RIFLETTERE, PENSARE E CAPIRE PRIMA DI “MILITARE”

L’ultimo autorevole sondaggio politico ha diffuso un esito clamoroso: i 5 Stelle hanno superato il PD staccandolo di quasi 10 punti. Se si votasse oggi, con l’attuale legge, quelli che non ci si azzarda più troppo a chiamare “i grillini” prenderebbero il potere. Effetto contingente delle vittorie comunali a Roma, a Torino e in altri piccoli centri, non c’è dubbio. Nondimeno l’impressione rimane e, senza pretesa di un’analisi credibile di un fenomeno tanto complesso, vorrei suggerire una riflessione.

La vita delle società, dalla politica all’economia, dallo scambio privato a quello pubblico, dall’amicizia al mercato, si fonda pressoché interamente e in primis sulla fiducia. Senza fede che, frequentandoti, nasceranno occasioni di vita migliori per me (e per te), nessuno andrebbe da nessuna parte. E così sempre di nuovo assistiamo a ingenti masse di cittadini e di votanti che, scontenti del vecchio, puntano sul primo politico, o sulla prima forza politica, che, con efficacia “retorica”, promette il bello e il nuovo. Capisco che è un riflesso irresistibile, perché senza speranza non si può vivere né continuare a soffrire. L’esperienza contraria non è in proposito efficace: dopo l’era del berlusconismo, piena di promesse e ancora più di delusioni e di bugie, dovremmo essere particolarmente smaliziati, ma è chiaro che non è così.

La vera domanda e la concreta attenzione dovrebbero riguardare infatti i problemi che ci affliggono (non gli attori sbraitanti sul palco), le strutture socio-economiche di cui disponiamo e così via: è ragionevole sperare che tali problemi possano essere risolti da un giorno all’altro con la buona volontà e una (supposta) personale onestà? Dovremmo poi chiederci chi sono, da dove vengono, che formazione hanno avuto questi presunti salvatori, come sono stati eletti e perché. Oh, dovremmo proprio chiedercelo e richiedercelo, anche se capisco che è difficile, per noi, uomini e donne della strada, ottenere informazioni approfondite e attendibili. Però, almeno un po’, si può fare. Fatelo amici concittadini; non ripetiamo la solita disgustosa e deprimente storia. E se del passato e del presente non siamo contenti (ce n’è di che), guardiamoci attentamente da coloro che pretenderebbero, per grazia ricevuta, di salvarci dall’oggi al domani: basta che ci votiate. Non fraintendetemi: non parlo né a favore né contro questo o quel voto. Chiedo che ognuno si sforzi di riflettere, di pensare e di capire, prima di “militare”. A mio avviso, sarebbe già tanto.

ALTRI MONDI DELL’IMMAGINARE, DELL’INNOVARE E DEL FARE PER UNA NUOVA AVVENTURA

I due candidati a diventare Presidenti degli Stati Uniti dispiacciono al sessanta per cento della popolazione americana, cosa mai prima accaduta. In verità non pare che siano molto graditi neppure altrove. Fenomeno macroscopico di quella crisi della politica che, ha scritto Vittorio Zucconi, è un vento pieno di paura e di collera che soffia dalle Alpi alle Montagne Rocciose. Il fatto è che non ci sono più grandi protagonisti, non solo nella politica, ma in generale dappertutto, nel mondo del cinema premiato a Cannes, nella nazionale di calcio, nella musica popolare e così via. Mancano le personalità geniali e creative. Epoca di decadenza, la nostra. Cosa invero che si ripete regolarmente dal tempo di Adamo, che della decadenza poteva indubbiamente lamentarsi a buon diritto.

