LA POLITICA POP ONLINE

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In questi giorni di coronavirus, stanno circolando in modo virale simpatici meme di politici italiani alle prese con parole e immagini della più stretta attualità.

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Occasione giusta per segnalare il volume di Gianpietro Mazzoleni e Roberta Bracciale, La politica pop online (il Mulino, Bologna, 2019, pp. 152) che riprende il concetto di politica pop, riconoscibile nell’ibridazione tra fatti politici e frammenti della cultura popolare, già esplorato una decina di anni addietro da Mazzoleni e Sfardini, e lo attualizza nel nuovo scenario dei social media. Un agile volume di messa a fuoco del quadro d’insieme della comunicazione politica online e di un suo particolare ma decisivo elemento: i meme, artefatti culturali che i pubblici connessi creano, diffondono e riutilizzano sulle reti telematiche. Molto spesso si tratta artefatti legati alle varie declinazioni del comico, dall’umorismo al sarcasmo.

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Un lavoro che evidenzia in modo equilibrato diverse questioni interessanti. Due in particolare meritano un richiamo:

1) la politica pop online presenta un profilo ambivalente: da un lato, sdogana il politicamente scorretto, anche nelle sue forme peggiori ed eccessive legate alla denigrazione e all’intolleranza (segnando dei rischi per il dibattito democratico); dall’altro, apre le porte a “forme più désengagé di partecipazione”, a una partecipazione non convenzionale che comunque avvicina pubblici lontani dalla politica tradizionale.

2) la politica pop online e i meme in particolare possono essere ben utilizzati sia dalla destra che dalla sinistra. I due casi emblematici di processi di memizzazione che chiudono il libro sono rappresentati dall’utilizzo di Pepe the Frog da parte di Trump e dell’immagine in quadricromia con la scritta Hope da parte di Obama.

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Un volume a cui avrebbe sicuramente giovato un approccio teorico più denso, possibile sia restando nel campo dei media studies (per esempio, ci si sarebbe potuti giovare maggiormente dell’insegnamento di Jenkins) sia attingendo a riferimenti più ampi (per esempio, le forme carnevalesche descritte da Bachtin avrebbero gettato luci più brillanti sui problemi del presente).

L’EUROPA SMARRITA

Robert Musil, tra i maggiori scrittori del Novecento, si interroga sulla crisi della cultura europea negli anni intorno alla Grande guerra. Una crisi che, anzi, dell’immane catastrofe bellica può essere considerata prodromo. Tre suoi saggi del periodo postbellico, riuniti sotto il titolo quanto mai significativo di L’Europa smarrita (Meltemi, pp. 314, eur 20), offrono numerosi spunti di riflessione, alcuni dei quali vere e proprie illuminazioni utili ad osservare il nostro presentegrande guerra

Rispetto all’avanzata odierna dei nazionalismi, Musil liquida le categorie di nazione e di razza. Lo slogan “prima gli italiani” non può aver senso se “le nazioni sono un miscuglio di razze” (p. 151). La categoria di razza, a sua volta, non è che un feticcio mistico, un’illusione, un’astrazione perché la razza “non ha altra possibilità di assumere un’esistenza concreta se non tramite degli individui, e non esercita altro effetto se non quello degli individui” (p. 153). Musil ripudia la logica tassonomica attraverso la quale si inventano le razze. Persino in botanica – aggiunge – la distinzione tra le specie di rose è incerta. Figurarsi quella tra gli esseri umani.

A fronte, dell’essenzialismo pericoloso della razza, lo scrittore austriaco intravvede un uomo “mancante di forma, inaspettatamente malleabile, capace di ogni cosa” (p. 185). Da qui il monito: “non si dovrebbe ritenere sempre che si fa ciò che si è, bensì che si diviene ciò che si fa. Il monaco fa l’abito, ma anche l’abito fa il monaco” (p. 215).

A fare la differenza, è la contingenza della storia. Di essa non è indicabile un motore decisivo e propulsivo che ne orienta il corso in modo lineare e progressivo. La storia è un continuum incerto, “che solo in determinati punti si manifesta per condensazione o, si potrebbe dire, che a determinate condizioni precipita” (p. 209) in una configurazione designabile come “epoca”. Punti e condizioni che vanno ricercati nelle periferie, nelle circostanze, negli accidenti che un’impostazione rigidamente storicistica rischia di non riuscire a cogliere, appianandoli invece su una sola e determinata struttura, mentre il presente “si svolge su anelli politici, economici, culturali, biologici e illimitatamente su molti altri anelli, ciascuno dei quali con cadenza e ritmo propri” (p. 125).

