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Mi è capitato recentemente di ascoltare in una trasmissione televisiva sulle “magnifiche sorti e progressive” del cosiddetto Modello Milano la comune rivendicazione, da parte di esponenti di parti politiche che dovrebbero essere avverse, della bontà di un nuovo “rito ambrosiano”. Questo dimenticando che quello “storico” degli anni '50/'60 (imitato poi in diversi comuni del Paese) è consistito nell'ignorare la legge n. 1150/42, che richiedeva l’obbligo preventivo di un Piano regolatore generale, sostituendovi invece la prassi di contrattazioni "provvisorie" caso per caso, i cui contenuti ipocritamente avrebbero dovuto essere poi soggetti a conferma o rigetto in un futuro PRG. Ciò che una volta almeno si ammetteva come ipocrita scappatoia arrangiata e formalmente provvisoria, oggi viene rivendicato come metodo stabile legalizzato dalla legislazione regionale e ratificato come legittimo persino da una recente sentenza del TAR sull’Accordo di Programma tra Comune di Milano e FS/Sistemi Urbani in merito al riuso degli ex scali ferroviari. Si sancisce così che nei cosiddetti nuovi strumenti di pianificazione strategica le leggi regionali possono autorizzare i Comuni a derogare dal rispetto delle normative minime inderogabili della legislazione nazionale. In questo modo, implicitamente, si ratifica che in Lombardia (ma anche in molte altre regioni) in campo urbanistico la molto discutibile “autonomia differenziata” è già in essere. Basta così continuare a votare leggi regionali a mio avviso in palese contrasto con la legislazione nazionale (in Lombardia, ad esempio, la L.R. 12/05 e la recente L. R. 18/19 sulla Rigenerazione Urbana: +20% sulle quantità edificatorie dei PGT, - 60% sugli oneri urbanizzativi!) e il gioco è fatto: non costa nulla a chi le approva, non c'è pericolo che il Governo o il Parlamento, tramite l'Avvocatura dello Stato, le impugni per violazione delle proprie prerogative e i cittadini in dissenso sugli esiti di queste procedure molto spesso o non si vedono riconosciuta la legittimazione a impugnare via via le mille deroghe in esse contenute o - quando ciò viene ammesso - difficilmente hanno le risorse economiche per continuare ripetutamente a farlo.
Si era già cominciato negli anni '90 con i PII (Programmi integrati di intervento), PRU (Programmi di riqualificazione urbana), PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) e con gli Accordi di programma, anche se per quasi vent'anni l'immobiliarismo tradizionale non aveva nemmeno osato credere alla possibilità di uno stravolgimento così totale della logica urbanistica che si era instaurata con la Legge Ponte 765/67 e con il relativo decreto attuativo DM 1444/68. Poi è entrata in campo la grande finanza globalizzata con la sua sterminata capacità di investimento su scommesse speculative di lungo periodo (aree pagate il doppio della rendita fondiaria corrente) e i Comuni col cappello in mano si sono resi complici nel cercare di raggranellare qualche briciola degli altrui grandi guadagni attesi. Sulle grandi aree dismesse (ex aree fieristiche urbane, ex scali ferroviari di più o meno recente dismissione, ex caserme, ex insediamenti industriali) si sta procedendo come negli anni '50/'60, quando a decidere dove, quanto e che cosa costruire era la convenienza economica di proprietà fondiarie e investitori immobiliari. Con due aggravanti, però: 1) che oggi la dimensione fisica ed economico-temporale degli interventi proposti ai Comuni è enormemente accresciuta dalla dimensione finanziaria globalizzata; 2) che allora i Comuni si dividevano tra quelli asserviti da Giunte compiacenti (Roma/Rebecchini, Napoli/Gava, Palermo/Ciancimino e giù giù per varie plaghe d'Italia) e quelli che si illudevano di poter beneficiare di qualche contropartita di utilità pubblica, moderandone le tendenze pur senza una visione di pianificazione pubblica preventiva. Oggi i Comuni, indipendentemente dall'orientamento politico, spesso pensano solo a facilitare le aspettative di investimento finanziario degli operatori, offrendosi di comparteciparvi con le aree di proprietà comunale (è accaduto a Milano con 100.000 mq comunali a Porta Nuova e rischia di accadere di nuovo con quelle indotte dal nuovo stadio a S. Siro). Solo così si spiega come possa essere accaduto che a Milano su ex Fiera/Citylife e Porta Nuova si sia arrivati da parte degli operatori finanziari a offrire alla rendita fondiaria proprietaria il doppio di quella corrente in operazioni immobiliari tradizionali e di più limitata estensione (1.800 €/mq slp pari – con quegli indici edificatori – a circa 2.000 €/mq di suolo contro gli 800-900 €/mq slp correnti in operazioni immobiliari tradizionali). Qui a investire non sono più operatori immobiliari classici che devono reperire i finanziamenti in banca e rientrare in tempi brevi per non fallire, ma direttamente le banche, le assicurazioni, i fondi pensione americani, i fondi sovrani mediorientali, ecc. che possono permettersi scommesse speculative di lunghissimo periodo e rischiare persino di perderle senza con ciò fallire. Per quanto li si voglia "innovativamente" denominare con termini accattivanti, si tratta di fatto di "convenzioni non urbanistiche" del tutto analoghe a quelle pre-Legge Ponte/DM 1444.68 ma, appunto, in versione ed estensione 2.0 consentita da investimenti finanziari globalizzati.
