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Un cocuzzolo di tufo su una piattaforma perennemente in attesa di sprofondare nel vuoto. Questo il borgo di Civita di Bagnoregio, un esempio paradigmatico della morte (che a Civita è anche dovuta alle sue caratteristiche geomorfologiche) di tanti centri storici che la modernità ha condannato ad essere museificati per il godimento di masse di visitatori. Una manciata di residenti che tuttavia non abitano nel borgo ma che ogni mattina aprono la propria bottega in attesa di eserciti di turisti. Il voluminoso libro di Giovanni Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020, con prefazione di Giorgio Agamben) – non si esaurisce nell’osservare questa tragedia, esso tenta (con successo) di rispondere a una domanda attualissima: è questa la fine inevitabile che la modernità, questa modernità, riserva al nostro patrimonio di bellezze? Esiste un’alternativa o dobbiamo rassegnarci – come si chiede Tomaso Montanari su “il Fatto Quotidiano” – ad immaginare i nostri borghi e città storiche come dei grandi musei permanenti affidati a curatori-demiurghi che rispondono solo alla politica e guardano al botteghino degli incassi?
C’è un’espressione di Flaiano, come sempre icastica, che afferma: “eravamo così sfiduciosi nel futuro che ci siamo messi a progettare il passato”. Del resto, anche Benjamin sosteneva che l’unico cambiamento possibile è quello del passato, perché la caratteristica del passato è quella di non essere mai completamente morto. Ci manda dei segnali di come si sarebbe potuti imboccare un’altra possibile via e il suo insegnamento può condurci a un risveglio, un’indicazione su come orientare i nostri sforzi per un diverso domani.
C’è un domani per Civita al di fuori del turismo di massa?
Attili, ben al di là della vuota e trita retorica sulla salvaguardia dei centri storici, sembra intravederne uno al termine del suo lavoro di ricerca: “Civita potrebbe diventare un grande laboratorio di ricerca, dove riuscire a predisporre tecniche, pratiche, economie capaci di curare la fragilità della terra. Un luogo di apprendimento, di sperimentazioni avanzate dove produrre interventi all’avanguardia per la difesa del suolo, dove costruire una nuova civilizzazione avanzata… per l’ascolto delle ferite della terra” e la ricostituzione di forme solidali del vivere insieme. Può sembrare una dolce utopia da anime belle come ha detto l’ex sindaco di Venezia Cacciari: credere di riportare gli abitanti invece dei turisti a Venezia è pura astrazione. Ma sperimentazioni di tal genere sono in corso come per esempio dimostra il fantastico Museo dell'Altre e dell’Altrove di Metropoliz (MAAM) situato nella periferia romana e fortemente voluto da Giorgio De Finis.
Attili sembra raccogliere l’invito di Montanari quando afferma che: “Occorre non subordinare più la cultura umanistica a parametri neoliberisti come: misura dei guadagni, impatto economico, numero di visitatori. Ma sperimentare ‘atti immaginativi’ coraggiosi e onesti, in grado di tutelare anche progetti creativi, avventurosi, talvolta vulnerabili, al di fuori del linguaggio della contabilità e degli imperativi del bilancio”.
Sarebbe però riduttivo limitarsi a leggere questa ponderosa opera di Attili solo in un’ottica di uscita dalle regole del mercato. Il libro è mosso da una irriducibile passione di ricerca, ben al di là delle pur apprezzabili conclusioni. Una ricerca fatta di osservazioni attente, di interviste ai pochi superstiti, di amore per il suo miserevole passato di stenti e disgrazie, di crolli, di fatiche, del rapporto con gli animali che vivevano a stretto contatto con i suoi abitanti e di fratture, come testimoniano i numerosi crolli dell’unica via aerea d’accesso al borgo, il suo collegamento col mondo. Tutto questo descritto in tre voluminosi capitoli - terra madre e matrigna, terra d’adozione, terra di spettacolo - fondati su una minuziosa indagine svolta in misteriosi archivi che ha disvelato bellissimi materiali: lettere autografe, rappresentazioni folcloristiche, immagini rare di una vita comunitaria a contatto con una terra ostile e ingrata.
La prima parte è una ricerca storico-archeologica svolta attraverso materiale di archivio e interviste ai superstiti. È una storia di catastrofi incessanti iniziata con il crollo del monastero delle Clarisse nel 1450 cui seguono il terremoto violentissimo del 1695, la frana del 1707 e di nuovo il terremoto del 1764. Una storia di genti - dice Attili - che è anche e soprattutto fatta di resistenza, di caparbietà e di fedeltà alla terra. Gli archivi documentano una paziente ricostruzione e consolidamento ogni volta ricominciata: “modifica dei tracciati viari, tombatura di grotte, sistemazione di mura, ripristino di case, riparazione di ponti, realizzazione di palizzate…”. La popolazione civitonica non soltanto resiste ma produce un’indefessa capacità di costruire e prendersi cura del proprio spazio di vita. L’attaccamento alla terra sembra sfidare il destino avverso. Se un altro edificio cade e scompare, gli abitanti si serrano nelle poche case rimaste. Gli animali sono parte della popolazione, in particolare l’asino cui è affidato il trasporto di cose e materiali da costruzione oltre che il trasporto del ricavato dai boschi nel fondovalle. Ed è questo fiero e instancabile amico dell’uomo il soggetto di una delle feste popolari del borgo.
