Raffaella Neri  
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RICORDO DI ANTONIO MONESTIROLI


Realtà e ragione: i due poli in cui inscrivere il lavoro dell'architetto



Raffaella Neri


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Antonio Monestiroli non c'è più. Se ne è andato un Maestro.

Se non ci conforteranno più la sua voce e il suo argomentare, vivaci e curiosi, generosi e appassionati, sempre alla ricerca di un confronto leale e aperto, capace di riconoscere e rispettare le posizioni diverse, per trarne anzi motivi di riflessione, ragioni per sostenere o talvolta modificare la propria idea, comunque per andare in profondità, ci sosterrà il suo insegnamento: quando è radicato e sicuro questo non muore, ma anzi si vivifica nel tempo, si sedimenta e cresce. Il pensiero, come talvolta le architetture, sopravvivono alla propria epoca e si consolidano, un riferimento sicuro per riconoscerne a posteriori la grandezza.

Credo che uno dei suoi insegnamenti più importanti sia l'esortazione alla ricerca di essenzialità, al dovere, intellettuale ed etico, di andare al cuore delle questioni, al loro nucleo vitale, alla ragione che le origina.

Vorrei accogliere questa lezione e provare a mettere in luce quello che penso sia il tratto fondamentale, quello più radicale e decisivo del suo pensiero e del suo modo di essere architetto, nonostante gli argomenti siano molti, e molte, e importanti, siano le questioni che ha affrontato negli scritti e nei progetti. Ci saranno tempo e occasioni per una riflessione più ponderata sul suo lavoro e sulle architetture. La prima è già avvenuta, ed è una mostra retrospettiva che la Scuola di Architettura del Politecnico gli ha dedicato quest'anno (catalogo Antonio Monestiroli. Architettura. La ragione degli edifici, a cura di Raffaella Neri, CLEAN, Napoli 2019), e che a breve sarà riproposta allo IUAV di Venezia, una scuola con cui ha avuto stretti legami.

Antonio Monestiroli era architetto, professore, intellettuale, tutte queste cose insieme, pratico e teorico dell'architettura. Guardava al mondo attraverso la lente dell'architettura, ma di una architettura che non poteva che essere espressione di umanità. I due termini si confondevano e necessariamente si fondevano in un'unica visione del mondo, le qualità dell'una intersecandosi con quelle dell'altra: l'arte è espressione della vita e la vita si rappresenta nell'arte, e in modo speciale nell'architettura che, in un mondo civile, ne costruisce i contorni fisici, i luoghi dell'esistenza, manifestandone i valori. Bellezza, eleganza, semplicità, chiarezza, precisione, onestà e molte altre qualità dovevano appartenere, per Antonio Monestiroli, all'una e all'altra, all'architettura e alla vita, dovevano travasarsi una nell'altra alla ricerca degli aspetti più autentici e profondi, da conoscere, riconoscere, svelare e rappresentare. Uno scambio continuo, che si alimenta e cresce, si approfondisce, muta nel tempo, varia con i luoghi, passibile di diverse interpretazioni. Che deve assumere forme in cui rispecchiarsi, che si devono poter riconoscere, che ci dovranno appartenere.

Questa era, credo, la sua idea di architettura, una architettura civile, come ripeteva spesso, come aveva voluto titolare la scuola che aveva fondato al Politecnico con chi condivideva lo stesso anelito. Una architettura che ha senso di esistere solo se pensata in questo modo, che solo così può definire i suoi obiettivi, può ricercare gli strumenti sui quali fondarsi, i valori di cui nutrirsi e le forme con cui rappresentarsi. Solo così può costituirsi in disciplina autonoma e cercare di interloquire con il mondo variegato e ricco delle altre discipline che concorrono alla sua formazione. Un compito di grande responsabilità, intellettuale ed etica, civile appunto, che non può mai scordare che siamo fatti di ragione e di sentimento, e che questa inscindibile dualità appartiene alla nostra natura umana, quindi, necessariamente, alla nostra architettura.

