Antonio Calafati  
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INVERSIONI DI ROTTA*


A quale crocevia ci siamo persi?



Antonio Calafati


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Da: "nonmollare" (Fondazione Critica Liberale), n. 049

 

Dopo il 1989, le norme che regolano i contratti di lavoro sono cambiate in Europa, in alcuni Paesi più che in altri. È diventato più semplice o possibile instaurare contratti a tempo parziale, a tempo determinato - anche della durata di una giornata o di alcune ore - o che si possono interrompere con più facilità. Cambiamenti introdotti per aumentare la 'flessibilità' del mercato del lavoro, considerata una condizione per ottenere una crescita economica più elevata - un obiettivo ritenuto di valore sociale assoluto. In Italia, rendere più flessibile il mercato del lavoro è stato un obiettivo perseguito con determinazione e coerenza dai governi progressisti: dalla seconda metà degli anni Novanta fino al jobs act del 2015. Senza chiedersi se ci fossero le condizioni affinché i cambiamenti che si stavano introducendo in questa sfera dei fondamenti giuridici del capitalismo italiano non facessero degenerare la flessibilità in precarietà economica.

Osservata in una prospettiva storica, l'evoluzione istituzionale dell'ordinamento che regola i contratti di lavoro dopo il 1989 sembra paradossale: essa contraddice nello spirito e per gli esiti il 'progetto liberale' così come aveva preso forma in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ma chi la stava consapevolmente realizzando erano governi che si riconoscevano nel progetto liberale. Che contenuti aveva, a quel punto della storia europea, quel progetto politico-istituzionale? Che cosa stava diventando il progetto liberale?

Dopo il 1989, manifestare la propria fedeltà ai valori del 'liberalismo' era il nuovo lasciapassare nello spazio europeo. Ma era un termine tornato ad avere un significato indeterminato, come era accaduto altre volte nella lunga, controversa - e dimenticata - storia del liberalismo. La caduta del Muro di Berlino aveva fatto deflagrare il paradigma liberale. Sono riaffiorati temi e conflitti ideologici che sembravano essere stati risolti e archiviati. Si è riaperta una Kulturkampf, nella quale gran parte delle élite intellettuali e politiche progressiste - anche quelle che al liberalismo si erano da poco convertite - si è schierata dalla parte che non ci si sarebbe aspettati: il progetto neoliberale è diventato egemone e il mercato del lavoro è tornato a essere lo spazio relazionale nel quale scaricare i costi sociali delle 'crisi economiche', come era a lungo stato nella (breve) storia del capitalismo.

 

II

Il tema della garanzia dei 'minimi esistenziali' - reddito di sussistenza e nessuna incertezza economica per chi vive del proprio salario - ha caratterizzato il conflitto sull'agenda politica della società europea negli ultimi 150 anni. Nell'Europa trasformata nel corso del XIX secolo dall'industrializzazione, dall'urbanizzazione e dalla nascita delle metropoli, i 'minimi esistenziali' sono diventati un tema politico-istituzionale da declinare per tutte le culture politiche. Le grandi città europee diventano 'città plebee', con una morfologia sociale segnata dalla nuova e numericamente predominante classe dei salariati. Diventano lo spazio nel quale si manifestano in forma estrema i disequilibri economici che accompagnano l'espansione delle economie europee - perché nelle città la maggioranza della popolazione dispone soltanto del valore di scambio della propria forza-lavoro, allora come oggi. Un tema che il 'municipalismo' di fine Ottocento non sarebbe riuscito a declinare e che viene invece declinato con una lenta evoluzione istituzionale, approdata dopo la Seconda guerra mondiale a un modello di capitalismo fondato sul 'mercato sociale' e sullo 'stato sociale': beni fondamentali per il benessere individuale offerti come beni pubblici, schemi pensionistici generalizzati, sussidi di disoccupazione e salari 'soddisfacenti'. Un modello che aveva incorporato nelle sue istituzioni la 'giustizia sociale' e nel quale si identificavano liberali conservatori e liberali progressisti.

Quando tra Settecento e Ottocento si consolida in Europa l'economia come scienza sociale al servizio del perseguimento del benessere nazionale, inizia la riflessione sulle condizioni che garantivano un 'salario di sussistenza' al proletariato urbano. L'economia politica classica, da Adam Smith a John Stuart Mill, considera la garanzia dello stabilirsi sul mercato del lavoro di un salario di sussistenza come la giustificazione morale del nuovo ordine economico, che avremmo poi imparato a chiamare ' capitalismo'. Emerge, però, un altro tema accanto a quello del livello dei salari: i costi sociali dell'instabilità economica, dei cicli economici e delle 'crisi' - ovvero, i costi sociali della disoccupazione e dell'incertezza economica come incertezza esistenziale. Per il proletariato urbano, più che le condizioni di lavoro, più che i bassi salari è la possibilità di cadere nella miseria perdendo il lavoro, è l'incertezza esistenziale determinata dall'instabilità delle traiettorie di crescita delle società capitalistiche a rendere angosciosa la vita quotidiana.

