Piero Ostilio Rossi  
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MODI (E NODI) DEL FARE STORIA IN ARCHITETTURA


Commento al libro di Carlo Olmo



Piero Ostilio Rossi


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Con Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie, Carlo Olmo conclude la sua lunga e approfondita indagine sui modi di fare storia dell’architettura che è iniziata nel 2010 con Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori ed è poi proseguita prima con Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (2013) e poi con Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (2018); quattro libri, tutti editi da Donzelli, che trovano una possibile integrazione in un quinto volume (anch’esso di Donzelli), scritto con Susanna Caccia, che assume come oggetto di studio quella che è l’opera-simbolo della modernità, la villa Savoye di Le Corbusier (La villa Savoye. Icona, rovina, restauro, 2016). Di quest’ultimo studio, l’agile volume pubblicato dagli stessi autori nella collana DiAP PRINT/Teorie di Quodlibet (Metamorfosi Americane. Destruction through Neglect. Villa Savoye tra mito e patrimonio, 2016) può essere considerata una sintetica anticipazione. Un percorso complesso che indaga, da diversi punti di vista e con molte sfaccettature, quali siano le fonti su cui si può costruire l’argomentazione storiografica in architettura e quale sia la natura degli oggetti di cui (e su cui) si deve costruire questa storia. La complessità di questo percorso è testimoniata non solo dall’ampiezza della ricerca che lo sostiene (ciascun libro è stato a sua volta preparato attraverso articoli, raccolte di saggi, conferenze e relazioni a convegni), ma dalla densità della scrittura che Olmo adopera nella stesura dei testi, dal suo andamento rizomatico (molto simile ad un ipertesto) che procede per scarti, connessioni e rimandi oltre che dal poderoso apparato di note e di riferimenti bibliografici (Progetto e racconto ne contiene più di 800). Come lui stesso talvolta ci ricorda, si tratta di una forma narrativa a volte complessa ma non per ostentazione di enigmaticità, ma per la necessità di utilizzare basi conoscitive ampie e pluridisciplinari che tengano lontane le sue indagini da una storia dell’architettura intesa come semplice interpretazione delle forme e delle ideologie che esse veicolano. La stessa lingua con cui questa storia così fondamentale viene raccontata – ci ricorda infatti in Architettura e storia – appare presa in prestito: dalla storia dell’arte come dalla sociologia, dal romanzo come dalla giurisprudenza. La lettura di Progetto e racconto si associa nella mia mente ad un passaggio del libro Se una notte d’inverno un viaggiatore nel quale Italo Calvino descrive con straordinaria vivezza la curiosità intellettuale del suo lettore: “Non si meravigli se mi vede sempre vagare con gli occhi. In effetti questo è il mio modo di leggere, ed è solo così che la lettura mi riesce fruttuosa. Se un libro m’interessa veramente, non riesco a seguirlo per più di poche righe senza che la mia mente, captato un pensiero che il tema le propone, o un sentimento, o un interrogativo, o un’immagine, non parta per la tangente e rimbalzi di pensiero in pensiero, d’immagine in immagine, in un itinerario di ragionamenti e fantasie che sento il bisogno di percorrere fino in fondo, allontanandomi dal libro fino a perderlo di vista. Lo stimolo della lettura mi è indispensabile, e d’una lettura sostanziosa, anche se d’ogni libro non riesco a leggere che poche pagine. Ma già quelle poche pagine racchiudono per me interi universi, cui non riesco a dar fondo”. Ecco, forse è proprio questo lo straordinario genere di lettore con cui Olmo-scrittore immagina di dialogare.