Non credo che le cose stiano propriamente così. Non credo all’esistenza assoluta e astratta della originalità, della creatività e del genio. Credo al contrario che le condizioni perché grandi pensieri e grandi imprese emergano negli individui siano sempre abbondantemente quanto potenzialmente presenti nella maggioranza degli esseri umani. Quello che oggi manca, come in altri periodi, sono le condizioni “materiali” per il loro manifestarsi e concretarsi. In altre parole, mancano, a mio avviso, gli stimoli reali, gli strumenti concreti e i modelli efficaci per le trasformazioni innovative semplicemente perché le strutture economiche e sociali esistenti ne impediscono in molti modi il delinearsi e l’emergenza. Siamo come soffocati e rinchiusi in strutture del vivere e del fare che non lasciano entrare l’aria e che nel contempo impediscono ostinatamente e, purtroppo, efficacemente che si aprano porte e finestre.

In queste condizioni i singoli individui non possono da soli modificare la situazione, possono solo sfruttarla in parte, a proprio effimero vantaggio. Ma nel contempo, io credo, certamente si muovono in modo sotterraneo e del tutto invisibile per i nostri vecchi sguardi altri mondi dell’immaginare, dell’innovare e del fare, che emergeranno nel loro tempo opportuno e doneranno lo spazio perché finalmente lo spirito umano creativo, che soffia ovunque e non solo dove immaginiamo noi, travolga le barriere e dia inizio a una nuova avventura. Non sarà tutto rose e fiori, non eviteremo lacrime e sangue: già non li stiamo evitando. Speriamo però anche questa volta di cavarcela, così che un giorno, dopo epocali imprese e mirabili creazioni, si possa ricominciare a lamentarsi un poco della incipiente decadenza che ci affligge.

LA PORTA ROSSA PER TORNARE AL FUTURO

La porta rossa di Ferruccio Capelli è davvero un piccolo grande libro. Scritto per celebrare i 70 anni della Casa della Cultura di Milano, ha il pregio straordinario di riuscire a far convergere in una storia molto particolare il senso e la trama di un intero orizzonte di vicende nazionali e internazionali che in questo lasso di tempo hanno attraversato e spesso anche sconvolto le nostre vite.

Si comincia, naturalmente, con le vicende dell’esordio, per molti motivi le più appassionanti, sia per i pochi che, magari giovanissimi, ne furono contemporanei o addirittura testimoni, sia per coloro che oggi ne sanno ormai pochissimo o meno di niente. Le radici della Casa della Cultura nascono infatti nel mezzo della lotta partigiana, come generoso e coraggioso progetto culturale elaborato durante la clandestinità da Antonio Banfi, Eugenio Curiel ed Elio Vittorini. Il progetto trova la sua realizzazione il 16 marzo 1946, quando Ferruccio Parri, ex comandante partigiano e ora primo Presidente del Consiglio della nuova Italia, inaugura la prima sede della associazione culturale. Essa trova espressioni parallele ed emblematiche nella famosa rivista di Vittorini, “Il Politecnico”, e nella rivista di Banfi “Studi filosofici”, vero crogiuolo per la formazione di giovani studiosi. Entrambe, scrisse allora Vittorini, sono l’espressione “di un umanesimo radicale e completo”.

In questa ammirevole formula sono già concentrate le virtù, le avversità e le fortune della Casa della Cultura. Un umanesimo di stampo illuminista, non retorico ma concretamente attivo su tutto il fronte della conoscenza e della scienza; radicale perché connesso profondamente con la lotta politica in favore delle classi lavoratrici e proletarie. Ma i tempi erano oscuri e non poco tempestosi. Capelli li rievoca con grande puntualità ed efficacia.

In senso internazionale, si diffondevano come tentacoli le ambigue e tenebrose vicende della guerra fredda; su scala nazionale spirava il cosiddetto “vento del Nord”, cioè il tentativo di realizzare nelle regioni settentrionali gli ideali più avanzati della guerra partigiana, con profondi quanto occasionali interventi nella società civile e nell’economia. La Casa della Cultura rappresentava il contesto culturale alto e magnanimo di questo impulso verso un reale rinnovamento della società italiana. L’opposizione dei ceti e dei partiti conservatori fu naturalmente fortissima, ma il punto decisivo accadde, come si sa, con la dura condanna del Partito Comunista, attraverso la rivista “Rinascita” e di Togliatti in persona: un movimento culturale che Togliatti e altri dirigenti del Partito giudicarono intellettualista, borghese, elitario, contrario agli interessi storici delle masse popolari, meglio rappresentati da una “cultura nazionale” che si richiamasse per esempio molto più a De Sanctis e a Labriola che non a Sartre e agli intellettuali parigini. L’esito fu disastroso: “Il Politecnico”, dopo l’uscita di Vittorini dal Partito Comunista, cessò ben presto di esistere e analogamente cessò le pubblicazioni anche “Studi filosofici”. Alla fine del 1949 la Casa della Cultura chiuse i battenti.

