Andrea Villani  
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POST-METROPOLI: QUALE GOVERNO?


Commento al libro curato da A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci



Andrea Villani


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Obiettivo di questa riflessione su Oltre la metropoli. L'urbanizzazione regionale in Italia (Guerini e Associati, Milano 2017), curato da Alessandro Balducci, Valeria Fedeli e Francesco Curci, è quello di cercare di capire se effettivamente è in corso o addirittura se c'è già stato - come si sostiene nel libro - un significativo passaggio da quella che è stata definita 'condizione urbana metropolitana' a una successiva sostanzialmente diversa. E se questa diversità è tale non solo da interessare la vita degli abitanti di questi territori - anche per ciò che riguarda i loro problemi, quelli di ogni giorno e quelli eccezionali e tuttavia importanti nell'esistenza di ciascuno di noi -, ma da meritare l'attenzione di ricercatori e studiosi interessati a definire le forme e le funzioni degli insediamenti umani, oltre che una progettualità collettiva e decisioni pubbliche: quelle riconducibili ai vari livelli del governo, dal locale all'area vasta sub-regionale, dal livello regionale a quello nazionale.

Per quanto riguarda il caso italiano, l'evoluzione, il passaggio da una situazione all'altra è, o meglio, sarebbe riferibile a ciò che è accaduto dal 1945 a oggi. Vale a dire dalla fine della seconda guerra mondiale al 2018. In questo periodo di tempo - che possiamo considerare lungo nel modo abituale di pensare e sentire dei cittadini, ma non lo è dal punto di vista degli storici - sono avvenute alla scala mondiale, ma anche in Europa e in modo particolare in Italia, rilevantissime trasformazioni in ogni ambito: nella tecnologia, nel lavoro, nell'occupazione, nelle attività di produzione e di consumo così come nei valori personali e collettivi, civili e religiosi. E quindi, in stretta connessione, nei comportamenti personali e di gruppo; nei livelli di istruzione e di uso del tempo libero; nella mobilità; nella tutela della salute; nei rapporti tra i sessi (ovvero nei rapporti 'di genere'); nelle arti, nell'architettura, nell'urbanistica; e - last but not least - nelle molteplici forme di intervento pubblico nella società. Questa molteplicità di cambiamenti ha influenzato e tuttora incide su molti aspetti della vita sociale in generale. Ma questi cambiamenti, continui e perfino straordinari ove si consideri un arco di tempo di meno di un secolo, non sono uguali per tutti i popoli e in tutte le parti del mondo. E per quanto riguarda il caso italiano non sono, per molti aspetti, uguali in tutte le parti del Paese. A ciò si aggiunga che non tutti hanno la medesima rilevanza nel determinare la trasformazione-evoluzione della vita delle città e del territorio.

Ora, dal mio punto di vista emerge una questione piuttosto interessante. Ciascuno degli aspetti di innovazione indicati sopra è abitualmente oggetto di considerazione per esempio da parte di chi progetta e produce beni e servizi. Oppure è studiato e interpretato dai sociologi dei consumi; dagli antropologi, da filosofi, economisti, storici del costume, della morale, della politica. Ma - mi chiedo - fino a che punto questi aspetti interessano l'urbanistica, il progetto urbano e territoriale così come l'abbiamo inteso finora?

Tanto nell'introduzione del libro, quanto in talune relazioni in esso contenute o comunque riferibili alla stessa ricerca da cui il libro scaturisce, ho trovato chiari riferimenti a tradizionali forme di riflessione sulla città, forme che sono proprie degli urbanisti, siano essi teorici, studiosi dell'urban planning, o pianificatori che praticano la professione in concreto cercando di gestire la città e i territori; vale a dire di determinarli, di pianificarne l'evoluzione. In altri saggi, invece, ho trovato un racconto - senza un tentativo di interpretazione - di molte trasformazioni di comportamenti e modi di essere delle persone o della società che, quanto meno in prima istanza, sembrerebbe non aver nulla a che fare con l'urbanistica, almeno con quel modo di concepire la disciplina sin qui prevalente. Non dico che questi aspetti dell'analisi di cui si rende conto nel libro non siano interessanti e non meritino di essere presi in considerazione per esempio dagli studiosi delle scienze sociali. Certo è che appaiono quanto meno curiosi agli occhi di chi, come il sottoscritto, si interessa del modo di essere fisico della città, della geografia urbana, della pianificazione urbana e territoriale in generale.