Questa forma narrativa costruisce, da una parte, una serie di tasselli compiuti (i capitoli e i paragrafi di cui il libro è composto) che spetta poi al lettore connettere in una personale costellazione interpretativa e, dall’altra, introduce un interrogativo che non è semplice sciogliere: quanti possibili libri sono contenuti nel libro? Anche questa risposta è complessa. Progetto e racconto è diviso in due sezioni, la prima riflette sostanzialmente sul metodo dell’indagine storica con specifiche considerazioni sulle parole, le idee, i simboli e gli attori che l’attraversano, mentre la seconda riguarda quattro diversi casi studio che illustrano i modi concreti e attraverso i quali il metodo, nelle sue diverse articolazioni, può essere applicato a temi specifici e i nodi problematici che esso porta alla luce. I casi analizzati – volutamente differenti tra loro – riguardano: le Esposizioni Universali, la struttura del volume di Nikolaus Pevsner An Outline of European Architecture (1942), la figura e l’opera di Pierluigi Nervi e il tema del muro come confine analizzato attraverso le figure urbane della “cittadella della conoscenza” e della gated community. In realtà, il discorso sul metodo viene declinato in cinque capitoli, che sono a loro volta articolati in numerosi paragrafi, ciascuno dei quali raccoglie una diversa dimensione problematica dell’indagine storica in architettura (“il più straordinario e insieme ambiguo documento con cui misurarsi”) introducendo un caleidoscopio di sguardi critici su questioni nodali che, come nel lettore di Calvino, inducono un personale itinerario di ragionamenti per i quali il testo funge da catalizzatore e che si dipanano nello spazio della mente secondo la struttura rizomatica che ricordavo in precedenza.

Proprio come è adombrato nel sottotitolo del libro, l’architettura racconta le sue storie e l’autore ci propone un insieme di strumenti idonei (Olmo usa più di una volta il termine “cassetta degli attrezzi”) per coglierne il senso profondo. La sinossi della quarta di copertina ci ricorda infatti una questione centrale che attraversa tutto il libro: “L’architettura pone a chi la voglia indagare questioni complesse, a partire dall’incipit: quali sono le fonti di questa storia. I disegni, i cantieri, le opere costruite, gli usi?”. Un interrogativo che appare addirittura riduttivo rispetto all’ampiezza delle risposte fornite da Olmo, in particolare nel capitolo La storia dell’architettura contemporanea: dalla narrazione alla professionalizzazione, dove si indaga, da una parte, la questione del rapporto tra la storia dell’architettura (in particolare dell’architettura moderna) e la filologia – il rapporto cioè con gli archivi, i documenti e le fonti – e si riporta quindi l’attenzione sulla genesi dell’opera e sul contesto nel quale l’opera viene progettata e costruita mentre dall’altra si riafferma l’importanza dell’argomentazione scientifica (il nesso tra argomentazione e prova è uno dei fils rouges che attraversano il libro) rispetto alla forma retorica della narrazione e all’uso pervasivo della biografia come prodotto storiografico.