Riflettere su questa vicenda con il senno di poi è ovviamente facile, ma sarebbe ingenuo e soprattutto ingeneroso non tener conto delle difficilissime situazioni che travagliarono in quei decenni l’Europa, l’Italia e tutto il mondo industrializzato. Costretto a una ferrea dipendenza rispetto all’Unione Sovietica, circondato dalla reazione implacabile degli interessi capitalistici e dalle oscure manovre dei servizi segreti internazionali, obbligato a crescere sì esponenzialmente nelle occasioni elettorali, ma anche a controllare e stabilire certi limiti e modi di ascesa politica nel rispetto di strategie più grandi dei nostri orizzonti nazionali, il Partito Comunista non poteva che avvitarsi in una politica culturale spesso insincera, di mera facciata, di prudente ipocrisia e di continua allerta nei confronti delle sue stesse più creative avanguardie intellettuali. I necessari, o ritenuti tali, tatticismi, per esempio nei confronti della Democrazia Cristiana, non di rado prevalevano sulla libertà di espressione rivendicata dagli esponenti della cultura di sinistra. Forse non era allora possibile altra linea politica; certo fu proprio questa linea a segnare alla lunga la crisi e poi la rovina totale del massimo partito marxista in Europa: una catastrofe alla quale abbiamo assistito negli ultimi decenni e che oggi può dirsi totalmente, e anche amaramente, compiuta. Ma la Casa della Cultura si salvò.

Essa rinacque nel 1951, non senza l’interessamento indiretto dello stesso Togliatti e soprattutto per l’opera intelligente e accorta di Rossana Rossanda, giovane allieva di Banfi: troppo prezioso e urgente era il lavoro di diffusione critica e di innalzamento culturale che la Casa della Cultura aveva avviato a Milano, la capitale morale della giovane repubblica, innalzamento che era ancor più in grado di promuovere nel futuro. Naturalmente le scelte di fondo furono questa volta molto più elastiche, accorte e consapevoli; coscienti cioè dell’inevitabile divorzio che spesso si genera tra le esigenze immediate della politica e le visioni invece libere e lungimiranti della riflessione culturale. Cominciò così una nuova storia. Con una apertura a trecentosessanta gradi su tutta la cultura di stampo progressista, attraverso collaborazioni con il Piccolo Teatro, con la Scala e con i maggiori intellettuali italiani ed europei, la Casa della Cultura si impose come luogo di dibattiti liberi e spesso di qualità eccelsa, in mezzo alla sorda ostilità del mondo conservatore milanese e della stampa reazionaria del tempo, a cominciare dal “Corriere della sera” di quegli anni.

Ma una nuova tempesta era nell’aria ed esplose alla fine del 1956, quando i carri armati sovietici invasero Budapest. Ricorda Rossanda che quando l’ineffabile Alicata (che già si era segnalato nella prima condanna di Vittorini e Banfi) sostenne alla Casa della Cultura che a Budapest i russi stavano difendendo l’indipendenza dell’Ungheria, “dalla sala si alzò un ruggito”. I programmi della Casa della Cultura seppero far fronte alla nuova situazione che registrava la frattura drammatica delle forze politiche di sinistra. Per tutto il corso degli anni Sessanta i responsabili della associazione milanese continuarono la loro preziosa opera di costruzione e annodamento dei maggiori fili della ricerca culturale, in tutti i campi del sapere, delle arti e della letteratura e attraverso l’opera di grandi protagonisti che Cappelli descrive e ricorda al lettore con sapienza ed efficacia. Ormai era diventato chiaro che il programma della Casa della Cultura, nato dalla comune lotta antifascista, aveva proprio in queste radici il suo primo e il più durevole fondamento, che di fatto, nel corso dei decenni successivi, non venne mai smentito.