La crisi economica tra le due guerre mondiali e le sue conseguenze politiche sembravano avere dimostrato che fosse necessario realizzare un modello di capitalismo che non generasse l'incertezza sulla disponibilità dei 'minimi esistenziali'. Il significato politico della 'rivoluzione keynesiana' è tutto qui: piena occupazione e salari soddisfacenti fanno un capitalismo che coesiste con la democrazia. L'intervento pubblico, nelle forme della regolazione macro-economica attraverso il bilancio pubblico o della socializzazione di parte degli investimenti, era necessario per ristabilire l'equilibrio sul mercato del lavoro il più rapidamente possibile - evitando riduzione dei salari e disoccupazione.

La 'rivoluzione keynesiana' aveva un fondamento etico: in una democrazia tutti i cittadini hanno il diritto di disporre dei 'minimi esistenziali'. Aveva anche un significato politico: una democrazia non regge l'urto di una parte rilevante della popolazione che non dispone dei 'minimi esistenziali'. Questo modello di capitalismo, progetto politico-istituzionale, che diventerà egemone dopo la Seconda guerra mondiale, sembrava riscattare l'Europa - il 'dark continent' nella definizione di Mark Mazower - dai suoi tragici errori. Portava a compimento un progetto di 'capitalismo democratico' che si era continuamente manifestato, tra contraddizioni e slanci, dalla Prussia di Bismark nella seconda metà dell'Ottocento al 'New Liberalism' inglese dell'inizio del Novecento. La complessa e contradditoria storia del liberalismo sembrava chiarificarsi e consolidarsi in quel progetto politico-istituzionale - che in Europa diventa il progetto liberale.

 

III

Con la caduta del Muro di Berlino il progetto liberale europeo che si era consolidato nel 'compromesso socialdemocratico' si disgrega. Ed è al progetto neoliberale che l'élite politica e intellettuale, particolarmente quella progressista, inaspettatamente si affida per ricomporne i frammenti. Disceso da un paradigma che aveva preso forma in sordina, attraverso le riflessioni teoriche e l'attivismo politico di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek nella Vienna tra le due guerre mondiali, il progetto neoliberale si era consolidato durante la Seconda guerra mondiale, ibridandosi con il conservatorismo liberale maturato negli Stati Uniti. In questo paradigma la democrazia ha un'importanza 'relativa' e la precarietà economica dei salariati è un 'fatto di natura', così come i cicli economici - spesso manifestazione delle traiettorie tecnologiche che si riteneva alimentassero la crescita di lungo periodo. Diventa progetto politico-istituzionale riproponendo come architrave della società la libertà economica degli individui e delle imprese - in una forma mai specificata. Il mercato che si auto-regola - non il mercato nelle sue specifiche manifestazioni storiche, con tutta la varietà tipologica che Karl Polanyi aveva insegnato a comprendere - è proposto come il generatore dell'equilibrio economico e sociale, dell'innovazione, dello sviluppo economico.

Sullo sfondo dei drammi della storia europea della prima metà del Novecento, il progetto neoliberale non sembrava politicamente rilevante subito dopo la Seconda guerra mondiale, sovrastato dalla forza morale e politica del progetto liberale, che la 'rivoluzione keynesiana' aveva liberato dalle incrostazioni di un liberismo antiquato e inutile. Anche Joseph Schumpeter, benché coinvolto intellettualmente nella sua costruzione, si costringe ad ammettere che il progetto neoliberale non era sostenibile perché troppo elevati i suoi costi sociali. In Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) prefigura la sua eutanasia, sbagliando, però, perché quell'interpretazione del liberalismo si rafforzerà, lentamente, con l'aiuto delle contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda fino a diventare egemone dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti.

 

IV

In Italia, dopo il 1989, le élite politiche progressiste hanno attuato dei cambiamenti istituzionali dettati dal paradigma neoliberale, al quale si era nel frattempo convertita gran parte dell'élite intellettuale. E il mercato del lavoro è tornato a essere il dispositivo da cui far dipendere il funzionamento del capitalismo: un'inversione di rotta che riportava la società europea un secolo indietro. Attraverso continue riforme che accrescevano la flessibilità del mercato del lavoro, accompagnate dalla riduzione dell'offerta di beni pubblici e dall'aumento dei prezzi dei beni semi-pubblici (servizio di istruzione superiore e servizio sanitario), si è realizzata una progressiva erosione della garanzia di accedere ai 'minimi esistenziali'. In Italia, neppure l'evidenza empirica che raccontava di una 'maggiore flessibilità' che, nelle condizioni specifiche dell'economia italiana - stagnazione economica prolungata, basso tasso di occupazione, continua riduzione delle ore lavorate totali -, si stava trasformando in una diffusa precarietà esistenziale è riuscita a mettere in discussione il progetto neoliberale. Nel discorso pubblico l'egemonia delle élite neoliberali era totale e l'uso che esse fanno dell'economia mai messo in discussione.