 

Prima della post-metropoli

Credo che per parlare in modo adeguato e comprensibile della 'post-metropoli' sia opportuno ricordare, almeno a grandi linee, qual è stata la realtà urbana e territoriale prima della metropoli. Prendiamo, a titolo esemplificativo, il caso milanese in cui le mutazioni sono state particolarmente rilevanti. Certamente se giro per la città e il territorio di quella che era la provincia di Milano, vedo espressioni fisiche di molte diverse epoche del passato. Diciamo, per intenderci, dal secondo dopoguerra a oggi. Milano, per tutti gli anni Cinquanta, era una città dell'industria manifatturiera e ai suoi confini - all'interno o nell'immediato esterno - anche dell'industria pesante. Un'industria in ascesa, che aumentava la produzione e l'occupazione, che induceva centinaia di migliaia di persone a immigrare nel capoluogo lombardo. Era l'epoca del boom economico, ovvero del 'miracolo economico italiano', gli anni in cui il reddito disponibile attraverso il pieno impiego rendeva accessibili anche alla classe operaia e impiegatizia nuovi beni e servizi. Insieme con le fabbriche, si costruivano così le case per i nuovi e i vecchi cittadini. E con queste i mobili, gli elettrodomestici e - da metà anni Cinquanta - inizio anni Sessanta - anche la televisione.

Tutto questo comportò evidentemente una trasformazione fisica della città e del territorio. Per esempio, ancora per tutti gli anni Cinquanta e per buona parte degli anni Sessanta, i quartieri esterni al corpo principale di Milano - per capirsi Gorla, Turro, Precotto, Affori - erano nettamente separati uno dall'altro e dal nucleo centrale della città. Tra ciascuno di essi c'era la campagna, quella che progressivamente verrà edificata fino creare quell'indistinta amalgama che oggi conosciamo. In quel tempo erano ancora molto scarse anche le automobili sulle strade. I molti lavoratori che confluivano ogni giorno a Milano per il lavoro vi arrivavano con le vaporiere. Non c'era ancora stata l'elettrificazione delle ferrovie e dalla linea Torino-Milano si giungeva fino alla stazione delle Varesine, poi arretrate a quella che oggi è la stazione Garibaldi, liberando così l'area di Porta Nuova rimasta incompiuta fino ai giorni nostri.

Nell'arco di un decennio, lo sviluppo industriale determinò quella che apparve come una grande rivoluzione urbanistica. A metà degli anni Sessanta molti dei più importanti urbanisti sulla scena milanese, tra cui per esempio Giancarlo De Carlo, parlavano di 'indifferenza insediativa', per indicare che ormai con la rete viabilistica e dei trasporti esistente, per un'impresa industriale o commerciale, come per una famiglia o una persona, sarebbe stato indifferente localizzarsi in qualsiasi punto del territorio di quella che abitualmente era definita 'area metropolitana milanese'. Così le aree libere di campagna tra i centri urbani intorno a Milano progressivamente scomparvero. Al posto dei prati, sorsero fabbriche e attrezzature al loro servizio; luoghi di commercio, scuole, complessi condominiali e quartieri di case popolari, con un connesso insieme di servizi collettivi pubblici di base. Nelle zone a sud di Milano, l'abbandono dell'agricoltura fece tramontare, dopo un migliaio di anni, la pratica agricola della 'marcita'.

Già negli anni Settanta e Ottanta si verificò un'ulteriore grande trasformazione con il passaggio dalla città industriale a quella dei servizi. Molte industrie decentrarono altrove le loro attività e le aree lasciate libere vennero destinate a residenze, uffici, servizi, funzioni terziarie e commerciali. Si avviò l'epoca del trionfo dell'automobile a livello di massa che, oltre a consentire un'elevata mobilità a un grandissimo numero di persone in tutti i punti del territorio nazionale e internazionale, fu causa di problemi di congestione del traffico in ambito urbano ma anche sulla rete extraurbana e sulle autostrade. In connessione con questo, fu lo sviluppo delle località di vacanza; la realizzazione di villaggi turistici, al mare e in montagna; la diffusione dei trasporti aerei, con una nuova rete internazionale e con effetti evidenti anche in Italia. Tutto questo era indice di una situazione di benessere diffuso anche se questo non era tale da coinvolgere tutti i cittadini italiani. La stragrande maggioranza dei giovani frequentava le scuole superiori e, in Italia, si ampliava a dismisura il numero degli iscritti all'università e quindi dei laureati, seppur in misura ancora inferiore rispetto agli altri paesi europei.