Come fa Michele Achilli nel suo libro – L'urbanista socialista. Le leggi di riforma 1967-1992, postfazione di Vittorio Emiliani (Marsilio, 2018), già oggetto di un commento di Francesco Forte in questa rubrica (29 novembre 2019) – può dunque essere ancora utile tornare a riflettere sulle modalità di approvazione della cosiddetta Legge Ponte n. 765/67 e del conseguente D.M. n. 1444/68 oltre che sugli effetti (ma anche sui limiti) prodottisi tra il periodo della sua entrata in vigore e i giorni nostri, in cui con troppa sicumera e facilità la si vorrebbe liquidare come del tutto obsoleta e non più adeguata alle attuali dinamiche urbane di stampo liberistico o ai nuovi obiettivi di risparmio energetico e di consumo edificatorio del suolo. Ci avevano già provato nel 2005 i deputati – non a caso entrambi milanesi – Maurizio Lupi (Forza Italia) e Pierluigi Mantini (allora Margherita, poi PD) curando un libro – I principi del governo del territorio. La riforma urbanistica in Parlamento (Il sole-24 ore, 2005) – a teorizzare l’orizzonte tecnico-giuridico e politico-culturale della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiarie-immobiliari. Una posizione che connotava la loro inusuale iniziativa di un disegno di legge sul governo del territorio in modo bipartisan tra maggioranza e opposizione. I precedenti cui si ispiravano venivano dall’esperienza delle leggi regionali lombarde Verga e Adamoli e dall’estensione a livello nazionale fattane con l’emendamento bipartisan Botta- Ferrarini (deputati rispettivamente DC e PSI) all’art. 16 della L. 179/92 con cui all’interno di una legge di rifinanziamento dell’edilizia economico-popolare si istituirono i Programmi Integrati di Intervento, oggi così in voga per derogare alle disposizioni del D.M. n. 1444/68. Fortunatamente quel DDL fu approvato solo da uno dei due rami del Parlamento e decadde nel 2006 per fine legislatura, cosicché nello scorcio di legislatura succedutasi i due si dovettero acconciare a presentare disegni di legge distinti – anche se improntati da forti affinità nei contenuti di stampo liberistico ed economicistico – che, nel mutato clima politico, non giunsero mai ad approvazione.