Questa capacità di sintesi, questa apertura al mondo, questo modo di essere architetto senza dimenticarsi degli altri aspetti della vita, del rispetto, delle relazioni e della socialità, è una qualità rara. Credo che Antonio Monestrioli l'avesse imparata da Ernesto Nathan Rogers che, come molti, riconosceva come maestro di una scuola di pensiero, oltre che di architettura, di quella Scuola di Milano di cui gli piaceva scrivere e parlare, che come altri campi del pensiero si era formata nella sua città negli anni di grande fermento e di vitalità del dopoguerra, anni fecondi e positivi, caratterizzati da desiderio di rinascita e aspirazioni di rifondazione.

Realtà e ragione sono sempre stati i due poli del suo pensiero, i termini entro cui inscrivere il lavoro dell'architetto. Una realtà ampia, omnicomprensiva, che afferma il legame con la vita ma comprende i luoghi, la loro storia, le altre arti, i diversi campi del sapere. Un radicamento alla realtà che significa impegno alla conoscenza, per proseguirla, per tenere saldamente connessi gli aspetti materiali con quelli ideali e astratti, per dare forma a una aspirazione, ad architetture che la realtà la ricostruiscono, in ogni progetto, rinnovata e diversa.

Questa idea di realismo si fonda necessariamente sulla ragione come strumento fondamentale di ogni conoscenza: si tratta di una ragione intesa certo come razionalità, derivata da quell'illuminismo lombardo di cui Monestiroli si sentiva ancora erede, ma anche di una ragione intesa come motivo e origine delle cose, da indagare e rinnovare, per mettere ordine nella complessità del mondo, per mostrarla, stupefacente e lampante, in ogni nuovo progetto.

Antonio Monestiroli ci lascia in eredità una visione disincantata ma positiva del mondo, in cui l'uomo può e deve essere artefice consapevole del suo destino, di cui svelare i lati migliori e più autentici: una visione che ci fa sperare che l'architettura possa essere ancora qualcosa in cui credere.

Raffaella Neri

***

Antonio Monestiroli
Curriculum autobiografico
Da Conversazione in Sicilia con Antonio Monestiroli
a cura di Isotta Cortesi
LetteraVentidue, Siracusa 2016*

I miei primi ricordi risalgono al 1942 quando abitavo in una cascina a Rovato vicino a Brescia ospite, con i miei genitori, di uno zio di mia madre, maresciallo dei carabinieri.

La cascina aveva una grande loggia dove mia madre stava affacciata ad aspettare mio padre che, quando poteva, arrivava in bicicletta da Milano. Settanta chilometri, quasi sempre attaccato a un camion, per stare con noi solo alla domenica.

Di quel periodo ricordo i campi al di là della strada ma soprattutto il cavallo dello zio Bruno, un baio che mi piaceva e mi spaventava allo stesso tempo.

Nel 1944 siamo partiti per Milano. Non ho mai capito perchè mio padre si era convinto che a Milano non ci fosse più pericolo. Siamo andati ad abitare in via Palletta, una strada davanti al vecchio Ospedale Maggiore, una strada che adesso non c'è più perché una bomba ha incendiato la casa che la separava da Largo Richini.

Quando è caduta la bomba davanti a casa nostra io e mia madre, con mio fratello appena nato, eravamo nel rifugio mentre mio padre, insieme ad altri uomini del palazzo, teneva chiuso il portone spingendolo con forza per paura che entrassero le fiamme della casa di fronte.

Siamo arrivati a Milano nel giugno del '44 su un furgone pieno di provviste, ricordo i vasi pieni di riso, e io stavo insieme alle provviste. La prima cosa che ho visto arrivando è stato il lunghissimo fronte dell'Ospedale Maggiore del Filarete.

In quella casa abbiamo abitato due anni, da giugno del '44 fino a settembre del '46. Ricordo le stanze disadorne e, nell'ingresso, un pianoforte verticale che mio padre suonava tutte le sere, per noi e per i vicini di casa che erano diventati suoi amici. Un'atmosfera di festa in un tempo scandito dai comunicati di Radio Londra e dal rumore degli aerei carichi di bombe che sarebbero cadute anche molto vicino a noi.