Poi si arriva agli anni Novanta. E nell'ultimo decennio del secolo si verificano ulteriori gigantesche innovazioni, in aggiunta a quelle dei quarant'anni precedenti. Queste sono avvenute sotto il segno del liberismo e nel quadro dei processi di globalizzazione che hanno riguardato l'intero pianeta e che ancora oggi caratterizzano molte trasformazioni in corso. Segnano la fine del predominio del modello culturale occidentale, l'avvio e la diffusione di tecnologie estremamente innovative e pervasive che hanno trasformato il nostro modo di lavorare: nelle fabbriche, in casa, nei negozi; e - nel senso più generale - nel modo di comunicare. A ciò si aggiunga lo sviluppo di una nuova e spregiudicata finanza; l'invenzione di nuovi consumi e, con una dimensione drammatica, le migrazioni dai paesi meno sviluppati del mondo crescenti a un ritmo rilevantissimo.

 

Un presente complicato e un futuro incerto

Qui siamo oggi. In un momento in cui non solo la finanza internazionale ha dimostrato tutti suoi limiti, ma dove anche quelle attività che hanno condizionato la vita delle nostre città e dei nostri territori negli ultimi decenni stanno segnando il passo. Pensiamo, per esempio, alla grande distribuzione commerciale. Leggo dalle cronache che negli Stati Uniti il colosso dei giocattoli, Toys 'R' Us, dichiara fallimento. Non si tratta di un caso isolato. È accaduto, anzi, sta accadendo questo nei paesi economicamente più sviluppati. La grande distribuzione, quella degli shopping center che ha distrutto radicalmente il tessuto delle piccole attività commerciali alla scala locale - quello dei negozi che giocavano, e in molti contesti ancora giocano, una parte che ritengo essenziale per la qualità degli insediamenti umani in termini di relazioni e immagine urbana - sembra non funzionare più. Pensavo che la rete dei centri commerciali - con la loro inesorabile, non contendibile ascesa - potesse costituire la 'nuova piazza' nel contesto di società tecnicamente e forse culturalmente avanzate del nostro tempo, con un ruolo nuovo anche nel determinare la qualità del paesaggio urbano. Anche se certamente shopping center (o shopping mall) sono un luogo di concentrazione di persone e le food court in ogni dove mostrano pur esse una folla di utenti, questo non significa che siano luogo di relazioni interpersonali, né luoghi di incontro in contesti comunitari. In altri termini, mi pare che le cose non si siano sviluppate e non stiano andando come molti avevano incautamente e piuttosto superficialmente previsto.

Oggi Amazon, e in generale gli acquisti on-line, quanto meno per una quantità di merci, stanno sostituendo anche la grande distribuzione. Si tratta di un'evidente conseguenza della diffusione a livello di massa dei mezzi di comunicazione elettronica, dell'uso sempre più diffuso di computer, cellulari e tablet che stanno determinando un'enormità di cambiamenti nella vita delle persone, nei loro modi di rapportarsi e di lavorare. E questo non solo nel contesto delle grandi città, ancora tutte compatte nella loro ben reale consistenza fisica, ma fino ai centri minori; dappertutto, là dove vi sia - e normalmente vi è - una connessione Internet con tutto il mondo. Questo - va sottolineato - è un processo continuo, senza interruzioni, che ha enormi conseguenze. E se il cambiamento degli stili di vita può essere indicativo dell'anima di un'epoca, penso che l'inizio di quella che stiamo vivendo possa coincidere con l'avvio della diffusione dell'elettronica e dell'automazione. Queste gigantesche innovazioni, insieme con altrettanto enormi cambiamenti di comportamento da parte della stragrande maggioranza della popolazione, certamente hanno cambiato le città, specie se della città non consideriamo solo la struttura fisica, ma anche i cittadini, tutti coloro che la abitano e la fanno vivere.

Detto questo, tuttavia, una delle cose che più colpiscono in talune delle relazioni incluse nel libro curato da Balducci-Fedeli-Curci - in particolare quella relativa al Veneto - è il fatto di aver messo in evidenza come elementi caratterizzanti la 'post-metropoli' una serie di fenomeni sociali che sembrerebbero avere poco a che fare con l'urbanistica. Mi riferisco, ad esempio, al mutamento dei rapporti di coppia; al ridursi a dismisura dei matrimoni o ai modi d'uso del tempo libero, etc. Ciò che sembra emergere è che quando parliamo di 'post-metropoli' possiamo intendere (e forse mettere sullo stesso piano) sia strutture e infrastrutture che col loro modo di essere individuano ed esprimono la realtà fisica di questa realtà, sia tutto ciò che in qualsiasi modo coinvolge la vita delle persone che in quella stessa realtà vivono. Dunque uno degli elementi in gioco in questa trasformazione - vale a dire quella del passaggio da una condizione metropolitana a una post-metropolitana - riguarderebbe il ruolo dell'operatore pubblico nell'affrontare queste realtà da questo specifico punto di vista. Un fatto che - ho sottolineato molte volte - è provato dal continuo, graduale cambiamento degli obiettivi dei diversi livelli di governo della cosa pubblica. Oggi tutti i centri di una qualsiasi Città Metropolitana svolgono una molteplicità di funzioni impensabili un tempo: per l'istruzione, la cultura, lo sport, l'assistenza agli anziani e ai disabili, la tutela della salute e molte altre cose.