Torniamo allora alle vicende ricostruite da Achilli sul suo ruolo nell’approvazione della cosiddetta Legge Ponte del 1967, la cui denominazione corrente fa comprendere come si trattasse di conquiste parziali, in attesa di una più organica configurazione legislativa della materia urbanistica. La lunga opposizione delle forze politiche conservatrici a qualunque limitazione alla libertà di iniziativa di proprietà fondiarie e imprenditoria immobiliare – anche in spregio della pur formalmente vigente legge n. 1550/42 che avrebbe imposto la preventiva approvazione di un PRG, ma che era vissuta come un’eco lontana di un regime ormai dissolto – era stata fiaccata dal diffondersi di un’opinione pubblica traumatizzata dalle drammatiche vicende della frana di Agrigento del luglio 1966 – che portò ad una Commissione di inchiesta parlamentare sugli abusi edilizi che l’avevano provocata – e delle alluvioni di Venezia e Firenze del novembre 1966. Non si può, tuttavia, non riconoscere ad Achilli una forte perseveranza ed abilità nel conseguire il risultato dell’approvazione della legge, considerando le difficili e mutevoli manovre parlamentari che anche oggi vediamo caratterizzare in vari campi il destino di molti disegni legislativi. Vi è, però, da parte di Achilli, nella sua ricostruzione, una presunzione un po' troppo autoelogiatoria nel ritenersi l'unico ad aver individuato il compromesso utile a raggiungere la convergenza politica delle forze del centro-sinistra che portò a quel risultato. Mi pare, quindi, apodittico apostrofare il precedente DDL del 1963 promosso dal ministro Sullo come una "grida manzoniana" e non cogliere, invece, i limiti di ciò che si ottenne con l'approvazione di quello da lui caldeggiato. Fu sicuramente un importante successo aver ottenuto che le "convenzioni" con i privati non potessero essere approvate se non a seguito della precedente redazione/approvazione di un PRG che ne garantisse i contenuti sia in termini di rapporti minimi inderogabili tra quantità edificatorie e dotazioni di spazi per servizi pubblici da cedersi gratuitamente ai comuni (ancora oggi avviene così nei piani di lottizzazione, mentre gli espropri "diretti" di aree pubbliche da parte dei comuni vanno indennizzati "a valore di mercato" sulla base dell'edificabilità dell'intorno, in base ad una sentenza della Corte Costituzionale) sia in termini di localizzazione di dove potersi intervenire edificatoriamente. Prima di ciò le "convenzioni non urbanistiche" tra Comuni e proprietà fondiarie degli anni '50-'60, che collusivamente ignoravano l'esistenza in vigore della Legge Urbanistica n. 1150/42, partivano dalle proposte edificatorie in luoghi e con quantità edificatorie stabiliti dalle convenienze dei singoli privati sulla base di progetti redatti da tecnici totalmente succubi ai loro datori di lavoro e privi di qualunque minima deontologia professionale. Quasi mai, infatti, si verificò il rifiuto di un incarico progettuale per inaccettabilità deontologica di ciò che veniva chiesto di avallare. E i Comuni, anche quelli che si vantavano di "contrattare" più duramente, partivano quasi sempre in modo succube da ciò che si vedevano proporre dai progettisti dei privati con esiti che furono quindi sempre modesti.
Il caso di utilizzo esteso della Legge 167/63 per la redazione di un Piano di Edilizia Economico Popolare che indirizzava in base ad un progetto insediativo pubblico la maggior parte delle realizzazioni edificatorie, come accadde a Novara durante l’amministrazione 1956-‘60 in cui fu assessore Lodovico Meneghetti, rimase tuttavia un episodio pressoché unico, pur dimostrando le potenzialità di chi volesse cimentarsi a usare al meglio ciò di cui già si disponeva. Bisogna pur dire che la Legge Ponte nel periodo in cui fu pienamente vigente – cioè nel periodo dal 1967-'68 agli anni '90 – ha sicuramente prodotto molto diffusamente risultati positivi, ancorché parziali: infatti, oggi se si guarda la maggior parte dei Comuni i 18 mq/abitante di spazi a verde e servizi territoriali che prevedeva risultano più o meno attuati. Non altrettanto, però, è accaduto dei 17,5 mq/abitante (oggi secondo il TAR Lombardia riducibili “pattiziamente” nei PII e simili sino a valori infinitesimi) nei grandi Comuni, che pur disegnati nei PRG non sono mai stati messi in carico ai Piani di lottizzazione dei decenni '70-'05 e vanno via via decadendo come vincoli ultraquinquennali inattuati.