C’è un passaggio dell’introduzione del libro che rimanda allo studio sulla Villa Savoye che ho prima ricordato e che merita di essere analizzato. “Se Le Corbusier, arriva a negare che l’opera (la Villa Savoye) sia la fonte primaria del suo stesso restauro – scrive Olmo – e propone i suoi disegni come fonte esclusiva, non lo fa per difendere una sin troppo consolidata reputazione. Esplicita un nodo non risolto della storia dell’architettura, che è alla base di quasi tutte le figure retoriche dominanti di questa scansione della storia (dall’autorialità all’originalità). Non solo. La posizione che assume Le Corbusier anticipa quella sulla documentalità e quasi azzera una tentazione che già aleggiava negli anni sessanta: la naturalizzazione delle fonti. Se il disegno è il documento che racchiude le intenzionalità e fissa la negoziazione di cui ogni architettura è l’esito, l’opera (…) cessa di essere la fonte naturale di quella storia”. Se, da questo punto di vista, le vicende della Villa Savoye possono essere considerate un paradosso, la questione del rapporto tra opera e documento assume in realtà una dimensione che va oltre il tradizionale materiale documentario – disegnato, scritto, in forma di immagine o di qualsiasi altra natura – depositato in archivio. I documenti sono anche l’infinita congerie di atti amministrativi, prescrizioni, norme, vincoli, disposizioni e pratiche che hanno caratteri direttamente o indirettamente morfogenetici e con i quali l’opera, in particolare l’opera pubblica, si misura sia durante il processo di costruzione del progetto, che durante la trascrizione del progetto stesso in oggetto fisico. Con essi l’architetto ha un confronto continuo, proprio come accade per uno spartito musicale da eseguire o per un testo teatrale da mettere in scena. Sono infatti convinto – il mio è il punto di vista di un progettista – che l’opera scaturisca anche dalla capacità di usare la creatività per piegare la vischiosità diffusa che gli apparati normativi oppongono al pensiero progettuale trasfigurandola in forma capace di tenere in equilibrio e portare a sintesi una pluralità di indicazioni differenti, specifiche e settoriali. Tra i documenti con i quali il progetto necessariamente si confronta, credo che tra i più importanti siano quelli che riguardano il sito e il luogo. Due termini apparentemente simili che per chi progetta hanno in realtà significati diversi: il sito ha connotazioni che sono legate alla conformazione del suolo, alle relazioni con il contesto e le preesistenze e alle sue stratificazione storiche (comprese le proposte progettuali che, nel tempo, lo hanno interessato), mentre il luogo tende invece ad abbracciare una dimensione più ampia, non solo dal punto di vista fisico, ma anche mentale, nel senso che contiene i caratteri della storia, dell’ambiente, dei comportamenti umani, dei modi d'uso e delle consuetudini che connotano la porzione di territorio di cui il sito fa parte. E definire – nel senso di “circoscrivere” – correttamente il luogo rispetto al sito è di per sé un problema progettuale perché riguarda la misura della porzione di contesto all'interno del quale essi interagiscono dialetticamente tra loro. Questo anche perché, come sostengono Alessandro Armando e Giovanni Durbiano in Teoria del progetto architettonico (un libro cui il testo di Olmo rimanda più di una volta), il progetto di architettura è in grado di legittimarsi non in base alle intenzioni, ma agli effetti che è in grado di produrre. Ed è con questo genere di complessità con la quale lo storico si confronta quando “non assuma – sono parole di Olmo – che l’architettura sia riducibile a un documento, qualsiasi esso possa essere”.