Capelli accompagna il lettore attraverso le vicende degli anni Sessanta e Settanta, dei cosiddetti anni del grande benessere e della crescita tumultuosa, sino al lungo crepuscolo del berlusconismo e al suo liberismo ingannevole e illusionistico; rievoca i contraccolpi nati dagli sconvolgimenti seguiti alla caduta del muro di Berlino e dagli anni di piombo sino all’odierna crisi economica e politica mondiale, tuttora assai virulenta. Le antiche figure degli intellettuali impegnati sono scomparse da tempo e la loro stessa funzione, negli scenari del presente, sembra essere diventata obsoleta. La politica si è sempre più ridotta ad amministrazione spicciola dell’esistente: quando non corrotta, essa è nondimeno miope o meramente pragmatica. Il divorzio della politica con la grande cultura è da tempo sotto gli occhi di tutti: l’unica cultura politica che persiste è quella volta alla cattura del consenso e alla esibizione mediatica. Poi ci sono i fenomeni della cultura di massa, mentre si impone la spettacolarizzazione di ogni iniziativa come condizione della sua stessa esistenza o supposta efficacia. Nel contempo le risorse per la cultura divengono ogni giorno più scarse e l’attenzione del pubblico più svagata, dispersa, frammentata e soprattutto, in larga misura, mercificata. Come può difendersi, in un simile clima, un’associazione come la Casa della Cultura? Come può tener fede alla sua storia e alle sue finalità morali e sociali? Come può sopravvivere materialmente (e il problema ha segnato momenti anche drammatici, per fortuna e per merito ampiamente superati)?

Ecco le domande che Capelli affronta con grande trasparenza e coraggio alla fine della storia che ha così calorosamente e precisamente narrato. La risposta ha un titolo quanto mai suggestivo e interessante; esso suona “Ritorno al futuro”. In sostanza: riportare nelle nuove condizioni del presente e del futuro quello spirito illuminista, quel razionalismo critico che fu l’ispirazione prima dell’intera impresa e la visione fondamentale dei suoi maestri. Si tratta di stare criticamente dentro il grande cambiamento; si tratta di riproporre quel nuovo umanesimo che fu, scrive Capelli, “l’antica lezione di Banfi, ovvero lo sforzo tenace per l’interazione con la cultura progressista dell’Europa e del mondo intero”. Di fronte agli innumerevoli temi e problemi del presente, di fronte ai vertiginosi progressi delle scienze, in particolare agli orizzonti futuri della biologia da una lato e dell’economia dall’altro, di fronte alle nuove sfide che nascono dai continui progressi tecnici della rete, di fronte agli esperimenti più desueti delle arti e delle lettere occorre rinnovare il metodo dell’analisi e della discussione razionale. Un programma audace e lungimirante e proprio per questo davvero attuale e a suo modo imprescindibile. Bisogna, dice Capelli, “contribuire a ricostruire una nuova enciclopedia della contemporaneità”. Formula e progetto a mio avviso esemplari. Essi evocano le radici “filosofiche” della modernità e le ripropongono come compito della cultura di tutti, di oggi e di domani. La Casa della Cultura, con la sua porticina rossa nel cuore di Milano, è ancora lì, fermissima, che chiama.