Si noti che la Lombardia – che con la prima legge urbanistica regionale approvata in Italia, la L.R. n. 51/75, aveva portato gli standard minimi per spazi pubblici di quartiere a 26,5 mq/abitante per un totale di 26,5+17,5= 44 mq/abitante – è stata poi anche la prima che con la L.R. 12/05 (a differenza di molte altre regioni che ancora si attestano tuttora su valori maggiori) a tornare al valore minimo nazionale. E questo mentre le realtà urbane europee si spingono a prevedere 50 mq/abitante e oltre. Insomma, la Lombardia che si proclama più ricca delle altre regioni italiane e persino più della ricca Baviera, non sa essere altrettanto civilmente sviluppata in tema di dotazioni di spazi pubblici! Anche la durata quinquennale e non ripetibile dei vincoli di uso pubblico, stabilita a botta calda dal Parlamento dopo la sentenza choc della Corte Costituzionale del 1968 (ricordo in Facoltà i TazeBao che a caratteri cubitali strillavano"Urbanistica incostituzionale !") potrebbe motivatamente essere rimessa in discussione da una visione progressista oggi sempre più evanescente. La sentenza della Corte Costituzionale, infatti, chiedeva solo un termine temporale ai vincoli di uso pubblico anziché la durata a tempo indeterminato di ogni genere di vincolo prevista per i PRG nella Legge 1150/42. Se si considera però che Piani Regolatori della Legge del 1865 duravano ben 25 anni e i Piani Attuativi degli attuali PRG/PGT ne durano tuttora 10, non si vede perché in linea di principio non si potrebbe tornare a proporre una simile durata, sicuramente più congrua a quella delle dinamiche urbane.
Questa riflessione non sarebbe completa se non ci si soffermasse anche su altri limiti della Legge Ponte. La 1150/42 prevedeva, infatti, che dopo la redazione del PRG vi fosse un’ulteriore fase di pianificazione pubblica comunale coi Piani Particolareggiati di Esecuzione: solo dopo il privato avrebbe potuto presentare i propri piani di lottizzazione, che avrebbero però avuto una valenza poco più che di riassetto catastale delle proprietà, in adeguamento alle indicazioni del piano attuativo pubblico. La Legge Ponte, invece, dopo l'approvazione del PRG con le sue prescrizioni localizzative e quantitative affida direttamente ai Piani di lottizzazione privati il compito di configurare l'assetto urbano ed edificatorio e il privato lo fa ovviamente tutelando soprattutto la facilità attuativa del prodotto edilizio che deve poi far fruttare. Certo le quantità edificatorie e di spazi pubblici sono quelle del PRG, ma come distribuirle è in funzione del massimo rispetto dell'assetto fondiario esistente in modo da turbarlo il meno possibile e le cessioni di aree pubbliche sono spesso fatte in zone residuali e frazionate. In alcuni casi in cui da tecnico o da assessore in Comuni dell’hinterland milanese sono riuscito a promuovere la redazione di un Piano particolareggiato i risultati sono stati quanto mai soddisfacenti, divenendo contenuto obbligatorio per il Piano di lottizzazione privato sulla disposizione degli edifici, i loro allineamenti ed altezze (che altrimenti verrebbero decisi in base a forma ed estensione dei singoli lotti preesistenti) e quella della localizzazione degli spazi pubblici.
Ai molti che oggi lamentano che la cosiddetta "ragioneria degli standard" conseguente al DM 1444/68 sia limitativa della libertà di fantasia progettuale, ricordo che nella mia esperienza di assessore ho visto discutere animatamente nei Consigli comunali quali fossero i limiti entro cui si potesse concedere di "monetizzare" le quantità di spazi pubblici da cedere per "far tornare i conti" delle norme imposte dal PRG, ma si discuteva di percentuali dell'1-2% e con valori assoluti di 500-1.000 mq. È evidente, invece, che quando indici incongruenti “pattiziamente contrattati” negli strumenti urbanistici cosiddetti “innovativi” impongono la “monetizzazione” del 40-50% e oltre delle cessioni di aree pubbliche dovute, siamo di fronte a “convenzioni non urbanistiche” del tutto simili a quelle di prima della Legge Ponte e negli anni ’70-‘90 unanimemente deprecate come lo erano quelle de Le mani sulla città, per rifarsi al bel film di testimonianza civile girato dal regista Francesco Rosi appunto nel 1963.