Eppure mi sembrava che nessuno avesse paura. Mi ricordo che la sera a volte mangiavamo tutti insieme in cortile, su tavoli improvvisati, i piatti preparati da tante persone diverse.

Dal balcone della nostra casa al secondo piano vedevo i tetti del grande ospedale con le corti che si inseguivano per una lunghezza che mi sembrava senza fine. Vedevo anche le baracche in lamiera costruite fra i ruderi della casa bombardata dove viveva una popolazione in assoluta miseria.

In quel periodo si pagava tutto con i bollini di una tessera e una sera mia madre mi ha mandato, con la tessera, in una trattoria sotto casa, dove ho mangiato seduto a un tavolino da solo. E' stato il mio primo pasto fuori casa da solo. Un'esperienza che mi è rimasta impressa da allora in poi.

Nel 1946 siamo andati ad abitare in via Serbelloni e io sono stato iscritto alle scuole elementari di via Santo Spirito una traversa di via Spiga. Abitavamo in una casa borghese con una zona giorno e una zona notte e io avevo una stanza solo per me.

* Mio padre faceva il costruttore e lavorava per una società che stava costruendo le case milanesi di Luigi Moretti. Era molto contento del suo lavoro e spesso, la domenica mattina, mi portava con sé in cantiere. Qualche volta arrivava in automobile Luigi Moretti che ho conosciuto forse nel modo migliore perché era sempre di buon umore per come procedevano i lavori.

Ma l'esperienza più esaltante di quel periodo di formazione l'ho avuta con mia madre alla Scala. Mia madre era figlia di un cantante lirico così fin da bambino frequentavo il teatro alla Scala, non solo dalla parte degli spettatori ma anche dalla parte dei cantanti e di tutti coloro che lavoravano all'allestimento delle opere.

Io penso sempre che queste due esperienze, del cantiere e del teatro, avute nello stesso periodo, abbiano influito molto sulla mia scelta di fare l'architetto.

Nel 1954 mi sono iscritto al Liceo Scientifico Vittorio Veneto. Sono iniziati cinque anni difficili, vissuti in uno stato di depressione continua.

Del liceo ho due ricordi più di altri: il primo è l'edificio, un edificio ottocentesco molto adatto ad una scuola con tante corti collegate fra loro che davano luce ai corridoi. Le aule, grandi e luminose, erano affacciate sulla strada.

Il secondo ricordo è il professor Lucchesi, professore di italiano e latino per tre anni di seguito. Un uomo aperto e intelligente che ci ha insegnato ad essere cittadini.

Ricordo che ogni volta che facevamo un tema in classe quello considerato migliore veniva letto ad alta voce dal suo autore. Ricordo l'emozione provata sentendo i temi degli altri. Da una parte provavo un sentimento di invidia per la loro bravura ma anche una gran voglia di far meglio. Quella è stata un'altra esperienza molto formativa.

L'esame di maturità, fatto nel 1959, è andato oltre ogni previsione e questo mi ha dato la sicurezza necessaria a superare la depressione.

*Nello stesso anno (1959) mi sono iscritto al Politecnico, alla Facoltà di Architettura, senza sapere cosa fosse realmente l'architettura. L'unica esperienza che avevo avuto era stata la visita ai cantieri di Luigi Moretti con mio padre.

Ricordo che i primi anni di università facevo cose di cui non capivo il senso. Una specie di successione meccanica di lezioni, esercitazioni ed esami senza grandi risultati. Intanto, in quegli anni, cresceva negli studenti un grande desiderio di conoscenza. È qui che nel 1962 abbiamo incontrato Ernesto Nathan Rogers che su di me ha avuto lo stesso effetto del professor Lucchesi qualche anno prima al liceo. Un effetto persino doloroso, come se avessi incontrato una persona capace di mettere a nudo la mia inadeguatezza.

"Chi di voi ha letto Proust?" ha chiesto Rogers alla sua prima lezione. Io non sapevo neanche chi fosse Proust così mi sono precipitato a leggerlo e via di seguito.