Un altro dei nodi problematici che emergono carsicamente nei capitoli del libro riguarda il rapporto tra modernità e contemporaneità, a partire da due questioni di fondo: la periodizzazione che le individua (“ad iniziare dalla scelta di distinguere una modernità dentro la contemporaneità, un periodo storico che anch’esso darà luogo a diverse scansioni temporali”) e la fase di passaggio dall’una all’altra che si presenta ricca di ambiguità e – come ritengo che accada per tutti i momenti di trasformazione – con i caratteri di quella che nel cinema si chiama dissolvenza incrociata, nella quale alla graduale scomparsa di un’immagine si sovrappone l’altrettanto graduale comparsa di un’altra per cui esiste un momento di complessa decifrabilità nella quale entrambe coesistono. “Un’opposizione a tutt’oggi irrisolta su una fondamentale periodizzazione: quella che divide modernità e contemporaneità. Lavorare sulla periodizzazione – scrive Olmo – genera di per sé imbarazzi: perché difficilmente sono univoci la costruzione dell’oggetto e i criteri su cui la periodizzazione viene fondata. Imbarazzi crescenti quando una periodizzazione – la modernità – viene estratta dalla contemporaneità, facilitando il gioco di ruolo degli intellettuali (storici e architetti), sempre più ermeneuti e sempre meno portati a definire norme e valori. Un processo che per altro ha una storia antica”. E più avanti: “Molto più sinteticamente vorrei limitarmi ad una constatazione e ad alcuni presupposti oggi indiscutibili del fare storia dell’architettura moderna e delle sue possibili estensioni a quella contemporanea. Perché la prima questione nuova che emerge è proprio la distinzione tra una modernità da tutelare e una contemporaneità da indagare. La tutela della modernità che ha caratterizzato un’intera generazione di storici è anche, se non soprattutto, la tutela di un modo di fare storia, un modo in cui lo storico è, almeno apparentemente, lo spectator novus della lettera di Seneca a Lucilio”, che talvolta guarda la saggezza con la stessa meraviglia che lo pervade quando contempla l’universo osservandolo come se i suoi occhi si aprissero su di esso per la prima volta (quem saepe tamquam spectator novus video). Il nodo di fondo è quello delle modalità di indagine sulla “storia del tempo presente” e del rapporto tra storia e critica. Non c’è dubbio che in questo caso il lavoro dello storico vada incontro ad un’evidente contraddizione poiché vive nel tempo di ciò che accade e si misura quindi con la necessità di interpretare il senso di vicende delle quali è testimone e delle quali non conosce quindi gli sviluppi successivi, anche se questo non lo esime dal proiettarle in un possibile futuro. Nel paragrafo dall’emblematico titolo La contemporaneità non è moderna, Olmo individua nella crisi di quattro parole (autorità, autorialità, responsabilità e rapporto tra argomentazione e prova) una delle chiavi per interpretare il passaggio tra modernità e contemporaneità nella quale “l’architetto, procedendo ancor più verso terre teologiche, viene chiamato a fungere da sciamano di territori abbandonati, di vuoti industriali, di periferie degradate, di città diffuse, non solo privi di centralità o all’opposto da vate di città smart, intelligenti, necessariamente sostenibili e soprattutto esemplari”.

Nel capitolo che ha per titolo Il cruccio di un diritto ordinario, il libro indaga in maniera specifica proprio il tema della città e della crisi degli strumenti e delle discipline – l’urbanistica in primo luogo, ma non solo – che dovrebbero definirne regole di sviluppo e configurazione, soffermandosi in particolare sui rapporti tra norma e forma e tra diritto e spazio o, meglio, sulla progressiva separazione tra la città di pietra codificata da un sistema di procedure spesso inestricabile e la città attraversata dalla vita e quindi luogo di flussi, di relazioni, di contatti e di incontri come quello tra Baudelaire e la passante sconosciuta (Un éclair... puis la nuit! - Fugitive beauté / Dont le regard m'a fait soudainement renaître, / Ne te verrai-je plus que dans l'éternité?). Come tenere allora ben saldo – aggiungo io - il diritto alla città di cui parla Giovanni Maria Flick (Elogio della città? Dal luogo delle paure alla comunità della gioia, 2019) e come far emergere in maniera sempre più evidente la necessità – come sostiene Roberto Secchi (Architettura. Dal principio verità al principio responsabilità, 2017) – che pianificazione e progetto vengano istruiti innanzitutto dal punto di vista dei diritti delle persone (al lavoro, alla mobilità, all’accessibilità…) e soprattutto del diritto alla salute che oggi si impone con forza come il primo e il più importante dei diritti individuali. Olmo mette in guardia dall’illusione che questi problemi possano essere affrontati con l’ottica tecnocratica dell’ingegnerizzazione del territorio che oggi appare egemone nella realtà sociale poiché si va accreditando l’idea che il progetto sia pura metafora dei mezzi tecnologici necessari per tradurlo in realtà fisica.

