COME LA CRISI ECONOMICA CAMBIA LA DEMOCRAZIA

Dalla bancarotta della Lehman Brothers nel 2008 al 2015, siamo stati colpiti da una Grande Recessione, caratterizzata dall’instabilità dei mercati finanziari, dal declino del prodotto interno lordo, da un aumento della disoccupazione e da una prolungata bassa crescita o addirittura da stagnazione. Ad aver pagato il conto in modo più salato sono stati quei paesi con situazioni economiche già deboli, soprattutto dopo che la crisi finanziaria si è trasformata in crisi del debito sovrano. Cosi, in ambito europeo, ne hanno risentito maggiormente i paesi dell’Europa meridionale che affacciano sul Mar Mediterraneo, come Portogallo, Spagna, Italia e Grecia.

Su questi paesi puntano l’attenzione Leonardo Morlino e Francesco Raniolo, autori di “Come la crisi economica cambia la democrazia. Tra insoddisfazione e protesta” (il Mulino, 2018, pp. 212, euro 19), uscito in una precedente versione inglese con il titolo “The Impact of the Economic Crisis on South European Democracies”. Gli autori valutano la possibilità che la Grande Recessione non riguardi solo la sfera economica ma coinvolga anche le strutture politiche e, in particolare, quelle dimensioni di partecipazione e competizione che contrassegnano i regimi democratici.

cover Morlino Raniolo

Per comprendere questa relazione tra crisi economica e strutture politiche, è utile partire da tre assunti. In primo luogo, i regimi democratici dei paesi considerati sono da ritenersi stabili. Diversamente dalla Grande Crisi del 1929, non siamo in presenza e ne possiamo aspettarci un crollo delle democrazie. Insomma, cogliere le trasformazioni in atto (innegabili e non per forza da valutare positivamente) non deve portare a ingiustificate grida d’allarme su svolte autoritarie. In secondo luogo, a più riprese è segnalata l’importanza del background, delle tradizioni, della path dependency dei processi in atto: le stesse variabili intervenienti (la Grande Recessione) non producono gli stessi risultati in contesti diversi. Di conseguenza, in terzo luogo occorre rigettare “una visione deterministica e teleologica dei fenomeni sociali” per cui a determinate cause corrispondono necessariamente determinati effetti. Non solo gli effetti della crisi economica sulla democrazia sono tutti da cogliere e valutare, ma è possibile anche che una fase percepita come indebolimento del sistema si riveli latrice di opportunità utili a rivitalizzare il sistema stesso.

Queste premesse portano ad assumere un’ottica per cui la Grande Recessione ha un effetto catalizzatore, cioè amplifica e accelera tendenze e fattori più o meno latenti comunque già presenti nei sistemi politici. Di conseguenza, i modelli osservabili nei quattro paesi considerati sono diversi: in Portogallo, si è osservato un aumento dell’alienazione dei cittadini dalla partecipazione politica con un paradossale rafforzamento dei partiti tradizionali;

 

in Grecia e in Spagna, si è assistito a una forte mobilitazione non convenzionale con proteste sociali e manifestazioni e a una successiva istituzionalizzazione dei movimenti (con Syriza e Podemos, in particolare); in Italia, la stabilizzazione partitica è stata immediata con la nascita di un non-partito, il Movimento Cinque Stelle.

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In generale, si può concludere che è riscontrabile “certamente un significativo indebolimento dei modi tradizionali di partecipare e competere dentro e fuori i partiti. In questa prospettiva, la crisi economica si sovrappone e amplifica la crisi politica dei partiti tradizionali” a vantaggio di nuovi partiti di protesta – espressione preferita alla generica etichetta di neopopulisti. I quali se, da un lato, hanno radicalizzato la competizione politica a svantaggio di progetti a lungo termine, dall’altro, hanno ancorato gli elettori insoddisfatti e “trasformato la protesta in partecipazione istituzionalizzata” incanalandola nelle procedure democratiche. Le democrazie contemporanee mostrano così una “intercambiabilità dei canali di intermediazione” con i cittadini che “in ogni momento scelgono il modello più semplice e potenzialmente più efficace” per far sentire la propria voce e partecipare alla vita pubblica: dalle piazze alle piattaforme digitali al voto tradizionale.

Questa intercambiabilità potrebbe valere non solo per i mezzi utilizzati ma anche per i risultati sperati ovvero per le fratture (i cleavages) che spingono all’azione i cittadini. Gli autori si soffermano più volte sulla ridefinizione dei cleavages, sulla loro moltiplicazione. Al classico sinistra vs destra (che l’aumento delle diseguaglianze riporta in auge), si affianca la frattura tra esclusi vs vincitori della globalizzazione. Ma hanno un importante rilievo anche le divisioni giovani vs anziani, centro vs periferia e quelle che forse hanno determinato l’esito di alcune recenti tornate elettorali: pro vs contro Europa e establishment vs anti-establishment. Se non è possibile riportare tutte queste fratture a una Grande Frattura capace di spiegare tutto (come era nel caso della grande narrazione progressista otto-novecentesca) nondimeno è necessario cogliere l’articolazione dinamica delle faglie contemporanee. Attualmente pare, infatti, che la competizione politica si articoli su una intercambiabilità tra ciò che era struttura e ciò che era sovrastruttura, tra temi materialistici e postmaterialisti o con terminologia più recente tra istanze di ridistribuzione e istanze di riconoscimento. Con cittadini che, in frangenti successivi, compongono le proprie domande muovendosi lungo differenti binari, mescolando richieste diverse. Questa flessibilità dei cittadini (di cui la volatilità elettorale è una sorta di sintomo) carica ulteriormente le forze politiche di responsabilità poiché le loro parole (la loro offerta) non è semplicemente reattiva rispetto alle domande dei cittadini, bensì stimola e induce alla formulazione delle domande stesse, come dimostrano appunto i nuovi partiti di protesta. In altre parole, le forze politiche che vogliono essere egemoni devono farsi carico di un concetto di rappresentanza che non è mero rispecchiamento di realtà già date ma costruzione di progetti futuri. Piuttosto che portare lamenti sulla crisi della rappresentanza, la Grande Recessione potrebbe così indurre gli attori politici ad essere consapevoli di un concetto di rappresentanza più articolato e, in questo modo, finirebbe con il dare nuova vitalità alle nostre democrazie.