Con le sue lezioni Rogers mi ha riallacciato al Vittorini che avevo letto al liceo, indicandomi la strada da percorrere per capire il senso dell'architettura e del suo ruolo nella costruzione della città. Perché già da allora ero più interessato alla città che all'architettura, alla sua vita, alle sue forme.

Questo è il motivo, almeno credo, delle difficoltà del mio rapporto con Albini del quale capivo la grandezza ma con il quale non riuscivo a parlare della città.

Ed è il motivo per cui ho dovuto rimandare di sei mesi la laurea cercando di orientarmi da solo nel difficile problema del rapporto architettura-città.

In questo passaggio della mia formazione ho avuto un altro incontro decisivo voluto dal mio amico e compagno Adriano Di Leo, un incontro fortunato, capitato al momento giusto. Ho incontrato Aldo Rossi pochi giorni prima della laurea e gli ho mostrato il progetto fatto con Albini.

Aldo Rossi mi ha insegnato a impiantare il progetto nella realtà, una realtà da indagare, da conoscere in profondità, una realtà che può essere radicalmente trasformata se si trova una buona ragione per farlo. Questo era il senso di ogni progetto per Aldo Rossi: un atto consapevole di trasformazione della realtà.

Dopo la laurea ho iniziato la mia ricerca sul progetto di architettura, una ricerca che affiancava la didattica appena iniziata ma anche, forse soprattutto, il mio lavoro di architetto.

Così da una parte ho iniziato a studiare la città, ( Milano, Pavia, Parigi, Londra, Berlino), la sua geografia, la sua forma, dall'altra a fare i primi progetti con Paolo Rizzatto partecipando ai concorsi che ci sembravano affrontare i temi che ci stavano a cuore.

I miei studi sulla città sono stati il materiale del libro L'architettura della realtà pubblicato dalla CLUP a Milano nel 1979 poi ristampato nel 1999 da Allemandi a Torino. Ho pubblicato l'Architettura della realtà nel 1979 perché ero convinto di dover scrivere il mio primo libro prima di compiere 40 anni. Il 1979 per me è stato un anno importante perché oltre al libro ho fatto un progetto urbano a cui tengo molto ancora oggi: il progetto per l'area delle Halles a Parigi.

Ho avuto molti maestri, incontrati ma anche cercati. Cercati per necessità, per un bisogno di aiuto emerso via via durante il mio lavoro. Uno di questi, forse il più importante, è stato Mies van der Rohe, un architetto allora relegato nel campo della tecnologia e invece, secondo me, un grande interprete del rapporto fra architettura e città. Per questo motivo ho tradotto e curato l'edizione italiana del libro di Ludwig Hilberseimer su Mies van der Rohe pubblicato a Chicago nel 1956 e a Milano nel 1984.

Ma il mio interesse principale è sempre stato il progetto.

Ogni progetto ci costringe ad attraversare un mondo da cui usciamo solo quando troviamo una forma capace di rivelarne il senso. Penso che avvenga la stessa cosa a chi gira un film o a chi scrive un romanzo.

Un film ha un soggetto, una sceneggiatura, un linguaggio. Un progetto di architettura ha un tema, un sistema costruttivo, una forma. In architettura il tema è parte della realtà, la costruzione dà una struttura a quella realtà, la forma mette in luce una realtà nuova.

Dei tanti progetti fatti qualcuno sono riuscito a portarlo fino alla realizzazione. Realizzare un progetto è importante, non è vero che se ne può fare a meno. Intanto porta a compimento il processo di costruzione di un edificio destinato alla città e quindi ai suoi cittadini. Poi rivela aspetti che altrimenti, nel disegno, resterebbero nascosti.

Io ho costruito poco non certo perché ho preferito fare il professore come molti sostengono, ma per un equivoco di fondo con la committenza in generale. Un equivoco che fa parte del nostro mestiere. Il committente il più delle volte, più o meno consapevolmente, vuole che il progetto sia fatto per lui solo mentre l'architetto, se fa bene il suo lavoro, pensa ad un committente ideale che comprende tutti i cittadini e non uno solo di loro.

E' la questione del rapporto fra particolare e generale che si pone ogni volta che si comincia un progetto. Quando il passaggio dal particolare al generale non si compie il progetto perde di interesse. Almeno per me.