C’è un passaggio del libro che mi sembra centrale per definire i caratteri di questa analisi: “In medicina – scrive Olmo -, il concetto di cura dei malati è stato sostituito dall’attenzione ai protocolli da seguire; in modo simile, anche le scienze sociali sono vittime del paradigma del “protocollo”. Questo slittamento dalla sperimentazione alla legittimità che il protocollo sembra fornire, fa cessare di esistere la pratica per ingegneri, architetti, avvocati o scienziati sociali, non solo per i medici. Queste professioni appaiono sempre più scollegate dalla fabbrica, dal cantiere, dal laboratorio, o dalla società. Le loro pratiche, e di riflesso le relative deontologie, vengono rimpiazzate da norme cui conformarsi: al malato o alla casa si sostituiscono la cura come regola e non come indagine e l’uniformità dei disegni e delle componenti che garantiscono un altro totem della contemporaneità, il trasferimento cosiddetto tecnologico”. Il nodo è la definizione socialmente condivisa di una qualità la cui misura è oggi, sostanzialmente basata sulla procedura (e qui affiora il Carlo Olmo accademico con la sua lunga esperienza nella valutazione della qualità della ricerca); una sorta di “modernità procedurale” che sorregge l’argomentazione ma che non legittima affatto le ipotesi dell’azione progettuale né ne può garantire l’efficacia sociale degli esiti.

Un’ultima riflessione. L’architettura non può essere di sabbia è uno dei paragrafi del capitolo che prende in esame la crisi dell’insegnamento della storia nelle Facoltà di Architettura; è un titolo intrigante che raccoglie riflessioni soprattutto intorno a tre questioni centrali che riguardano anch’esse il rapporto tra modernità e contemporaneità: 1. l’architettura ha senso se scommette non su culture sincroniche, ma sulle forme sociali, abitative, collettive o individuali del domani; 2. la crisi delle complesse relazioni che intercorrono nella modernità tra tipologia e morfologia con conseguenti processi di semplificazione e di omologazione; 3. il prevalere della cultura dell’effimero. Sono convinto che l'architettura costruisca, per sua condizione ontologica, sequenze di immagini stabili che definiscono l’identità dei luoghi e tendono quindi per loro natura a contrapporsi alla vorticosa mutevolezza delle immagini virtuali. L'architettura è quindi uno strumento primario della memoria perché è permanenza di spazio vissuto e nello stesso tempo – in quanto insieme strutturato di spazi – permette di collocare gli eventi in luoghi distinti ed identificabili. L’architettura è quindi un’arte “pesante” che rappresenta elemento di stabilità e costituisce di per sé un antidoto contro lo smarrimento dell’indistinto e del mutevole; non può e non deve abdicare a questo suo ruolo per essere trasformata con disinvoltura in un’arte stravagante che tende ad usare il tessuto urbano ed il paesaggio come semplice sfondo per le sue eccentriche figure.

Piero Ostilio Rossi

 

 

 

 

N.d.C. - Piero Ostilio Rossi, già professore ordinario di Composizione architettonica e urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università “La Sapienza” di Roma, è stato presidente del corso di laurea in Architettura-Flaminia, coordinatore del Collegio dei docenti del dottorato di ricerca in “Architettura. Teoria e progetto” e direttore del Dipartimento di Architettura e Progetto - DiAP della Sapienza.

Membro di numerosi comitati scientifici, ha scritto articoli, saggi e libri, tenuto conferenze, presentato relazioni a convegni e congressi nazionali e internazionali e coordinato il gruppo di studio che ha redatto l’Indagine sulla città contemporanea della “Carta per la Qualità” del nuovo Piano Regolatore di Roma. Ha inoltre lavorato per molti anni nello studio associato P+R/Progetti e ricerche di architettura e partecipato a numerosi concorsi di progettazione ottenendo premi e segnalazioni.

Tra le sue opere realizzate (molte delle quali pubblicate sulle principali riviste di architettura e urbanistica italiane): la nuova sede dell'Istituto Professionale per il commercio a Piombino, le case IACP a Pesaro-Villa Ceccolini e a Vigevano, la sistemazione degli archi neroniani dell'Acquedotto Claudio a Roma, l'Istituto Professionale di Stato per l'Industria e l'Artigianato a Piombino e, sempre a Piombino, la trasformazione del Castello in Museo della Città e del territorio e ancora la sistemazione delle aree circostanti la Basilica di San Pietro in occasione del Giubileo del 2000 e la Biblioteca della Collina della Pace a Roma (questi ultimi due realizzati in parziale difformità).

