IMMAGINARI TURBOLENTI DELLA REALTA’

(recensione di Spazi (s)confinati di Fabio Tarzia e Emiliano Ilardi)

Nella seconda stagione della serie tv Fargo compare Ronald Reagan che, in North Dakota nel 1979, sprona gli elettori verso una rinascita spirituale: «noi che abbiamo il privilegio di essere americani, abbiamo un appuntamento con il Destino da quel lontano 1630 in cui John Winthrop disse a quel gruppetto di pellegrini ‘Noi saremo come una Città sopra una Collina’». È indispensabile perciò che l’America «diventi quella Città luminosa sopra la Collina per una umanità inquieta e afflitta che guarda a noi».

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Un discorso elettorale inframmezzato dalle immagini di una carneficina tra bande criminali rivali. E così lo sceriffo protagonista di Fargo, avvertendo il peso di una situazione difficile, chiede a Reagan: «crede che usciremo dalla crisi in cui siamo?». «Non c’è prova al mondo che un americano non possa superare». «Ma come?». Il candidato si volta ed esce di scena senza rispondere. Prima e dopo questa uscita di scena, nella serie tv e nella realtà, Reagan qualche risposta l’ha data. Subito prima, infatti, ha ribadito al racconto della guerra nel Vietnam fatta dallo sceriffo, citando un film di cui era stato protagonista nella sua carriera di attore, fondendo tragiche vicende e rappresentazione filmica, mostrando come attraverso l’immaginario si possa comprendere la realtà. Divenuto poi Presidente, eroe americano per eccellenza, Reagan ha indicato la direzione da seguire per «far ricominciare il mondo daccapo»: rimuovere gli ostacoli che il governo ha messo sulla strada degli individui e continuare la guerra al comunismo, intensificarla, vincerla anche attraverso il dominio garantito dallo scudo spaziale. In queste scene della serie tv e nell’azione politica di un Presidente è racchiuso tutto il motore della storia americana: l’immaginario e le sue diverse dinamiche.

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Nel volume Spazi (s)confinati (manifestolibri, 2015, pp. 413), i sociologi della cultura Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi sostengono la tesi della centralità dell’immaginario nella storia degli Stati uniti e in tale ottica indagano quel «grande sistema comunicativo che, attraverso una strumentazione metaforica e allegorica, e un utilizzo del più svariato ventaglio di linguaggi, dà forma (attraverso i media) alle strutture culturali profonde e funge da mediazione tra queste ultime, gli individui e le trasformazioni storiche». Lo sconfinamento reaganiano tra il cinema e la realtà, l’attore e il politico dà conto di una forza dell’immaginario altrove storicamente molto più debole ovvero sostanzialmente alternativo rispetto alla realtà (quasi una compensazione rispetto ad essa). Ci pare perciò davvero apprezzabile il tentativo compiuto in Spazi (s)confinati di indagare il ruolo del fattore-chiave immaginario. E di farlo sganciandolo da quella critica tipicamente marxista che lo relega a mera sovrastruttura determinata e funzionale alle dinamiche dell’economia capitalista. L’immaginario – pur non essendo l’unico fattore del mutamento sociale così come per McLuhan non lo erano i media – gioca un suo ruolo autonomo e in forza di questa autonomia interagisce con altri fattori, tipo quelli economici, a volte indirizzandoli in determinate direzioni. Inoltre, coraggiosamente, i due autore indagano le dinamiche dell’immaginario americano nel lungo periodo, mostrandone splendori e miserie, momenti di gloria e crepe dall’arrivo dei Padri Pellegrini all’affermazione di Barack Obama.