Questa indisponibilità a ricondurre la storia a binari predeterminati e univoci, a categorie astratte e semplificatrici, porta Musil a cogliere il suo tempo nella molteplicità esasperante delle sue sfumature. “Un manicomio di proporzioni babiloniche: da mille finestre mille diverse voci, pensieri, musiche urlano all’unisono contro il passante, ed è evidente che l’individuo diviene il collettore di motivi anarchici e la morale si sfarina assieme allo spirito. Ma nei seminterrati di questo manicomio martella la volontà di creazione di Efesto, si realizzano i sogni primordiali dell’umanità, il volo, gli stivali delle sette leghe, la capacità di vedere attraverso i corpi solidi e un incredibile numero di fantasie della stessa risma, che nei secoli scorsi erano i più beati sogni della magia; il nostro tempo crea questi prodigi, ma non li percepisce più come tali” (pp. 239-241). Una descrizione perspicua e anticipatrice di tutto quello che sarà il secolo breve per come lo stesso Hobsbawm lo ha raccontato nel suo ormai classico volume storiografico.

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Forse però una descrizione che continua ad aver presa sul nostro presente, incapace di trovare una via d’uscita da un disordine politico globale e da una contemporanea proliferazione di innovazioni tecno-scientifiche che innervano impercettibilmente la nostra vita quotidiana. Musil ci aiuta così a cogliere lo smarrimento culturale di allora che forse è simile a quello di oggi o addirittura si riverbera su quello di oggi. E ci indica, con la sua intransigente confutazione degli schematismi, la necessità sempre rinnovata di forgiare categorie all’altezza delle sfide che i tempi pongono, categorie capaci di interpretare la nostra vita in tutta la sua complessità. Ecco dunque che la nostra Europa smarrita, l’Europa del nostro millennio, può ritrovarsi, può reinventare sé stessa solo riuscendo a comprendere la connessione tra il proprio passato che continua ad avere influenza e le circostanze del presente. Senza nostalgie o mitologie ma con la fatica di un pensiero che leghi concetti e sentimenti, scienza e vissuto, intelletto e anima ed eviti così di sottovalutare i presupposti, i presagi, i segnali di una sempre possibile nuova catastrofe.

COME LA CRISI ECONOMICA CAMBIA LA DEMOCRAZIA

Dalla bancarotta della Lehman Brothers nel 2008 al 2015, siamo stati colpiti da una Grande Recessione, caratterizzata dall’instabilità dei mercati finanziari, dal declino del prodotto interno lordo, da un aumento della disoccupazione e da una prolungata bassa crescita o addirittura da stagnazione. Ad aver pagato il conto in modo più salato sono stati quei paesi con situazioni economiche già deboli, soprattutto dopo che la crisi finanziaria si è trasformata in crisi del debito sovrano. Cosi, in ambito europeo, ne hanno risentito maggiormente i paesi dell’Europa meridionale che affacciano sul Mar Mediterraneo, come Portogallo, Spagna, Italia e Grecia.

Su questi paesi puntano l’attenzione Leonardo Morlino e Francesco Raniolo, autori di “Come la crisi economica cambia la democrazia. Tra insoddisfazione e protesta” (il Mulino, 2018, pp. 212, euro 19), uscito in una precedente versione inglese con il titolo “The Impact of the Economic Crisis on South European Democracies”. Gli autori valutano la possibilità che la Grande Recessione non riguardi solo la sfera economica ma coinvolga anche le strutture politiche e, in particolare, quelle dimensioni di partecipazione e competizione che contrassegnano i regimi democratici.

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Per comprendere questa relazione tra crisi economica e strutture politiche, è utile partire da tre assunti. In primo luogo, i regimi democratici dei paesi considerati sono da ritenersi stabili. Diversamente dalla Grande Crisi del 1929, non siamo in presenza e ne possiamo aspettarci un crollo delle democrazie. Insomma, cogliere le trasformazioni in atto (innegabili e non per forza da valutare positivamente) non deve portare a ingiustificate grida d’allarme su svolte autoritarie. In secondo luogo, a più riprese è segnalata l’importanza del background, delle tradizioni, della path dependency dei processi in atto: le stesse variabili intervenienti (la Grande Recessione) non producono gli stessi risultati in contesti diversi. Di conseguenza, in terzo luogo occorre rigettare “una visione deterministica e teleologica dei fenomeni sociali” per cui a determinate cause corrispondono necessariamente determinati effetti. Non solo gli effetti della crisi economica sulla democrazia sono tutti da cogliere e valutare, ma è possibile anche che una fase percepita come indebolimento del sistema si riveli latrice di opportunità utili a rivitalizzare il sistema stesso.

Queste premesse portano ad assumere un’ottica per cui la Grande Recessione ha un effetto catalizzatore, cioè amplifica e accelera tendenze e fattori più o meno latenti comunque già presenti nei sistemi politici. Di conseguenza, i modelli osservabili nei quattro paesi considerati sono diversi: in Portogallo, si è osservato un aumento dell’alienazione dei cittadini dalla partecipazione politica con un paradossale rafforzamento dei partiti tradizionali;

 

in Grecia e in Spagna, si è assistito a una forte mobilitazione non convenzionale con proteste sociali e manifestazioni e a una successiva istituzionalizzazione dei movimenti (con Syriza e Podemos, in particolare); in Italia, la stabilizzazione partitica è stata immediata con la nascita di un non-partito, il Movimento Cinque Stelle.

