uguaglianza in seno a uno stesso popolo, e da ultimo il reale perfezionamento dell'uomo."
Il fine dell'arte sociale è quello di ridurre le disuguaglianze fra gli esseri umani, "per fare posto a quell'uguaglianza di fatto /…/ che, diminuendo anche gli effetti della differenza naturale delle facoltà, non lascia più sussistere se non una disuguaglianza utile all'interesse di tutti, perché favorirà i progressi della civiltà, dell'istruzione e dell'industria, senza portar con sé né dipendenza, né umiliazione, né impoverimento". L'idea di progresso è incentrata per Condorcet sulle connessioni fra differenti dimensioni, concerne l'umanità e il pianeta, lega indissolubilmente ragione e immaginazione, scienza e prosperità, cultura ed etica e si basa sulla possibilità della perfectibilité e della civilisation.
Il sogno di Condorcet si potrebbe anche definire come il sogno di un illuminismo possibile per tutti, e non per pochi. Noi eredi dovremmo tener conto del fatto che la storia delle epoche di Condorcet è congetturale e ipotetica; che essa è delineata sotto il segno della possibilità e non della necessità; che essa è intrinsecamente fondata sui nessi e i legami fra le differenti dimensioni. Altre idee di progresso, anche e soprattutto nella nostra tradizione, si sono avvalse della credenza nella sua necessità e inevitabilità e hanno meritato discredito e sospetto. Altre idee di progresso hanno spezzato le connessioni fra le differenti dimensioni e hanno meritato discredito e sospetto. Altre idee di progresso si sono riduzionisticamente schiacciate o sulla singola dimensione scentifica e tecnologica o sulla singola dimensione della crescita illimitata e hanno meritato discredito e sospetto. Ma non sono queste le idee di progresso di cui deve avvalersi la visione progressista di una sinistra europea da ventunesimo secolo. No al progresso lineare a una dimensione! E ciò è coerente con la prospettiva etica e politica che, muovendo dall'assioma dell'articolo tre, adotta misure e provvedimenti nella direzione olistica degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la genuina posta in gioco nel conflitto politico democratico. Sia chiaro che perseguire politicamente gli obiettivi di sviluppo sostenibile non è proprio una passeggiata: il loro perseguimento implica l'impegno in una vasta gamma di conflitti e di lotte contro i Leviatani in postura gladiatoria, contro i poteri opachi del capitalismo predatorio, contro potenti interessi consolidati, contro i capitali "impazienti" e aggressivi, contro le retrotopie dei sovranisti, contro le culture egemoniche del presentismo che, azzerando il passato, ci scippano futuro. Infine, è importante tenere conto della complessità delle scelte collettive e delle politiche pubbliche che sono orientate alla transizione ecologica. La transizione implica nel tempo differenti distribuzioni di costi e benefici e richiede intelligenza, senso di responsabilità e lungimiranza politica.
Così, mi sembra di poter dire, una sinistra europea erede di una lunga storia, piena di luci e di ombre, può preservare la lealtà al meglio della sua tradizione, fronteggiando con il paradigma della sostenibilità i rischi e le opportunità dei tempi in cui ci è accaduto di avere una vita da vivere, con tanti altri e altre, nello spazio globale della comune umanità. Per lo sviluppo umano come libertà sociale, di chiunque, ovunque, nel pianeta che condividiamo in tempi difficili, nell'incertezza generata dalla grande trasformazione. Hic Rhodus, hic salta. © RIPRODUZIONE RISERVATA 25 OTTOBRE 2019 |