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Le parole e le azioni di Reagan ci mostrano, inoltre, come il sentimento di un «Destino Manifesto» derivato dal puritanesimo, da un lato, e la conquista dello spazio derivato dall’esperienza della frontiera, dall’altro, siano riconoscibili come le grandi matrici di sviluppo dell’immaginario yankee.  Ciò dalla sua origine e sino almeno all’esaurimento della spinta propulsiva offerta dalle vittorie nelle due guerre mondiali. Poi qualcosa si è incrinato: il Vietnam ha forse rappresentato il momento in cui l’America è stata chiamata più che in altre occasioni a prendere atto delle crepe del suo edificio. Lo spazio della giungla asiatica non è stato conquistato e dunque neppure riconsacrato. Il nemico, che l’America ha sempre assolutizzato (dalle streghe ai «demoni» rossi, dai gialli vietcong ai terroristi islamici), non è stato punito. E molti figli della nazione eletta non sono più tornati alle loro case, nella loro Città sulla collina, se non dentro body bags. La nazione non è riuscita più a manifestare la sua elezione, la sua predestinazione, il suo Destino.

Una crisi che continua anche nella società globale di oggi, nella quale il ruolo degli Stati uniti non è ben definito, oscillando tra interventismo eccessivo e isolazionismo, rappresentazione del grande Satana e faro di democrazia. Dopo l’11 settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq, non siamo più stati tutti americani. L’America non riesce più ad affermare la sua egemonia culturale prima che politica in un mondo multicentrico e turbolento. Un mondo in cui l’ibridazione con l’alterità è diventata la regola, non si riconosce più nel meccanismo di chiusura e apertura, di distinzione e conquista che l’immaginario americano ha dispiegato nel passato. Può l’America riconquistare un ruolo definito in questo mondo? Spazi (s)confinati non offre una risposta univoca; si limita a richiamare l’attenzione sulla capacità di reinventarsi che l’immaginario americano ha mostrato nel corso del tempo. Nella loro ricostruzione gli autori sostengono, tra l’altro, che in America non è mai emersa una sfera pubblica capace di mediare le diversità. Negli spazi sconfinati della frontiera al massimo si è manifestata una pubblicità senza sfera pubblica. In tal modo, però, non si avvedono di utilizzare un metro tutto «continentale» per interpretare un fenomeno che – come loro stessi mostrano – a quel metro non si può riportare. Non una sfera pubblica di tipo argomentativo o in generale costruita sulle grandi fratture ideologiche ma una sfera pubblica fatta di single issue, agitazioni emotive, filamenti di immaginario, forse effimera ma non meno significativa, ha improntato la politica negli Stati uniti. Su questa base non è escluso che gli States possano ritrovare un ruolo nell’epoca delle sfere pubbliche diasporiche che, come insegna Arjun Appadurai, sono giocate proprio sull’immaginario.

(apparsa parz. su il manifesto 20 marzo 2016)

UNO SGUARDO DI SBIECO SUL TERRORE

(recensione a Paura reverenza terrore di Carlo Ginzburg)

Dal crollo – ancora vivido nei nostri occhi – delle Torri gemelle a New York agli attentati recenti nei luoghi del loisir di Parigi, passando per le torture nel carcere di Abu Ghraib e le decapitazioni sceneggiate dall’Isis, da anni siamo sommersi da immagini forti che incutono terrore. Ma proprio a questo riguardo, Carlo Ginzburg nel suo ultimo libro Paura reverenza terrore (Adelphi, Milano, 2015, pp. 311) invita a tentare di “sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato”.

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Da storico attento alle rivelazioni contenute nei frammenti, Ginzburg analizza cinque immagini dense di storia: le decorazioni su una coppa d’argento dorato, fatta ad Anversa e databile al 1530 circa; il frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes; il quadro di Jacques-Louis David, Marat all’ultimo respiro; il manifesto Britons. Join Your Country’s Army! con il volto di lord Kitchener; infine, il celebre murale Guernica di Pablo Picasso. Dettagli visivi della Storia che guardati di sbieco rivelano quelli che sono stati i fili che hanno intessuto la modernità occidentale.