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In generale, si può concludere che è riscontrabile “certamente un significativo indebolimento dei modi tradizionali di partecipare e competere dentro e fuori i partiti. In questa prospettiva, la crisi economica si sovrappone e amplifica la crisi politica dei partiti tradizionali” a vantaggio di nuovi partiti di protesta – espressione preferita alla generica etichetta di neopopulisti. I quali se, da un lato, hanno radicalizzato la competizione politica a svantaggio di progetti a lungo termine, dall’altro, hanno ancorato gli elettori insoddisfatti e “trasformato la protesta in partecipazione istituzionalizzata” incanalandola nelle procedure democratiche. Le democrazie contemporanee mostrano così una “intercambiabilità dei canali di intermediazione” con i cittadini che “in ogni momento scelgono il modello più semplice e potenzialmente più efficace” per far sentire la propria voce e partecipare alla vita pubblica: dalle piazze alle piattaforme digitali al voto tradizionale.

Questa intercambiabilità potrebbe valere non solo per i mezzi utilizzati ma anche per i risultati sperati ovvero per le fratture (i cleavages) che spingono all’azione i cittadini. Gli autori si soffermano più volte sulla ridefinizione dei cleavages, sulla loro moltiplicazione. Al classico sinistra vs destra (che l’aumento delle diseguaglianze riporta in auge), si affianca la frattura tra esclusi vs vincitori della globalizzazione. Ma hanno un importante rilievo anche le divisioni giovani vs anziani, centro vs periferia e quelle che forse hanno determinato l’esito di alcune recenti tornate elettorali: pro vs contro Europa e establishment vs anti-establishment. Se non è possibile riportare tutte queste fratture a una Grande Frattura capace di spiegare tutto (come era nel caso della grande narrazione progressista otto-novecentesca) nondimeno è necessario cogliere l’articolazione dinamica delle faglie contemporanee. Attualmente pare, infatti, che la competizione politica si articoli su una intercambiabilità tra ciò che era struttura e ciò che era sovrastruttura, tra temi materialistici e postmaterialisti o con terminologia più recente tra istanze di ridistribuzione e istanze di riconoscimento. Con cittadini che, in frangenti successivi, compongono le proprie domande muovendosi lungo differenti binari, mescolando richieste diverse. Questa flessibilità dei cittadini (di cui la volatilità elettorale è una sorta di sintomo) carica ulteriormente le forze politiche di responsabilità poiché le loro parole (la loro offerta) non è semplicemente reattiva rispetto alle domande dei cittadini, bensì stimola e induce alla formulazione delle domande stesse, come dimostrano appunto i nuovi partiti di protesta. In altre parole, le forze politiche che vogliono essere egemoni devono farsi carico di un concetto di rappresentanza che non è mero rispecchiamento di realtà già date ma costruzione di progetti futuri. Piuttosto che portare lamenti sulla crisi della rappresentanza, la Grande Recessione potrebbe così indurre gli attori politici ad essere consapevoli di un concetto di rappresentanza più articolato e, in questo modo, finirebbe con il dare nuova vitalità alle nostre democrazie.

 

DIECI NUMERI SUL VOTO DEL 4 MARZO 2018

Fonti:

*Itanes, Vox populi. Il voto ad alta voce del 2018, il Mulino, Bologna 2018.

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*Bordignon F., Ceccarini L., Diamanti I., Le divergenze parallele. L’Italia: dal voto devoto al voto liquido, Laterza, Bari-Roma, 2018.

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26,7% volatilità elettorale (cambiamento scelta di voto). Un dato, quello del 2018, che segue un’elezione già molto movimentata, quella del 2013, con volatilità del 36,7% (nella storia repubblicana, solo le elezioni del 1994 (39,3%) hanno segnato un tasso superiore a quelli del 2013 e del 2018).

 

5% fiducia nei partiti (valore stabile tra il 2013 e il 2018).

 

23% salienza immigrazione (cittadini che indicano il tema come primo o secondo problema da affrontare, nel 2013 erano solo il 4%).

 

72% elettori fedeli al M5S (che hanno confermato il voto del 2013).

 

57% disoccupati votanti M5S (per Itanes: 37,9% tra disoccupati o in cerca di occupazione, percentuale comunque molto più alta rispetto a quelle ottenute dagli altri partiti nello stesso segmento).

 

104 su 111 i collegi in cui la Lega ha il primato rispetto a Forza Italia sul numero totale di collegi vinti dal centro-destra (111 appunto).

 

16 su 40 i collegi vinti dal centro-sinistra nell’ex Zona Rossa (sarebbero stati 36 su 40 con i risultati del 2013).

 

10% operai votanti PD (41% quelli votanti M5S, per Itanes: 34,8%). Il 58% degli operai è favorevole al reddito di cittadinanza e il 57% alla flat tax.

 

34,1% indica la Rete come principale fonte di informazione politica (rispetto al 44,1% che indica la Tv). Nel 2013 la Rete era indicata dal 7,8%.

 

20% coloro che dichiarano di interagire con opinioni simili alle proprie sui social media (isolamento ideologico o bolla). Nelle cerchie sociali (discussioni offline) il 42% dichiara di interagire con opinioni simili alle proprie (per Itanes addirittura l’80%).