Come Achilli ribadisce ripetutamente nel libro, forse allora non si sarebbe potuto ottenere di più e di meglio, ma occorrerebbe almeno aver consapevolezza dei limiti di quanto ottenuto e di ciò che in futuro si sarebbe dovuto tornare a cercare di ottenere. Questo Achilli dovrebbe dimostrare di averlo presente, cosa che il velo autoconsolatorio della memoria non mi pare gli abbia consentito di fare. Certo altra cosa è rimproverargli – come fa ingenerosamente Forte nella sua recensione per Città Bene Comune – che forse già allora avrebbe dovuto prevedere e fare propri i passi indietro – anziché in avanti – che si manifesteranno dagli anni '90 e a seguire coi provvedimenti legislativi introdotti disorganicamente qua e là in leggi non urbanistiche e che i da lui evocati Campos Venuti ed Oliva subirono passivamente sino a farli - a mio giudizio - volonterosamente propri con le aberranti pratiche sui "diritti pregressi" e la teorizzazione di un “pianificar facendo” che – soprattutto nell’estensione fattane dagli epigoni – è spesso apparso piuttosto un “faccendar pianificando”. Arretramenti rispetto ai risultati ottenuti con l’approvazione della Legge Ponte circa i quali neppure Achilli, nella ricostruzione fattane nel suo libro, arriva a esprimersi criticamente. Bisogna, infatti, arrivare alla postfazione di Vittorio Emiliani per leggere un dissenso critico circa quelle pratiche succubi degli interessi privati, dissenso che è mancato da parte di chi in passato le aveva avversate.
Ciò che più sorprende, però, è quanto Achilli scrive dei contrasti politici di quel periodo: "Il primo governo Moro cade il 25 giugno 1963 per un contrasto di fondo sui temi della politica di piano e delle riforme: in concreto il rinvio dell'approvazione del piano Giolitti e il rifiuto della legge urbanistica. È il secondo governo che cade nel breve spazio di un anno per la questione urbanistica quale elemento dirompente". Ve lo immaginate oggi vedere il Parlamento discutere e i governi cadere per quella quisquilia che sono vieppiù divenute, in epoca di finanza globalizzata, il governo del territorio e la rendita fondiaria che ne consegue? Le modifiche legislative continuamente susseguitesi che consentono ai Comuni di derogare sempre più ampiamente ai dettati minimi del DM 1444/68, che li dichiarava “inderogabili”, hanno continuato ad apparire qua e là in vari decreti omnibus e “mille proroghe” sino a tutto il 2019, senza che nessun parlamentare non dico lo mettesse in discussione, ma neppure se ne accorgesse. E le sentenze dei TAR che prendono atto di ciò dichiarandolo perfettamente legittimo ne sono l’inevitabile conseguenza. La questione urbanistica, ahimé, è totalmente scomparsa dall’orizzonte sia della politica che della società!
Sergio Brenna
Qualche ulteriore considerazione di Lodovico Meneghetti
La condizione di certi comuni medi o piccoli era ancora altra, prima delle «convenzioni non urbanistiche» dette da Sergio Brenna e ancora lontano dalla legge 765/1967; forse per questo lo sarà «altra», quella condizione, nell’applicare la miglior legislazione, la legge 167/1962 (Peep, Piani per l’edilizia economica e popolare – basta la locuzione per riconoscere una novità sospinta dalla tradizione), come lo era nell’andamento generale dell’urbanistica.
Il rovesciamento del crasso potere democristiano sulla rendita fondiaria e sulle costruzioni fu tentato e riuscì, almeno parzialmente, nel periodo 1956-1960 a Novara, una città che conterà 87.700 abitanti al censimento del 1961. Elezioni del maggio 1956: grande ritorno della sinistra. Sindaco (Sandro Bermani) e assessori socialisti, maggioranza con i comunisti e ventunesimo voto per poter reggere in Consiglio comunale dato convintamente da un onesto socialdemocratico, architetto. Detenevo allora l’assessorato più esposto, si può dire onnicomprensivo (urbanistica, lavori pubblici, edilizia privata). Preparato: infatti nei due anni precedenti alle elezioni, come redattore unico de «Il Lavoratore» (settimanale socialista novarese già presente nel secolo XIX e confuso da Wikipedia con un giornale triestino «Imperiale», rifondato nel 1921 dal Partito comunista), d’accordo con il futuro sindaco avevo impegnato i paginoni in un’instancabile contestazione del malgoverno democristiano: noti alla città i condomini extra-large e extra-long fuori-norma favoriti alle famiglie dei capicorrente e degli (in)discussi fervidi super-cattolici.