Questi saggi di iconografia politica scavano le immagini per rintracciarne le sedimentazioni accumulate. In particolare, trattandosi di emozioni estreme, Ginzburg riprende come strumento di analisi il concetto di Pathosformeln elaborato da Aby Warburg: il Rinascimento ha recuperato dall’antichità greco-romana modelli visivi per esprimere una gestualità patetica intensificata. Rinvenire questi modelli, intrecciando diagrammi e giustapposizioni formali, genealogie e morfologie, permette di portare alla luce le radici classiche di immagini moderne e il modo in cui quelle radici sono state rielaborate e sono servite per interpretare i problemi della modernità.

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Nel frontespizio del Leviatano, l’incisore Abraham Bosse, su indicazione di Hobbes, inserì a destra di chi guarda piccole figure di due medici della peste con la caratteristica maschera a becco ritenuta necessaria a proteggere dal morbo. Un dettaglio rivelatore però di un’influenza decisiva per la strutturazione dell’intero pensiero politico di Hobbes: la lettura di Tucidide che, descrivendo la peste che colpì Atene nel 429 a.C., segnalò come “la paura degli dèi e le leggi umane non rappresenta[ssero] più un freno” agli istinti elementari dei cittadini e come ciò portasse alla distruzione della comunità. Si dà il fatto che Hobbes fosse stato un traduttore di Tucidide e avesse reso il passo con neither the fear of the gods, nor laws of men awed any man (né il timore degli dei né le leggi degli uomini incutevano più soggezione). Nel Leviatano, awe è ciò che origina sia la religione sia, e soprattutto, lo Stato. La paura degli dèi di Tucidide, per il traduttore Hobbes, rimanda al biblico timor di Dio che, a sua volta, traduce l’ebraico yir’ah, reso in italiano con reverenza. Reverenza che deriva dal latino vereor cioè temere. La vera traduzione di awe potrebbe essere dunque terrore, come Hobbes stesso suggerisce essendo il Leviatano “in grado di usare a tal punto il potere e la forza che gli sono stati conferiti, da piegare con il terrore la volontà di tutti” coloro che lo costruiscono e lo guardano con soggezione e reverenza, come la miriadi di uomini fanno nell’immagine del frontespizio.

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In questo nodo tra teologia e politica, tra pastorale e spada, si rivela la contraddittorietà della secolarizzazione che “non si contrappone alla religione: ne invade il campo. Le reazioni alla secolarizzazione che si manifestano sotto i nostri occhi si spiegano (ho detto spiegano, non giustificano) alla luce di questa usurpazione”. E ancora: “viviamo in un mondo in cui gli Stati minacciano terrore, lo esercitano, talvolta lo subiscono. È il mondo di chi cerca di impadronirsi delle armi, venerabili e potenti, della religione, e di chi brandisce la religione come un’arma. Un mondo in cui giganteschi Leviatani si divincolano convulsamente o stanno acquattati aspettando. Un mondo simile a quello pensato e indagato da Hobbes”. E forse le cose sono ancora più complicate, forse invece del Leviatano bisognerebbe riferirsi all’Idra dalle tante teste per cogliere lo scontro tra la paura organizzata nell’entità statale e le tante paure scatenate nel nostro mondo multicentrico e turbolento.

Indispensabile è dunque scavare le immagini del presente, decifrarle per tentare di comprenderlo. Perché come insegnava Tacito fingunt simul creduntque, credono in ciò che hanno appena immaginato ovvero: siamo soggiogati da visioni di cui noi stessi siamo gli autori. Conviene dunque non esserne autori inavvertiti e affrontare il piano delle emozioni di massa in cui si spandono le paure e le immagini di terrore dei nostri giorni.