Non credo sia mai stata tentata una ricostruzione storica così attenta ai particolari di vita della sociale. C’è in questa drammatica vita comunitaria qualcosa che ricorda le pagine di Anna Maria Ortese nel suo bellissimo libro, Il mare non bagna Napoli (Adelphi, 1953); descrizione anch’essa tragica della vita del popolo napoletano nel ventre della città.
La seconda parte narra di una nuova rinascita di Civita intorno agli anni Sessanta. Questo evento è dovuto a un insieme di destini incrociati che portano a Civita l’architetto lettone Astra Zarina e suo marito, anch'egli architetto, Tony Costa Heywood. È amore a prima vista. Astra acquista immobili e decide di trasferirvisi, insieme al suo compagno, e far nascere una scuola residenziale denominata ‘Hilltowns Program’ che ogni anno, per qualche mese, ospita presso famiglie del luogo studenti di architettura e urbanistica delle università di Washington e di Pittsburg. Potrebbe essere la solita operazione snobistica ed elitaria e invece da un insieme eterogeneo di soggetti diversi nasce la riscoperta dell’antico borgo. Dopo una istintiva diffidenza sono gli stessi civitonici a “riscoprire” le bellezze della propria terra. Un innesto profondo tra vecchi e nuovi abitanti mossi da un’unica passione: far rivivere l’antico borgo.
Esaurita questa felice stagione il borgo diventa preda del turismo di massa fino a trasformarsi, come altri centri storici (per esempio Venezia o Roma o Firenze) in un parco di divertimenti e di spettacolarizzazione in una cornice transnazionale. Ed è proprio la sua museificazione che decreta una nuova morte per Civita. Là dove il museo è inteso, dice Agamben, come un luogo ed uno spazio fisico determinato, una dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo e ora non lo è più. Qui la storia del borgo si allinea con le tante storie dei centri storici italiani e degli altri borghi abbandonati nelle aree interne che ora, quest’ultimi, anche per effetto dell’epidemia tornano ad essere frequentati da spaventati cittadini in fuga dalla città.
Questo lavoro di ricerca è costato a Giovanni Attili anni di consultazione di archivi, l'inseguimento di tracce del passato, interviste ai protagonisti storici sopravvissuti. Questi, tuttavia, non sarebbero bastati a rappresentare la realtà di Civita se non fossero stati guidati da un’intensa passione per i luoghi e le persone con i quali Attili ha intrapreso un vero corpo a corpo, inseguendo e svelando il loro misterioso e magico intreccio, quello tra una comunità e la sua terra.
Enzo Scandurra
N.d.C. - Enzo Scandurra, già professore ordinario di Urbanistica, ha insegnato Sviluppo Sostenibile per l'Ambiente e il Territorio all'Università La Sapienza di Roma, dov'è stato direttore di Dipartimento e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria per l'Architettura e l'Urbanistica. Membro del consiglio scientifico di diverse riviste nazionali e internazionali, è tra i soci fondatori della Società dei Territorialisti e collabora a "il manifesto".
Tra i suoi ultimi libri: Vite periferiche (Ediesse, 2012); con Giovanni Attili (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni (DeriveApprodi, 2012); con Giovanni Attili, Pratiche di trasformazione dell'urbano (FrancoAngeli, 2013); Recinti urbani. Roma e luoghi dell'abitare (Manifestolibri, 2014); con Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); Fuori squadra (Castelvecchi, 2017); con Ilaria Agostini, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Exit Roma (Castelvecchi, 2019).
Per Città Bene Comune ha scritto: La strada che parla (26 maggio 2017); Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica (19 ottobre 2017); Periferie oggi, tra disuguaglianza e creatività (18 ottobre 2019).
Sui libri di Enzo Scandurra, v. i commenti di: Giancarlo Consonni, In Italia c’è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Francesco Indovina, Non tutte le colpe sono dell’urbanistica (14 settembre 2018); Renzo Riboldazzi, Agostini e Scandurra a Città Bene Comune. Le ragioni di un incontro (3 maggio 2019); Carlo Cellamare, Roma tra finzione e realtà (18 luglio 2019); Graziella Tonon, Città: il disinteresse dell’urbanistica (11 ottobre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 05 MARZO 2021 |