Assessori di sinistra architetti in quell’epoca ce ne furono pochi altri in città di rilievo. Il coetaneo Giuseppe Campos Venuti a Bologna lo fu solo dal 1960, quando la cultura urbana e architettonica soffriva già meno di solitudine nella battaglia di ogni giorno. Il caso di Sergio Brenna, assessore a Rho, è assai posteriore. Giocano le diverse età dei protagonisti, ma non sempre contano le migliori condizioni ambientali di contorno all’azione dell’urbanista-architetto, giacché il paese aveva intanto percorso in buon parte il tragitto che lo porterà ben presto alla rovina estesa. In un rosario di sensi-significati olistici, Pasolini scriverà che alla fine degli anni Cinquanta il crimine territoriale-ambientale aveva già vinto e osava sbandierare i propri risultati; la Napoli del film di Francesco Rosi, 1963, apparirà tanto presto luogo spaventevole, irrecuperabile alla vita umana; soli tre anni dopo, il 19 luglio 1966 sarà la frana di Agrigento a statuire per quel momento e per i secoli futuri la verità che gridavamo in stonata parafrasi: «ma che paese, l’Italia»?! (contra: Che paese, l’America, titolo italiano del prodigioso libro di Frank McCourt, orig. 1999, Adelphi 2000) su un tumultuoso e fiducioso apprendistato newyorkese cominciato nel 1949.
Non entro nella diatriba sui socialisti e la Legge Ponte. Non c’importano oggi i meriti/demeriti di Michele Achilli (collega dei tempi ardenti di un progetto ritenuto novello, scorrente sull’asse Torino-Novara-Milano) quando è mancata una ferrea protesta contro l’iper-liberismo dentro la 765: il simbolo ne è l’anno di franco (il «ponte»!), di cui ho spiegato più volte la truffa (vedi, p. es. in ArcipelagoMilano Il vero cinquantenario della legge 765. Un obbligo ricordare 26 marzo 2018). Riprendo dalle mie fonti, con invito a ripulire la memoria. Valga per sempre la parafrasi di cui sopra: il ponte avrebbe agganciato l’altra riva addirittura un anno dopo (6 agosto 1968), trascinando il famoso decreto sugli standard dell’aprile. Intanto si è voluto ignorare il requisito fondamentale originario, il varo immediato di una nuova legge urbanistica generale sostitutiva della legge del 1942.
Così abbiamo vissuto mezzo secolo di guerra di caterpillar e betoniere comportante immani distruzioni del retaggio storico (patrimonio materiale e spirituale). L’esistenza di leggi regionali, le più svariate, magari illegali per postulato e in linea col liberismo galoppante è bastata per giustificare la rinuncia a un provvedimento generale unitario. Siamo stati testimoni di fatti gravissimi, avvenimenti urbanistici e edilizi di segno uguale a quelli che l’articolo 17 della legge intendeva bloccare, ovvero una frenesia edificatoria insensata, una babilonia regolata da pazzi speculatori, piccoli (il geometrino del borgo montano) e grandi (gli amministratori delegati di potenti aziende di costruzione e di affari generali), gigantesca estensione della «rapallizzazione» anni Cinquanta: e non solo nei comuni privi di piano regolatore o piano di fabbricazione. Per esempio, in quei dodici mesi in una vasta bellissima china prativa agricola di un paesetto di mezza montagna si poteva veder gettare un pilone di cemento armato o un dado di calcestruzzo o alzare pochi metri di muratura a caso, persino alla vigilia della scadenza della franchigia, per assicurarsi nel prosieguo la costruzione di uno o più edifici, talvolta dotato/i di un falso progetto. Per parte loro, le amministrazioni pubbliche facevano, al meglio, il pesce in barile, per lo più consentirono a ogni manovra o imbroglio.