 

 

L’ULTIMO PARTITO

Uno, nessuno o una pluralità di partiti? Cosa ha rappresentato il Partito Democratico nei suoi dieci anni di storia avviata dalle primarie del 14 ottobre 2007 e forse finita con le elezioni del 4 marzo 2018? Nato dalla fusione tra, soprattutto, Democratici di sinistra e Margherita, il PD è stato un partito riuscito o un partito mancato? Con quali criteri valutare la più recente e, forse, ultima testimonianza di una razza in via di estinzione, quella dei partiti? Su questi interrogativi è costruito il volume “L’ultimo partito” dei politologi milanesi Paolo Natale e Luciano Fasano (Giappicchelli, 2017, pp. 163, euro 17), che raccoglie e mette in ordine una grande quantità di dati riguardanti il consenso elettorale (tanto nazionale quanto locale), le primarie, gli organismi centrali (assemblea, direzione, segreteria) e i gruppi parlamentari che hanno segnato la storia decennale del PD, prima del tracollo nelle recenti politiche.

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Gli autori dichiarano che si può “vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto” e concludono l’analisi con un punto di domanda “un partito mancato?”. Non si può non riconoscere come il PD abbia rappresentato la forza centrale dell’ultimo decennio della politica italiana: ha espresso i presidenti della repubblica, ben quattro presidenti del consiglio sui sei succedutisi, è stato al governo nazionale per quasi sette anni degli ultimi dieci, ha governato quasi tutte le regioni e un numero incredibilmente alto di città, ha varato riforme importanti e ne proposto altre assai ambiziose, ha continuato a rappresentare una comunità di forte mobilitazione con migliaia di iscritti e milioni di  partecipanti alle primarie.

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Nonostante tutto questo, Natale e Fasano spingono a “guardare prevalentemente ai limiti del PD, invece che ai risultati positivi che ha ottenuto, [in quanto ciò] può essere utile, quanto meno provocatoriamente, a interrogarsi in maniera più profonda sui problemi che questo partito ancora incontra” e che le ultime elezioni hanno impietosamente evidenziato. Il termine politologico chiave di questa interrogazione profonda ci pare essere “istituzionalizzazione”, quel tipico processo che porta un’organizzazione a consolidarsi, a diventare progressivamente un soggetto dotato di vita propria, un soggetto i cui scopi e valori di riferimento risultano riconoscibili tanto da rappresentare un’identità stabile e solide barriere all’uscita. Il livello di istituzionalizzazione del PD è stato scarso, si è trattato di “un partito vittima di una continua incompiutezza”. Avvicendamenti nella leadership (ben cinque segretari in dieci anni, sei con il reggente Martina), scissioni o almeno continue defezioni, cambiamenti repentini di linea politica, eccessiva litigiosità tra le varie correnti – hanno messo in evidenza come il PD non sia stato affatto un partito ma semmai una pluralità di partiti. E ciò non ha riguardato solo l’eredità delle tradizioni post-comunista e post-democristiana (anzi l’aumento del numero di nativi democratici negli organismi dirigenti è parso permettere il superamento di questa anomale origine) ma la presenza di anime diverse la cui conflittualità si è intensificata piuttosto che raffreddata con il passare degli anni. Nel PD hanno sempre convissuto, secondo la terminologia proposta da Henry Drucker, un’anima etico-egualitaria, un’anima socialdemocratico-laburista e un’anima democratico-riformista che solo a tratti hanno trovato equilibrio e coesione. Differenti poi, se non inconciliabili, sono stati gli orientamenti su questioni economico-sociali (pro-labour o pro-market) e questioni etico-valoriali (pro-life o pro-choice). Tradizioni, anime e orientamenti diversi che hanno disegnato almeno tre partiti diversi: il partito amalgama di Veltroni, leggero e parlamentarizzato, riformista e a vocazione maggioritaria; il partito old-style di Bersani, strutturato e centralizzato, socialdemocratico e a vocazione identitaria; il partito pragmatico di Renzi, incentrato sul leader e capace di utilizzare tutte le risorse disponibili (finanche l’alleanza con Verdini) per conseguire i risultati desiderati. E ad ogni cambio di segreteria sono cambiati i valori guida, l’impianto organizzativo e persino l’elettorato di riferimento.