Ora, qui veniamo a un punto importante. Gli orientamenti culturali dominanti per quanto riguarda l'assetto fisico della città e del territorio sono stati in prevalenza in favore di un'azione pubblica volta a determinarne il futuro, attraverso la formazione di strumenti urbanistici coercitivi: i piani regolatori dello sviluppo o della trasformazione urbana. E questi strumenti, nell'esperienza italiana, sono stati elaborati seguendo spesso le procedure e gli obiettivi razionalisti derivati dalla Carta d'Atene tradotti in Italia con le prescrizioni della legge n. 1150 del 1942. Poi le cose sono cambiate e le modalità di intervento nella città e sul territorio sono state ampiamente modificate. Si è cioè passati dalla progettazione di quartieri razionalisti modello alla periferia delle grandi e meno grandi città, all'attenzione per il recupero dei centri storici; poi alla tutela del paesaggio e a politiche ambientali onni-inclusive, con la creazione di aree di riserve naturali, di grandi parchi regionali; di parchi di interesse metropolitano o urbano; di giardini urbani e di quartiere. Vincoli ambientali che - stabiliti e gestiti dalle autorità di area vasta (nazionale, regionale, provinciale) - hanno ad evidenza determinato limiti alle possibilità di espansione dell'edificato. E poi, modifiche delle leggi urbanistiche con l'attribuzione a ogni Comune del potere di stabilire i propri obiettivi di sviluppo; le proprie regole; e insieme con questo la rinuncia a definire ex-ante la forma della città nella sua dinamica, in vista di esiti prestabiliti. Il clima culturale dominante alla fine degli anni Ottanta ha cioè fatto accantonare totalmente quello che era stato lo spirito della programmazione urbanistica e economica. Certo, questo per realizzare obiettivi socialmente rilevanti ma non avendo in mente, nè meno che mai mettendo in evidenza come guida di una qualsiasi politica, un criterio che potesse misurarsi con quello che era stato lo spirito dell'urbanistica del dopoguerra e degli anni del boom economico. E lo sviluppo ulteriore dell'urbanistica degli USA, dell'Europa, e in una certa misura anche nelle aree più sviluppate del nostro Paese, è divenuto spesso quello di attuare una regeneration dei quartieri e delle zone abbandonate causa delocalizzazione di industrie, o comunque fatiscenti, per includervi le funzioni più avanzate e sofisticate, con realizzazioni architettoniche possibilmente degli architetti più noti sulla scena mondiale.

 

Quale governo?

Che questo insieme di cose esprima una realtà diversa da quella dei decenni precedenti più o meno vicini è evidente. E che questa possa essere considerata quella 'post-metropolitana' non fa problema. Certo, sono ormai numerosi i fenomeni che vengono qualificati o si auto-qualificano come post- o neo- e magari si potrà anche compiere una convincente periodizzazione, e attribuire un'appropriata meno vaga denominazione. Quello che tuttavia mi preme sottolineare è che non mi preoccupa affatto che fenomeni urbanistici, economici, tecnologici, aventi ripercussioni alla scala individuale o collettiva, siano ambigui; non solo di difficile maneggiabilità e dominio, ma anche di difficile comprensione per quanto concerne le loro interrelazioni e le loro conseguenze. Quello che ritengo di poter e dover dire riguarda ciò di cui il momento pubblico - id est il governo - dovrebbe interessarsi, ai diversi livelli; e ciò che invece dovrebbe essere lasciato alla libera iniziativa e decisione degli operatori privati. A livello di struttura territoriale, sembrerebbe quasi - dai discorsi che si fanno sul governo della città metropolitana, prima ancora di quella post-metropolitana - che non si possano più individuare gli attori pubblici appropriati per lo svolgimento delle diverse funzioni.