Convenzioni/contrattazioni. Rileggo Sergio Brenna: «Le "convenzioni non urbanistiche" degli anni Cinquanta-Sessanta, che sfrontatamente ignoravano l'esistenza in vigore della Legge Urbanistica n. 1150/42 - forse ingiustamente vissuta come l'eco lontana di un regime fascista ormai sparito - partivano da proposte edificatorie in luoghi e con quantità edificatorie stabiliti dalle convenienze dei singoli privati sulla base di progetti redatti da tecnici succubi ai loro datori di lavoro e privi di qualunque minima decenza di deontologia professionale. E i Comuni, anche quelli che "contrattavano" più duramente, partivano inevitabilmente da ciò che si vedevano proporre e gli esiti erano quindi sempre modesti». Ma, vien da chiedersi: dove hanno condotto le buone convenzioni anche in regime di Prg? Sergio è stato molto fiducioso in quelle «serie» stipulate con i privati. S’è visto dove siamo andati a finire: il liberismo, il privatismo disinteressato a qualsiasi accordo su direttive pubbliche ha fatto tabula rasa dell’urbanistica (con i suoi urbanisti preparati) anche presso i comuni e altri enti, pur vigente la responsabilità del bene comune. Persino l’Emilia, e Bologna… - Milano: basta un Maran per gettarla nel gorgo dove i serpenti divorano se stessi. I cari accordi di programma, poi, pure puttanate per togliere l’utile, il necessario, il bello pronti per elevare la vita urbana lontana dall’inferno? Accordi scordati infine violenti per materia e atmosfera. I sette scali ferroviari di Milano come i sette peccati capitali.
A Novara ho impedito per i quattro anni del mio mandato accordi impropri coi privati. «Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta amministratori pubblici e urbanisti ritenevano ordinaria utilità proporre a imprenditori e a proprietari di aree destinate a verde pubblico dal piano regolatore la cessione di metà della superficie vincolata, concedendogli sull’altra una cubatura da calcolare, da contrattare, magari fino al limite massimo implicante l’intera area secondo l’indice di edificazione previsto per la zona […] Secondo loro non esisteva altra possibilità di realizzare giardini comunali, ancorché dimezzati rispetto alle previsioni» (da: L’urbanistica del mercato viene da lontano, in ArcipelagoMilano, 14 gennaio 2019).
A Novara, l’intera amministrazione di sinistra 1956-1960 non ha mai ceduto a tale illegalità sostanziale.
L.M.
N.d.C.
Sergio Brenna è stato professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano.
Tra i suoi libri: De Finetti 1946-1952. L'urbanistica dilatata di un pubblico amministratore schumpeteriano (Euresis, 2003); La città: architettura e politica (Hoepli, 2004); Milano, dall'esterno e da lungi (Gangemi, 2006); La strana disfatta dell'urbanistica pubblica. Breve ma veridica storia dell'inarrestabile ma controversa fortuna del privatismo nell'uso di città e territorio (Maggioli, 2009); La strada lombarda. Progetti per una Milano città madre della propria cultura insediativa (Gangemi, 2010).
Per Città Bene Comune ha scritto: La strana disfatta dell'urbanistica pubblica (7 aprile 2016); Roma: ennesimo caso di fallimento urbanistico (10 marzo 2017)
Lodovico Meneghetti, già professore ordinario al Politecnico di Milano, presso lo stesso ateneo è stato direttore del Dipartimento di progettazione dell'architettura e fondatore, con Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, dell'Archivio Piero Bottoni. Con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino ha realizzato, dal 1952 al 1969, opere di architettura, urbanistica e design. Autore di saggi e libri sui problemi del territorio, della città e dell'abitazione, sulla cultura architettonica e urbanistica, dal 2003 è opinionista di eddyburg.it. Sulla sua opera, v. in part. D. Vitale (a cura di), Le stagioni delle scelte. Lodovico Meneghetti architettura e scuola (Il Poligrafo, 2011).
Tra i suoi libri: Architettura e paesaggio: memoria e pensieri (Unicopli, 2000); La partecipazione in urbanistica e architettura (Unicopli, 2003); Parole in rete (Clup, 2005); L'opinione contraria (Clup, 2006); Musica & architettura (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2008); Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura (Maggioli, 2008); Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose (Maggioli, 2010); "Siamo partiti col nostro onore..." Gli emigrati ieri e oggi (Ogni uomo e? tutti gli uomini, 2018).
Per Città Bene Comune ha scritto: Dov'è la bellezza di Milano? Le regole urbanistiche, un valore di civiltà (24 giugno 2015); Casa, lavoro, cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane (16 dicembre 2015); Casa, lavoro, cittadinanza. Seconda parte (17 febbraio 2016); Città metropolitana, policentrismo, paesaggio. Tre imprescindibili aspetti di un nuovo piano (14 luglio 2016); Discorsi di piazza e di bellezza (26 gennaio 2017); Stare con Settis ricordando Cederna (5 ottobre 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 16 GENNAIO 2020 |