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Gli esiti dell’incompiuto processo di istituzionalizzazione sono stati perciò, da un lato, una scarsa capacità di prendere decisioni e, dall’altro, una sostanziale disorganicità tra i suoi diversi livelli organizzativi e territoriali. Da un lato, il partito si è riprodotto come partito delle primarie, che hanno mobilitato milioni di elettori e che sono riconosciute dagli stessi iscritti come costitutive e irrinunciabili, ma che hanno finito con l’essere percepite come un fine piuttosto che un mezzo: cosa che tra l’altro ha indotto calo di partcipanti e accentuazione degli sbilanciamenti territoriali (meridionalizzazione). Dall’altro lato, si è sempre riscontrata una mancata sintonia tra i vertici centrali (party in central office) e organizzazioni periferiche (party on the ground), che ha impedito alle scelte dei segretari succedutisi di improntare tutta l’organizzazione, come nel caso della rottamazione proposta da Renzi che non ha attecchito sui territori.
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Natale e Fasano si sono fermati all’analisi di una storia, prima dell’esito elettorale del 4 marzo. Non si sono sbilanciati a indicare quelle che potevano essere linee di sviluppo, a dichiarare se il progetto aveva ancora possibilità di consolidarsi o invece poteva dirsi esaurito. Hanno però segnalato la criticità della fase attuale (“i prossimi mesi saranno probabilmente decisivi”) in cui una leadership, rafforzata dall’ultimo congresso ma isolata dagli elettori, e un’organizzazione indebolita da spinte centrifughe e quasi “senz’anima”, incapace cioè di selezionare classe dirigente riconosciuta ed elaborare cultura politica, hanno affrontato la sfida delle elezioni politiche in un contesto in cui l’aggregazione di centro-destra è stata di nuovo competitiva e i consensi del Movimento 5 Stelle sono cresciuti considerevolmente. Il risultato, in percentuale e in assoluto, è stato il più basso di sempre: il Pd ha racimolato meno del 19%, ossia poco più di sei milioni di elettori (la metà di quelli raccolti dieci anni fa da Veltroni). Insomma, le elezioni politiche del 4 marzo potrebbero aver intonato il de profundis dell’ultimo partito e con esso l’estinzione di una razza. E ciò avrebbe naturalmente delle conseguenze per la nostra democrazia rappresentativa.

I MILLE VOLTI DI ANONYMOUS

(recensione di I mille volti di Anonymous di Gabriella Coleman)

Un libro per raccontare tattiche e strategie della presa collettiva di parola che si afferma attraverso l’hacktivism: l’azione diretta in rete

Anonymous, la maschera collettiva degli hacktivisti più famosi al mondo non smette di far parlare di sé. Tuttavia, dalle operazioni contro la Sony alla solidarietà manifestata a Julian Assange, forse non si è ancora riflettuto abbastanza sul significato politico di un fenomeno, ormai globale, che riassume sotto il proprio nome teorie, strumenti e pratiche dell’underground dalle origini della rete fino ad oggi.

anonymous_slogan Il volume I mille volti di Anonymous: la vera storia del gruppo hacker più provocatorio al mondo (Stampa Alternativa, Viterbo, 2015, pp. 473, euro 24,00) dell’antropologa Gabriella Coleman, offre questa occasione. Nel libro, l’antropologa, embedded per diversi anni nel gruppo degli Anon, enuclea infatti il racconto avvincente di una serie di operazioni che hanno contrassegnato “la metamorfosi di Anonymous dal mondo sotterraneo dei troll fino all’attivismo pubblico”. Dalle bravate e dagli sbeffeggiamenti via internet si passa presto allo scontro con la chiesa di Scientology per arrivare, infine, all’emergere di un nuovo soggetto politico, di un quinto potere che interviene in situazioni globali e locali, dalla difesa di Assange all’aiuto operativo ai giovani della Primavera araba. Sempre senza nome, nascondendosi dietro la maschera del celebre rivoluzionario inglese Guy Fawkes che, tra Cinquecento e Seicento, sfidò la monarchia britannica e che il film V per Vendetta dei fratelli Wachowsky ha riscoperto e riaggiornato all’inizio del nostro secolo, giusto prima della nascita di Anonymous.

Anonymous, una nuova forma di partecipazione politica

Coleman durante il racconto mette in evidenza diversi temi interessanti legati alle azioni di Anonymous. Uno in particolare ci pare decisivo per comprendere le dinamiche politiche contemporanee e in particolare quelle legate alla partecipazione politica. Le azioni di Anonymous paiono fornire una sorta di soluzione a un’impasse teorica a cui conducono diverse analisi dei processi partecipativi nel tempo della Rete.

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Da un lato, è facile cogliere nelle nuove piattaforme comunicative un allargamento dei repertori di azione a disposizione dei singoli e dei gruppi per intervenire nella sfera politica. Forum, petizioni, blog e tutti i siti di social networking offrono a ciascuno la possibilità di prendere parola sulle vicende politiche locali o globali. Dall’altro lato, pare che questa presa di parola non si traduca sempre in effettiva capacità di incidere sulle scelte compiute dalle autorità: quasi che la parola dei cittadini, sempre più diffusa, nello stesso tempo si sia allontanata, sempre più, dai centri della decisione. In altri termini, all’allargamento della partecipazione come opinione non corrisponderebbe un approfondimento della partecipazione come decisione.