Ora io non credo che si possa pensare a un governo per singole funzioni, magari svolte da soggetti diversi, ovvero istituzioni private, nell'ambito di specifici modi di procedere regolamentati nei singoli paesi, o in loro parti. Devo però essere ben chiaro a questo proposito che senza dubbio la decisione - faccio un esempio - sulla localizzazione di un aeroporto, la definizione di un importante tracciato autostradale o ferroviario, di un porto, di una centrale nucleare, di un grande centro sanitario-ospedaliero, o altre strutture o infrastrutture che per la loro importanza, per le loro esternalità riguardino una pluralità di territori e città, dovrà necessariamente coinvolgere - specie dove appaiano più evidenti le esternalità negative rispetto a quelle positive - anche i governi dei territori interessati. E questo coinvolgimento - in una società liberale e democratica dove ogni certo tempo si voti - deve necessariamente includere un processo di informazione, di negoziazione, di azioni di spiegazione e di convincimento, e anche di attribuzione di indennizzi.

In altri termini, credo che anche per i territori post-metropolitani sia del tutto appropriato un modello geografico gerarchico-gravitazionale. Per ciò che riguarda il Comune di base, o il Quartiere di base, la logica è che la decisione debba venire presa dal Comune che interpreta le esigenze dei suoi cittadini, con un basso numero di tensioni e conflitti per la localizzazione delle strutture che debbano avere accessibilità pedonale. Per le funzioni di livello superiore, è chiaro che in varia misura debbano ubicarsi in centri di maggiori dimensioni, con un'intersezione (ovvero overlapping, sovrapposizione) tra funzioni micro-locali e funzioni di livello superiore. Per la soluzione delle difficoltà per incompatibilità esistono soltanto due sistemi: la decisione di autorità, che obbliga i cittadini ad accettare ciò che è deciso dal governo dell'ambito più vasto; oppure il convincimento dei cittadini, dalla progettazione alla realizzazione, che riduca nella maggiore misura possibile conflitti e contraddizioni. È chiaro che per talune funzioni a iniziare da quella relativa al lavoro ma anche al divertimento, alla cultura, all'arte, e a ogni altra funzione nuova e di livello eccezionale che man mano emerga, ogni cittadino della 'città di città' che forma la regione metropolitana (o, allo stesso modo, 'post-metropolitana') si sposterà' sul territorio in conformità alle sue personali esigenze e preferenze circa gli obiettivi e i mezzi da usare. Ma non vedo per quale motivo l'autorità della Regione o della Città Metropolitana o le singole autorità competenti per ogni area vasta debba interessarsi di altro che di creare una rete di mobilità che consenta, nella maggiore misura possibile, l'accessibilità ai luoghi delle peculiari eccezionali funzioni. Ciò che non dovrebbe fare il sistema attuale di governo - in una società nella quale l'unico valore dominante e condiviso è quello della libertà di comportamento individuale - è quello di voler stabilire regole di comportamento per tutti i cittadini avendo individuato dei criteri di giustizia, di bellezza, di conservazione e valorizzazione della natura e le modalità per raggiungere questi obiettivi. Questo, magari con l'obiettivo non dichiarato di omologare, cioè di rendere non solo omogenei, ma addirittura uguali tutti i comportamenti. Il compito da svolgere, adesso, per chi come noi intenda avere cura gelosa non solo della libera capacità di autodeterminazione e innovazione, ma anche di conservazione dei valori comunitari o personali identitari, è quello di individuare una a una leggi e regole che, come la migliore urbanistica novecentesca ci ha insegnato, contengano concreti modi di procedere tesi a salvaguardare tanto l'interesse del singolo quanto quello della collettività.

Andrea Villani

 

 

 

N.d.C. - Laureato in scienze economiche, filosofia e architettura, Andrea Villani ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese. Ha insegnato Economia urbana all'Università Cattolica di Milano ed è stato coordinatore del programma Sulla citta, oggi. Ha inoltre diretto "Citta e Società", è stato condirettore di "Edilizia Popolare" e attualmente è tra gli animatori e coordinatori di ULTRA (Urban Life and Territorial Research Agency) del Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Tra i suoi libri editi da ISU Universita Cattolica: La pianificazione della città e del territorio (1986); La pianificazione urbanistica nella società liberale (1993); La gestione del territorio, gli attori, le regole (2002); Scelte per la città. La politica urbanistica (2002); La decisione di Ulisse (2000); La città del buongoverno (2003).

Per Città Bene Comune ha scritto: Disegnare, prevedere, organizzare le città (28 aprile 2016); Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016); Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016), Pianificazione antifragile, una teoria fragile (10 novembre 2017), L'ardua speranza di una magnificenza civile (15 dicembre 2017).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: P. Bassetti, La città è morta? Il futuro oltre la metropoli (10 novembre 2017).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

20 APRILE 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
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cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano

2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea, 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

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