Dei miei tanti progetti quelli di cui sono contento sono più di quaranta, quelli costruiti meno di dieci. I migliori sono pubblicati in tre monografie: la prima Progetti 1967-1987, Roma 1988, la seconda Opere progetti studi di architettura, Milano 2001 e la terza Prototipi di architettura, Padova 2012.

Mentre facevo i miei progetti con i miei collaboratori, che sono stati tanti, tutti interessati al progetto come conoscenza e ai quali devo moltissimo, ho continuato a scrivere le mie lezioni. Nel 2002 ho pubblicato La metopa e il triglifo nella collana Universale Laterza, un libro fortunato, tradotto in tre lingue. In questo libro sono raccolte 9 lezioni che affrontano i passaggi cruciali del progetto.

Il fatto di scrivere insegnando, in qualche modo obbliga chi scrive a orientare i suoi scritti alla formazione, ad indicare una direzione verso cui muovere.

Tutti i miei scritti sono rivolti alla formazione. Anche l'intervista a Ignazio Gardella pubblicata da Laterza nel 1996 con il titolo L'architettura secondo Gardella è un libro che ha come scopo la formazione. Un dialogo con un grande maestro dell'architettura italiana che, rispondendo puntualmente a ogni domanda, ci rivela il suo pensiero e il suo modo di lavorare.

In un libro successivo, La ragione degli edifici, edito da Christian Marinotti nel 2010 ho descritto il pensiero e il modo di lavorare che accomuna diversi architetti milanesi dei primi del novecento, una vera Scuola che ho voluto chiamare la Scuola di Milano.

Nel frattempo ho diretto il Dipartimento di Progettazione dell'architettura al Politecnico di Milano (1988-1994) e ho fondato, insieme ad altri docenti, una nuova Facoltà di Architettura che abbiamo chiamato Facoltà di Architettura Civile. (1998)

Il primo Preside è stato Antonio Acuto, un caro amico e un bravo architetto. Io ho continuato il suo lavoro dal 2000 al 2008.

Fare una nuova scuola di architettura è un impegno che richiede la consapevolezza chiara del fine di quella scuola, di cosa si intende per architetto e di quali sono i suoi compiti. Senza questa consapevolezza si va alla deriva e prendono il sopravvento i tanti interessi particolari. Per questo motivo ho sempre insistito su quelle che secondo me sono le qualità necessarie a chi fa architettura.

Terminato il mandato di Preside ho continuato a fare progetti, ancora concorsi e i pochi incarichi professionali ancora non finiti e ho voluto riconoscere il mio debito con un maestro lontano nel tempo come Andrea Palladio e con Aldo Rossi che mi ha salvato dalla pratica di un "razionalismo convenzionale". Ho pubblicato In compagnia di Palladio con Letteraventidue nel 2013 e Il mondo di Aldo Rossi ancora con Letteraventidue nel 2015.

Infine, sempre con Letteraventidue, Una pagina su…, trentasei scritti brevi che ripercorrono a memoria le ragioni per cui trentasei progetti, fatti da me e dai miei collaboratori, hanno assunto quelle forme e ho potuto verificare, come ho sempre pensato, che tali ragioni sono tutte radicate nella realtà.

giugno 2016

Antonio Monestiroli

*Si ringraziano la Curatrice e l'Editore per aver autorizzato la pubblicazione


© RIPRODUZIONE RISERVATA

16 DICEMBRE 2019

DAL NOSTRO ARCHIVIO

Presentazione del libro di Antonio Monestiroli
LA RAGIONE DEGLI EDIFICI. La Scuola di Milano e oltre
(Christian Marinotti Edizioni)

Intervengono:
Giancarlo Consonni
Antonio Monestiroli
Fulvio Papi
Angelo Torricelli

20 Aprile 2011

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di Antonio Monestiroli
ERNESTO NATHAN ROGERS
L’architettura come esperienza
in AA.VV., La Scuola di Milano, n1 viaBorgogna3
Casa della Cultura, Milano 2016
, pp. 64-67