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DUBAI E GLI SCARTI DI UNA CITTÀ BRILLANTE

Dubai non è certamente una città che ci dice da dove veniamo. È, invece, sicuramente una città che ci dice dove andiamo. E lo dice con lucidità perché è una città brillante. Una brillantezza non trasmessa dal mare trasparente e amniotico che ne ha segnato la storia come porto franco nelle rotte dei commerci verso il lontano Oriente o come risorsa per pescatori di perle. Una brillantezza non dovuta neppure a quel particolare labirinto borgesiano che circonda la città e la cinge: la sabbia levigata del deserto è indubbiamente abbagliante per i viaggiatori occidentali ma non ha la compattezza dello specchio che induce riflessione. Né il deserto né il mare spiegano (almeno non del tutto) la particolare brillantezza che caratterizza Dubai. Qualcos’altro ne segna irrimediabilmente il profilo e la superficie. Qualcosa che non si può definire bellezza naturale. Qualcosa in tutto e per tutto legato al lavorio dell’uomo, al suo voler e saper costruire una seconda natura in cui immergersi e abitare quotidianamente. Qualcosa che fonde i materiali edilizi per eccellenza degli ultimi secoli: il cemento, l’acciaio e il vetro. Qualcosa che si erge potente a riformulare la piattezza di un paesaggio segnato, ancora nella seconda metà del secolo scorso, solo dal mare e dal deserto. La brillantezza è dovuta a quelle sfide al cielo che sono i grattacieli con le loro superfici levigate e splendenti. E poiché l’umidità che viene dal mare e la sabbia che viene dal deserto impediscono un sole accecante, la luce che emana da Dubai è come interiore agli enormi edifici che si ergono in ogni zona della città, da quelli che costeggiano la parte più interna del Dubai Creek a quelli di Jumeirah, da quelli lungo la Sheikh Zayed Road agli eleganti alberghi di Dubai Marina.

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La forza dei grattacieli di Dubai si esprime non solo nel costruito, in ciò che ormai è consolidato negli immaginari globali come il Burj al-Arab (l’hotel a sette stelle conosciuto come “la vela”) o il Burj Khalifa (il grattacielo più alto al mondo con i suoi 828 metri, sulle cui lucenti superfici Tom Cruise svolge la sua mission impossible), bensì anche nei moltissimi cantieri aperti in ogni dove, con le gru pronte a sollevare sempre nuove cattedrali di fronte al deserto in quello che è il più grande esperimento di urbanistica offshore del mondo. Cantieri che si fermano giusto poche ore al giorno quando la temperatura raggiunge le sue punte massime arrivando anche a cinquanta gradi. Cantieri che mostrano un ventre della città palpitante anche al calar del sole, davvero come se fossero ulteriori zone di movida notturna.

Lo sviluppo ininterrotto di Dubai è dovuto a tre vettori che si sono saldati: il petrolio e il gas certamente (anche se quello di Dubai è il meno esteso degli Emirati Arabi Uniti), il turismo cosmopolita e anche in transito verso l’estremo Oriente, la finanza globale che qui apre succursali e fa affari con gli sceicchi. Un quarto vettore, più recente ma assai promettente, è rappresentato dalle tecnologie di comunicazione con la costruzione di Dubai Media e Internet City dove i grandi big – dalla Microsoft alla Apple – hanno ormai loro importanti sedi. Petrolio, turismo, finanza e tecnologia: vettori che nei grattacieli trovano l’espressione plastica della loro potenza. Tutto ciò rende Dubai una città lucida, addirittura brillante. Una delle città globali del turbo capitalismo, che ha subito una frenata negli ultimi anni ma che ha già ripreso la corsa.

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Questa brillantezza di Dubai, espressa verticalmente dai suoi grattacieli, non è però immune da polarità, da increspature che, da un lato, mostrano con ancora maggior vigore la condensazione del potere globale, dall’altro, ne rivelano gli irriducibili scarti. Gli sceicchi di Dubai hanno saputo realizzare un controllo profondo sulla natura ricalcando il modello presentato nel film Salmon fishing in Yemen di Lasse Hallstöm, nel quale uno sceicco yemenita pretende di portare i salmoni nella sua terra. A Dubai sono riusciti invece a portare una pista da sci nel cuore del deserto. Nell’Emirates Mall, infatti, si può risalire con la seggiovia a quattro posti nelle stazioni in cima a quella che è una delle piste indoor più alte del mondo e fare lo slalom sulla “vera” neve caduta nel corso della notte. La neve nel deserto è emblema della capacità di costruire una seconda natura, di porre una troppo umana “sfida luciferina alla Natura” così come della possibilità di tenere insieme gli opposti e proporne una lucida sintesi.