Tra i suoi libri: Roma. Guida all'architettura moderna (di cui sono state pubblicate da Laterza quattro edizioni: nel 1984, 1991, 2000 e 2012); La costruzione del progetto architettonico (Laterza, 1996); con G. Fioravanti, P. P. Balbo, F. Cellini, (a cura di F.R. Castelli e M. Tosi), Per un progetto urbano. Dal governo della sosta ad una strategia per Roma (Palombi, 1999); con G. Ciucci e F. Ghio, Roma, la nuova architettura (Electa, 2006); Per la città di Roma. Mario Ridolfi urbanista 1944-1954 (Quodlibet, 2013); ha curato con P. Ciorra e F. Garofalo, Roma 20-25: nuovi cicli di vita della metropoli (Quodlibet, 2015); con O. Carpenzano, Roma tra il fiume, il bosco e il mare (Quodlibet, 2019); con F. R. Castelli, L. Porqueddu e G. Spirito, Bruno Zevi e la didattica dell'architettura (Quodlibet, 2019). Sempre per Quodlibet, ha curato nel 2020 Flaminio Distretto Culturale di Roma. Analisi e strategie di progetto.

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: C. Magnani, L’architettura tra progetto e racconto, 11 settembre 2020.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

02 OTTOBRE 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020:

A. Mela, La città e i suoi ritmi (secondo Lefebvre), commento a: H. Lefebvre, Elementi di ritmanalisi, a cura di G. Borelli (Lettera Ventidue, 2019)

P. Baldeschi, La prospettiva territorialista alla prova, commento a: (a cura di) A. Marson, Urbanistica e pianificazione nella prospettiva territorialista (2020)

C. Magnani, L'architettura tra progetto e racconto, commento a: C. Olmo, Progetto e racconto (Donzelli, 2020)

F. Gastaldi, Nord vs sud? Nelle politiche parliamo di Italia, commento a: A. Accetturo e G. de Blasio, Morire di aiuti (IBL, 2019)

R. Leggero, Curare l'urbano (come fosse un giardino), commento a: M. Martella, Un piccolo mondo, un mondo perfetto (Ponte alle Grazie, 2019)

E. Zanchini, Clima: l'urbanistica deve cambiare approccio, commento a: M. Manigrasso, La città adattiva (Quodlibet, 2019)

A. Petrillo, La città che sale, commento a: C. Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)

A. Criconia, Pontili urbani: collegare territori sconnessi, commento a: L. Caravaggi, O. Carpenzano (a cura di), Roma in movimento (Quodlibet, 2019)

F. Vaio, Una città giusta (a partire dalla Costituzione), commento a: G. M. Flick, Elogio della città? (Paoline, 2019)

G. Nuvolati, Città e Covid-19: il ruolo degli intellettuali, commento a: M. Cannata, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19 (La nave di Teseo, 2020)

P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)

V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)

E. Micelli, Il futuro? È nell'ipermetropoli, commento a: M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019)

A. Masullo, La città è mediazione, commento a: S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

P. Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui partire, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

M. Pezzella, L'urbanità tra socialità insorgente e barbarie, commento a: A. Criconia (a cura di), Una città per tutti (Donzelli, 2019)

G. Ottolini, La buona ricerca si fa anche in cucina, commento a: I. Forino, La cucina (Einaudi, 2019)

C. Boano, "Decoloniare" l'urbanistica, commento a: A. di Campli, Abitare la differenza (Donzelli, 2019)

G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle
donne.it, 2019)

F. Indovina, È bolognese la ricetta della prosperità, commento a: P. L. Bottino, P. Foschi, La Via della Seta bolognese (Minerva 2019)

R. Leggero, O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto, Commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)

L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città (Quodlibet, 2018)

L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

G. Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te?, commento a: C.Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)

M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)

A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)

P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)

W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)

L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)

 

 

 

 

 

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