Dai defacement ai DDoS al doxing: le tecniche di Anonymous

Per far parte di Anonymous è necessario un processo di socializzazione alle dinamiche del gruppo e in particolare alle sue modalità operative. Ciò non comporta, però, la necessità di divenire hacker professionisti per partecipare a tutte le operazioni messe in campo. Diverse ed eterogenee sono infatti le tattiche a cui si è fatto ricorso, alcune richiedono capacità tecnologiche elevate, altre poco sofisticate, alcune sono pienamente legali, altre sconfinano nell’illegalità. Si va dal defacement di siti web al loro blocco temporaneo tramite attacchi DDOS, dal reperimento tramite incursioni informatiche di documenti riservati e pubblicamente rilevanti alla loro divulgazione, dal doxing di informazioni personali al file sharing di prodotti sotto copyright, dall’email spamming alle tradizionali proteste di piazza.

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La metamorfosi di Anonymous dal mondo sotterraneo dei troll fino all’attivismo pubblico

Un elemento sembra accomunare tutte queste forme di intervento: pur trattandosi (eccetto, naturalmente, le proteste di piazza) di impegni tramite la tastiera e il linguaggio informatico, esse possono essere classificate come azione diretta. Non si tratterebbe, cioè, di far semplicemente sentire la propria voce ma di imporla con cogenza sino a determinare cambiamenti concreti delle decisioni prese (dalle politiche di importanti aziende alla riapertura di indagini giudiziari, passando naturalmente dal cambio di regime politico seguito all’#OpTunisia). In questo caso, cioè, il linguaggio (digitale) si rivelerebbe pienamente nel suo aspetto performativo, producendo effetti diretti sul mondo della vita (come indicato da Austin e facendolo in maniera non normativa, al contrario del “potere comunicativo” di Arendt e Habermas).

Si tratta di nuove forme di intervento nello spazio dei media, sia nuovi che vecchi (reclamando attenzione mediatica), che si pongono come tattiche “deboli” di intervento nella sfera politica della decisione. Non bisogna fare l’errore di sopravvalutarne l’apporto ma può essere utile coglierne il valore di modello di azione che va oltre, da un lato, la mera espressione di opinione e, dall’altro, quei modelli moderni – come il voto – che sono sempre meno riconosciuti come adatti a garantire l’intervento nella dimensione politica nel nostro tempo postmoderno.

[apparso su Cyber Security, 27 ottobre 2016, <http://cybersecurity.startupitalia.eu/53182-20161027-defacement-ddos-doxing-mille-volti-anonymous>]

McLUHAN E LA POLITICA

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la politica dà le risposte di ieri alle domande di oggi. Sta emergendo una nuova forma di politica, e in modi che non abbiamo ancora notato. Il salotto è diventato una cabina elettorale. La partecipazione attraverso la televisione a marce della pace, guerre, rivoluzioni, inquinamento e altri eventi sta cambiando tutto – McLuhan, 1967

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Il tempo della democrazia politica come la conosciamo è finito. La cabina elettorale è un prodotto della cultura occidentale alfabetica – una scatola calda in un mondo freddo – e perciò è obsoleta. Nel nostro mondo del software, caratterizzato da un movimento di comunicazioni elettriche istantanee, la politica sta passando dai vecchi schemi della rappresentanza politica per delega elettorale a una nuova forma di coinvolgimento comunitario spontaneo e immediato in tutte le aree decisionali.
I media elettrici consentono modi completamente nuovi di registrare l’opinione popolare. Il vecchio concetto di plebiscito, per esempio, potrebbe assumere nuova rilevanza; la tv potrebbe fare plebisciti quotidiani. Il voto, nel senso tradizionale, è superato, mentre abbandoniamo l’età dei partiti politici, delle questioni politiche e degli obiettivi politici, ed entriamo in un’età in cui l’immagine tribale collettiva e l’immagine iconica del capotribù sono la realtà politica prioritaria – McLuhan, 1969

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LE NUOVE NARRAZIONI DEL SUD, TRA FICTION E RENZI

La visita del presidente del Consiglio Matteo Renzi in Calabria, per abbattere l’ultimo diaframma di una nuova galleria dell’A3 e per inaugurare un avanzato distretto di cybersecurity dislocato da Poste Italiane a Cosenza, ha riproposto un tema che gode di una sorta di eterno ritorno. Come aveva già fatto durante la Direzione del suo partito dedicata al Mezzogiorno, lo stesso Renzi ha ribadito la necessità di un «messaggio alternativo al racconto dominante», di una nuova narrazione del Sud che faccia perno sugli aspetti positivi, sulle realtà innovative, sulle prospettive di cambiamento.

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Un recente volume di Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, La parte cattiva dell’Italia: Sud, media e immaginario collettivo (Mimesis, Milano, pp. 402) può essere di molto aiuto a capire cosa Renzi possa e voglia intendere per nuova narrazione di questa parte della penisola. Il volume riporta i risultati di una ricerca Prin a cui hanno collaborato le università di Bari, di Messina e del Salento ed è ricco di analisi e cifre sulla rappresentazione mediatica del Sud nei notiziari televisivi, nei giornali, in rete, nel cinema, nelle fiction. Ciò che ne viene fuori è un quadro complesso e variegato.