L'incertezza sulla possibilità di disporre dei 'minimi esistenziali' è una condizione drammatica per un individuo e per una famiglia nella società contemporanea. La base del benessere e della serenità degli individui e delle famiglie è poter definire e realizzare un piano di vita soddisfacente. Costruire una società che lo garantisca qui-ora è il fondamento del liberalismo. L'affermazione della irrinunciabilità dei 'minimi esistenziali' - non l'uguaglianza - è il focus delle teorie della giustizia liberali. Come già ampiamente condiviso dopo la Prima guerra mondiale e negli anni della Grande Crisi (1929) - e come interpretato dalla 'rivoluzione keynesiana' -, il fatto che in una democrazia vi siano individui in stato di precarietà economica - che non sono neppure in grado di sapere se la settimana seguente potranno provvedere a se stessi o ai bisogni della propria famiglia - pone un problema etico. Passato in secondo piano in Italia, in questi lunghi anni di stagnazione economica. L'élite intellettuale che ha promosso e giustificato come derivazione del paradigma neoliberale la 'società del rischio' - una società 'spietata' - ha plasmato il dibattito pubblico fino a far dimenticare quanto fosse inaudito che in uno dei Paesi più ricchi al mondo vi fossero milioni di individui che non disponevano dei 'minimi esistenziali'. Una retorica economica che è riuscita persino a far accettare un metodo di misurazione della disoccupazione insensato, che dissocia lo stato di 'occupato' dalla disponibilità di un reddito di sussistenza.

La diffusione della precarietà economica radicale pone anche un problema politico, che si è clamorosamente manifestato nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018, annunciato dagli esiti del referendum costituzionale e delle elezioni amministrative. L'economia italiana è in uno stato critico da due decenni e la diffusione del 'disagio economico' è elevata - come certificato dalle indagini statistiche di autorevoli organismi nazionali e internazionali. In una democrazia, gli individui percepiscono lo stato economico dell'oikos - della propria famiglia -, non lo stato dell'economia nazionale, come l'élite intellettuale crede che avvenga o, addirittura, debba avvenire. Ma in una democrazia, non si può chiedere agli individui di ponderare il proprio disagio economico qui-ora con una promessa di crescita economica futura (che non necessariamente diminuirà il loro disagio) al momento delle scelte elettorali. (In genere, è una richiesta che le dittature trasformano in imposizione). Si può anche definire 'populista' questo atteggiamento degli individui, ma è un populismo che, seguendo Christoher Lasch (La rivolta delle élite), potrebbe essere considerato sinonimo di democrazia.

I partiti che in Italia hanno oggi il maggiore consenso elettorale - Lega e M5S - lo hanno ottenuto con una proposta politica che mette al centro dell'agenda di governo la riduzione dell'incertezza economica radicale dei salariati, il diritto generalizzato ai 'minimi esistenziali'. Per quanto possa apparire paradossale - perché entrambi i partiti hanno caratteri illiberali -, lo hanno ottenuto riproponendo alcuni dei valori fondativi del progetto liberale come si era affermato dopo la Seconda guerra mondiale. Lo hanno fatto proponendo e attuando - o promettendo - politiche poco efficaci e contraddittorie? Con un anti-europeismo non necessario e controproducente? Con comportamenti e affermazioni sconcertanti? Certamente, credo. Ciò che contraddistingue la situazione politica italiana non è però l'approssimazione, la confusione e, spesso, la volgarità della reazione politica che si è incarnata nei successi della Lega e del M5S, bensì il fallimento morale, prima che teorico e politico, delle élite progressiste, politiche e intellettuali. Sono state loro ad abbandonare il progetto liberale così come si era consolidato - dopo i drammi del Novecento - tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro di Berlino. Sono state loro, che hanno governato il Paese ed egemonizzato il discorso pubblico dal 1989, a realizzare un'inversione di rotta nell'evoluzione dell'ordinamento istituzionale del capitalismo italiano. Lasciando a Lega e M5S la possibilità di declinare un tema - la garanzia dei 'minimi esistenziali' - che ha segnato la storia politico-istituzionale dell'Europa e che era stato abbandonato per strada come inutile zavorra.

 

V

Resta un enigma l'egemonia conquistata dal paradigma neoliberale, la sua capacità di ridefinire l'agenda politica europea e le agende politiche nazionali, di modificare gli ordinamenti istituzionali dei capitalismi europei. Lo stupore di Ralf Dahrendorf - che definiva i neoliberali una 'piccola setta', scarsamente considerata nella 'famiglia liberale' - interroga i liberali e il paradigma liberale, non altri. La chiave per trovare delle risposte, per capire a quale crocevia ci siamo persi è, credo, in un libro del 1990 dello stesso Dahrendorf, che dovremmo riprendere in mano: 1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa.

 

 

 

* Questo saggio deve molto ai suggerimenti di Giovanni Vetritto e alle discussioni avute con lui negli anni.

 


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29 NOVEMBRE 2019