Una sintesi che non viene messa in discussione neppure dai souq e dalle dimore delle zone storiche come Deira e Bastakiya. Infatti, se ritmi, colori, odori, suoni e materiali possono rinviare alle tradizionali città arabe, il tutto è confezionato e servito con attenzione postmoderna ai dettagli. Così le poche torri del vento delle case tradizionali sono restaurate o ricostruite con precisione. Nulla rimanda alle crepe del tempo trascorso. Nulla può passare per rovina piranesiana. Così i souq, dove pure si svolge un’intensa attività di contrattazione su beni di ogni tipo appena scaricati dai variopinti dhow, sono inquadrati da bei portici e inseriti in ben curate infrastrutture frutto del premuroso intervento dei governanti. Nulla è lasciato al caso, all’imprevisto. Neppure lasciando le strade principali e avventurandosi in stradine secondarie si sfugge al capitale globale: gli salesman, che acchiappano al volo i clienti per condurli nei loro bugigattoli abusivi, mostrano e cercano di vendere abiti o orologi che non sono altro che imitazioni più o meno perfette di quei marchi globali che si ritrovano nei tanti centri commerciali in cui si vive a Dubai e che rappresentano infatti la location principale in cui si svolge la vita pubblica delle donne arabe raccontate nel romanzo più venduto in città, Desperate in Dubai della blogger conosciuta con lo pseudonimo Ameera Al Hakawati. Insomma, the show must go on, sotto le volute degli shopping mall o sotto forma di contraffazione e vendita abusiva. Il logo vince sempre.

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O quasi. Perché la brillantezza di Dubai, che riesce a costruire persino poli dialettici per poter poi presentare sintesi più complete e avvincenti, non riesce a emanare dagli occhi dei filippini, degli indiani, dei pachistani, degli africani che si incontrano nei ristoranti, nei taxi, nei souq o che si vedono da lontano nei cantieri dei prossimi giganti di vetro e acciaio. Quando si parla con costoro e si viene a sapere che lavorano dodici ore al giorno a un euro all’ora (o anche meno), quella brillantezza si offusca. Quando il taxista, nonostante lavori dalle 5 del mattino per dodici-quattordici ore consecutive, fa notare la sua condizione fortunata rispetto agli operai dei cantieri che sono costretti a lavorare all’aperto e cioè dentro il forno acceso dalle condizioni climatiche di Dubai, ci si rende conto che quelle superfici brillanti nascondono delle ombre profonde. Che la sintesi non è perfetta e anzi la società rimane letteralmente scissa in universi paralleli: gli sceicchi sempre con l’aria condizionata e gli schiavi sempre al caldo asfissiante. Ecco su queste vite di scarto si infrange quella luce che viene fuori mirabilmente dall‘hybris dell’uomo postmoderno. E qui dove il regno è dinastico e la democrazia non esiste, ci si ricorda che a fare la differenza è una dimensione politica che rappresenta ancora la speranza di riconoscere quelle che nella brillante Dubai appaiono purtroppo irrimediabili e irredimibili vite di scarto.

twitter @antonio_tursi

Tre testi interessanti su Dubai:
Petti, Alessandro, “La città dei Morti al Cairo vs The World a Dubai”, Gomorra. Territori e culture della metropoli, n. 10 (Mediterranei), maggio 2006, pp. 114-120.
Sedda, Franciscu, “Esplorando Dubai. Appunti semiotici su una città in divenire”, in Marrone, Gianfranco e Pezzini, Isabella (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d’analisi, Meltemi, Roma, 2008, pp. 245-264.
Siti, Walter, Il canto del diavolo, Bur-Rizzoli, Milano, 2009.