Innanzitutto, si evidenzia come il Sud sia assai marginale nella copertura dei grandi media informativi nazionali: per esempio, solo il 9% dei servizi del Tg1 fa riferimento a questa parte dell’Italia. Di fatto, se si considerano gli ultimi decenni si può parlare di una vera e propria eclissi della questione meridionale dalla scena politico-mediatica nazionale, quella disegnata dalla televisione pubblica e dai grandi giornali, a tutto vantaggio di quella che si è affermata come questione settentrionale.

Oltre a questo oscuramento quantitativo c’è anche un cambiamento qualitativo: il Meridione non viene più percepito e reso come unitaria questione politica di cui farsi carico e per la quale cercare soluzioni (tipo l’industrializzazione forzata del passato), ma come fattore endemico di debolezza sostanzialmente irrisolvibile. «Il Meridione si staglia nell’universo di senso dell’opinione pubblica italiana come un coagulo di impossibilità, una dimensione geografica in cui il mutamento lascia il posto alla persistenza».  Il passaggio dalla complessa questione meridionale al semplice fattore M di fatto significa un depotenziamento di qualunque sua portata politica.

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Rispetto a questa tendenza dominante, dal volume si può cogliere come cinema e letteratura, attraverso le loro narrazioni, abbiano provato negli ultimi anni a trasmettere una diversa e più articolata immagine del Mezzogiorno. A mostrare la portata nazionale e internazionale di quelli che una volta si potevano ritenere fenomeni circoscritti a un ambito territoriale limitato (la camorra come descritta da Roberto Saviano). A porre accanto alle ombre, dei coni di luci (Un posto al sole). A differenziare i tanti Sud (attraverso una nuova leva di cineasti, da Edoardo Winspeare al popolare Rocco Papaleo). A sovraccaricare gli stereotipi per farli deflagrare in una sfrontatezza modernista (Checco Zalone). A mettere in mostra la normalità di gesti quotidiani di uomini ordinari ma efficaci (le nuotate, i pranzi e le deduzioni del commissario Montalbano di Andrea Camilleri). Queste narrazioni di differenti operatori culturali non riescono – come facevano gli intellettuali del passato – a proporre e imporre il Meridione come problema politico generale. Ma aprono squarci su una normalità meridionale che esiste e può rappresentare un’apertura verso il futuro, un futuro non contrassegnato da quell’estetica criminale e da quella retorica della miseria che dominano da sempre l’immaginario collettivo sul Sud. Invece di ribadire con pigrizia intellettuale la solita immagine stereotipata, i cineasti e gli scrittori meridionali ci invitano – come scriveva Calvino – a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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In questo fiorire delle narrazioni di fiction, si inserisce il tentativo di Renzi. È difficile, infatti, far combaciare la sua nuova narrazione del Sud con la presa in carico di un problema generale per il quale cercare soluzioni sistemiche e di lunga durata. Renzi, con i suoi passaggi rapidi e mediaticamente sovraesposti, si limita a sottolineare singoli episodi positivi (il salvataggio dello stabilimento Fiat di Pomigliano, l’apertura della Apple a Napoli o l’inaugurazione di alcune domus restaurate a Pompei). Qualcuno potrebbe lamentare l’assenza di un progetto politico unitario. Forse, però, Renzi con le sue parate mediatiche cerca solo di infondere fiducia e speranza. Non è (solo) questo che ci si aspetta da un politico. Bisognerebbe, perciò, capire se rispetto all’inazione di quello che già Gramsci definiva «ceto dirigente scettico e poltrone», da sempre dominante in queste nostre lande, non sia comunque un passo in avanti.

 

[apparso su L’Unità on line, 29 marzo 2016

http://www.unita.tv/opinioni/le-nuove-narrazioni-del-sud-tra-fiction-e-renzi/ ]

 

IMMAGINARI TURBOLENTI DELLA REALTA’

(recensione di Spazi (s)confinati di Fabio Tarzia e Emiliano Ilardi)

Nella seconda stagione della serie tv Fargo compare Ronald Reagan che, in North Dakota nel 1979, sprona gli elettori verso una rinascita spirituale: «noi che abbiamo il privilegio di essere americani, abbiamo un appuntamento con il Destino da quel lontano 1630 in cui John Winthrop disse a quel gruppetto di pellegrini ‘Noi saremo come una Città sopra una Collina’». È indispensabile perciò che l’America «diventi quella Città luminosa sopra la Collina per una umanità inquieta e afflitta che guarda a noi».

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Un discorso elettorale inframmezzato dalle immagini di una carneficina tra bande criminali rivali. E così lo sceriffo protagonista di Fargo, avvertendo il peso di una situazione difficile, chiede a Reagan: «crede che usciremo dalla crisi in cui siamo?». «Non c’è prova al mondo che un americano non possa superare». «Ma come?». Il candidato si volta ed esce di scena senza rispondere. Prima e dopo questa uscita di scena, nella serie tv e nella realtà, Reagan qualche risposta l’ha data. Subito prima, infatti, ha ribadito al racconto della guerra nel Vietnam fatta dallo sceriffo, citando un film di cui era stato protagonista nella sua carriera di attore, fondendo tragiche vicende e rappresentazione filmica, mostrando come attraverso l’immaginario si possa comprendere la realtà. Divenuto poi Presidente, eroe americano per eccellenza, Reagan ha indicato la direzione da seguire per «far ricominciare il mondo daccapo»: rimuovere gli ostacoli che il governo ha messo sulla strada degli individui e continuare la guerra al comunismo, intensificarla, vincerla anche attraverso il dominio garantito dallo scudo spaziale. In queste scene della serie tv e nell’azione politica di un Presidente è racchiuso tutto il motore della storia americana: l’immaginario e le sue diverse dinamiche.