BULLISMO: COME NEL PASSATO MA CON STRUMENTI MUTATI

In questi giorni si legge spesso sui giornali dei cosiddetti fenomeni di bullismo e delle reazioni che essi suscitano nelle famiglie di adolescenti perseguitati e in generale nel pubblico. Mi sono improvvisamente ricordato di un episodio di circa settanta anni fa, quando giocavo per strada con i miei coetanei in un quartiere allora alla periferia di Milano. Capitò un giorno un nuovo ragazzino tra noi, caratterizzato dall’essere, come si dice oggi, decisamente sovrappeso, oltre a differenziarsi da noi per la pronuncia, aperta o chiusa, di certe vocali. Ciò fu sufficiente per far scattare la nostra coordinata e molto crudele persecuzione: gliene facemmo di tutti i colori, sino a che sua madre non scese in strada e ci disse quello che ci meritavamo. L’episodio si chiuse felicemente: la vittima venne finalmente accolta nel gruppo come componente “alla pari”, tolte naturalmente le sacramentali gerarchie interne che esistevano anche prima del suo arrivo. Come si poteva essere tanto cattivi? Ma il fatto è che il piacere di sentirsi parte di un gruppo e di essere in esso accolti e riconosciuti in modo complice e narcisisticamente lusinghiero era troppo forte, soprattutto per chi ancora è ben lungi da una maturazione adulta della personalità; questo fatto del riconoscimento e dell’autostima naturalmente si ribadiva e si incrementava creando la frontiera dell’altro, del difforme, dell’estraneo (dello straniero) in base a fattori e circostanze del tutto casuali: peggio per chi ci capitava sotto; la sua innocenza in proposito non leniva affatto la nostra ferocia autoreferenziale.

Nella sostanza penso che il meccanismo profondo della esclusione e della persecuzione dell’estraneo rispetto a un gruppo complice, attivatosi in tacita collaborazione, sia il medesimo ancora oggi rispetto al passato. Radicalmente mutati sono gli strumenti disponibili per la persecuzione, che ingigantiscono le sofferenze sino a livelli di totale intollerabilità. Il punto non è quello di indignarsi contro “i giovani di oggi”, ma di trovare soluzione al gigantismo degli strumenti nel nostro tempo disponibili, cioè di ricondurne l’uso entro limiti socialmente e moralmente efficaci e condivisibili, grazie alle leggi e all’educazione, che diviene fattore del quale tutti devono farsi carico ben più che in passato. Insomma: tirare un pugno o tirare un missile sono fatti che hanno una evidente radice comune, ma per evitarne gli effetti molto difformi e imparagonabili, la cultura e cioè la coscienza politico-sociale di tutti è ben altrimenti sollecitata e posta in questione. È di qui che si deve partire nella vita individuale di ognuno e poi nell’uso della informazione che oggi raggiunge tutti, innocenti e colpevoli.

LA FAMIGLIA E LA NATURA

Come è ovvio, il dibattito sulle leggi relative al riconoscimento delle unioni tra omosessuali e, ancor più, sulle relative possibili adozioni di minori sta suscitando nel paese molta emozione e partecipazione. Questi fenomeni generali credo che siano anzitutto un bene per la vita democratica di una nazione: siamo indotti a confrontarci gli uni con gli altri e perciò, poco o tanto, dobbiamo prestare orecchio alle ragioni e alle emozioni dell’altro.

Non sono così ingenuo da non accorgermi come, in queste occasioni, si manifestino anche ragioni meno nobili e non in buona fede, per la presenza di prepotenze ideologiche e interessi economico-politici che fomentano il dibattito falsandolo e, per così dire, avvelenandolo con prese di posizione volutamente tanto estreme quanto menzognere. Tuttavia penso che questo male inevitabile nella grande società dell’informazione trovi comunque nel dibattito pubblico un efficace correttivo. In questo spirito e con tutto il rispetto di cui sono capace verso le opinioni che non condivido, cerco di sintetizzare, in pochissime parole, alcune cose che mi sembra sia difficile negare o, quanto meno, trascurare.

La prima riguarda la cosiddetta famiglia naturale: naturale in che senso? Se l’appello è alla natura in generale, quella che è innegabile è l’estrema varietà delle soluzioni che la natura ha per così dire inventato per la riproduzione delle specie (sino a esseri viventi che, nel corso della loro vita biologica, cambiano sesso ecc.). Maschio e femmina sono nozioni molto variabili e pensare di appellarvisi per definire la coppia umana è assolutamente avventuroso, per non dire impossibile.

