Al tavolo di Parigi si confrontano la natura e la storia. Non esistono e non sono esistiti popoli senza storia, ha detto Lévi-Strauss, e così idealmente tutti i popoli, passati, presenti e futuri, sono convocati al vertice di Parigi. Essi devono render conto, essenzialmente a se stessi, della loro sovrabbondanza, cioè della loro capacità di crearsi un ambiente che sopravanza, nel bene e nel male, le condizioni dello sviluppo naturale di tutti gli altri viventi.
C’è chi accusa i popoli dell’Occidente di essere stati e di essere tuttora i massimi inquinatori del pianeta, avendone tratto grande ricchezza, a scapito di tutti gli altri. Quindi rifiutano limitazioni e sacrifici. Hanno ragione, ma è una ragione piccola e inutile: gli oceani e le tempeste non si arresteranno per questo. E poi anche loro hanno fatto, in passato, la loro parte nel perseguire un destino sovrannaturale e in questo senso storico. Se non promossero inquinamenti molto significativi fu solo perché non ne avevano i mezzi, quei mezzi che ora pretenderebbero di utilizzare a loro volta.
Perché i conti tornino è necessario che tutti, ma proprio tutti, si assumano la responsabilità del processo che ci ha reso “umani”, senza recriminazioni e senza fughe in altrettanto vacui misticismi naturalistici: una retorica indegna degli esseri umani del terzo millennio e dei loro problemi. È necessario il ricorso a una ragione davvero comune, a una ragione efficiente e all’altezza della dignità del suo compito: quello di salvare se stessa e insieme la natura e la sua storia, profonda, sterminata, incircoscrivibile. Certo, questo appello alla ragione comune non è privo di problemi e di interferenze irrazionali. Come ha scritto Whitehead, “la ragione è oscillante, vaga, oscura, ma c’è”.