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Nel volume Spazi (s)confinati (manifestolibri, 2015, pp. 413), i sociologi della cultura Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi sostengono la tesi della centralità dell’immaginario nella storia degli Stati uniti e in tale ottica indagano quel «grande sistema comunicativo che, attraverso una strumentazione metaforica e allegorica, e un utilizzo del più svariato ventaglio di linguaggi, dà forma (attraverso i media) alle strutture culturali profonde e funge da mediazione tra queste ultime, gli individui e le trasformazioni storiche». Lo sconfinamento reaganiano tra il cinema e la realtà, l’attore e il politico dà conto di una forza dell’immaginario altrove storicamente molto più debole ovvero sostanzialmente alternativo rispetto alla realtà (quasi una compensazione rispetto ad essa). Ci pare perciò davvero apprezzabile il tentativo compiuto in Spazi (s)confinati di indagare il ruolo del fattore-chiave immaginario. E di farlo sganciandolo da quella critica tipicamente marxista che lo relega a mera sovrastruttura determinata e funzionale alle dinamiche dell’economia capitalista. L’immaginario – pur non essendo l’unico fattore del mutamento sociale così come per McLuhan non lo erano i media – gioca un suo ruolo autonomo e in forza di questa autonomia interagisce con altri fattori, tipo quelli economici, a volte indirizzandoli in determinate direzioni. Inoltre, coraggiosamente, i due autore indagano le dinamiche dell’immaginario americano nel lungo periodo, mostrandone splendori e miserie, momenti di gloria e crepe dall’arrivo dei Padri Pellegrini all’affermazione di Barack Obama.

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Le parole e le azioni di Reagan ci mostrano, inoltre, come il sentimento di un «Destino Manifesto» derivato dal puritanesimo, da un lato, e la conquista dello spazio derivato dall’esperienza della frontiera, dall’altro, siano riconoscibili come le grandi matrici di sviluppo dell’immaginario yankee.  Ciò dalla sua origine e sino almeno all’esaurimento della spinta propulsiva offerta dalle vittorie nelle due guerre mondiali. Poi qualcosa si è incrinato: il Vietnam ha forse rappresentato il momento in cui l’America è stata chiamata più che in altre occasioni a prendere atto delle crepe del suo edificio. Lo spazio della giungla asiatica non è stato conquistato e dunque neppure riconsacrato. Il nemico, che l’America ha sempre assolutizzato (dalle streghe ai «demoni» rossi, dai gialli vietcong ai terroristi islamici), non è stato punito. E molti figli della nazione eletta non sono più tornati alle loro case, nella loro Città sulla collina, se non dentro body bags. La nazione non è riuscita più a manifestare la sua elezione, la sua predestinazione, il suo Destino.

Una crisi che continua anche nella società globale di oggi, nella quale il ruolo degli Stati uniti non è ben definito, oscillando tra interventismo eccessivo e isolazionismo, rappresentazione del grande Satana e faro di democrazia. Dopo l’11 settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq, non siamo più stati tutti americani. L’America non riesce più ad affermare la sua egemonia culturale prima che politica in un mondo multicentrico e turbolento. Un mondo in cui l’ibridazione con l’alterità è diventata la regola, non si riconosce più nel meccanismo di chiusura e apertura, di distinzione e conquista che l’immaginario americano ha dispiegato nel passato. Può l’America riconquistare un ruolo definito in questo mondo? Spazi (s)confinati non offre una risposta univoca; si limita a richiamare l’attenzione sulla capacità di reinventarsi che l’immaginario americano ha mostrato nel corso del tempo. Nella loro ricostruzione gli autori sostengono, tra l’altro, che in America non è mai emersa una sfera pubblica capace di mediare le diversità. Negli spazi sconfinati della frontiera al massimo si è manifestata una pubblicità senza sfera pubblica. In tal modo, però, non si avvedono di utilizzare un metro tutto «continentale» per interpretare un fenomeno che – come loro stessi mostrano – a quel metro non si può riportare. Non una sfera pubblica di tipo argomentativo o in generale costruita sulle grandi fratture ideologiche ma una sfera pubblica fatta di single issue, agitazioni emotive, filamenti di immaginario, forse effimera ma non meno significativa, ha improntato la politica negli Stati uniti. Su questa base non è escluso che gli States possano ritrovare un ruolo nell’epoca delle sfere pubbliche diasporiche che, come insegna Arjun Appadurai, sono giocate proprio sull’immaginario.

(apparsa parz. su il manifesto 20 marzo 2016)