Se poi, parlando di famiglia naturale, il riferimento è alla famiglia umana, solo una straordinaria ignoranza della storia dell’homo sapiens consente di identificare l’attuale famiglia con i sistemi di aggregazione che in centinaia di migliaia di anni, nelle più diverse condizioni di vita economica e sociale, hanno caratterizzato i rapporti famigliari, le relazione tra adulti (e adolescenti) di ambo i sessi e in generale le relazioni di parentela.

Naturalmente le persone sono più o meno affezionate alle loro tradizioni e non stanno a pensare a vecchie storie antropologiche e sociali; però non possono non riconoscere che, appunto, le tradizioni sociali cambiano nel tempo e il problema non è la loro giustificazione a priori o per principio, ma le conseguenze che dalle novità che premono possono derivare: questo è l’unico punto serio, a mio avviso, sul quale confrontarsi.

Quanto poi a coloro che invocano il dettato religioso e la presunta volontà di Dio (“volontà” che è privo di senso, per non dire di peggio, invocare a proprio vantaggio e sostegno), mi limito a ricordare che una legge di tutela di una minoranza non obbliga certo la maggioranza a imitarla. Aggiungo che viviamo da tempo, in Europa, entro un patto sociale (costato nei secoli lacrime e sangue) per il quale le credenze religiose sono tutelate come fatto privato e personale, ma non hanno alcuna rilevanza o cogenza sul piano politico e giuridico generale. So con certezza che molte persone di fede cattolica la pensano nello stesso modo. Sono le prime che dovrebbero indignarsi e allarmarsi di fronte a cartelli, che abbiamo visto sui giornali, del tipo “Dio lo vuole”. Di questa barbarie ci siamo liberati tanto tempo fa, elevando la dignità delle persone e della stessa fede religiosa. Chi ancora è tentato quella barbarie di frequentarla, anche solo per il vezzo originale di esibire un cartello “di colore”, si qualifica da sé.

APPELLO ALLA RAGIONE #Conferenza di Parigi

Al tavolo di Parigi si confrontano la natura e la storia. Non esistono e non sono esistiti popoli senza storia, ha detto Lévi-Strauss, e così idealmente tutti i popoli, passati, presenti e futuri, sono convocati al vertice di Parigi. Essi devono render conto, essenzialmente a se stessi, della loro sovrabbondanza, cioè della loro capacità di crearsi un ambiente che sopravanza, nel bene e nel male, le condizioni dello sviluppo naturale di tutti gli altri viventi.

C’è chi accusa i popoli dell’Occidente di essere stati e di essere tuttora i massimi inquinatori del pianeta, avendone tratto grande ricchezza, a scapito di tutti gli altri. Quindi rifiutano limitazioni e sacrifici. Hanno ragione, ma è una ragione piccola e inutile: gli oceani e le tempeste non si arresteranno per questo. E poi anche loro hanno fatto, in passato, la loro parte nel perseguire un destino sovrannaturale e in questo senso storico. Se non promossero inquinamenti molto significativi fu solo perché non ne avevano i mezzi, quei mezzi che ora pretenderebbero di utilizzare a loro volta.

Perché i conti tornino è necessario che tutti, ma proprio tutti, si assumano la responsabilità del processo che ci ha reso “umani”, senza recriminazioni e senza fughe in altrettanto vacui misticismi naturalistici: una retorica indegna degli esseri umani del terzo millennio e dei loro problemi. È necessario il ricorso a una ragione davvero comune, a una ragione efficiente e all’altezza della dignità del suo compito: quello di salvare se stessa e insieme la natura e la sua storia, profonda, sterminata, incircoscrivibile. Certo, questo appello alla ragione comune non è privo di problemi e di interferenze irrazionali. Come ha scritto Whitehead, “la ragione è oscillante, vaga, oscura, ma c’è”.

UNA FORZA E UNA SPERANZA

Mi sono destato con un pensiero che potrei riassumere così: ci sono nel mondo molte persone che, se ne avessero l’occasione, non esiterebbero a uccidermi. E la semplice ragione è il mio essere europeo, figlio di una cultura al tempo stesso laica e cristiana. Queste persone sono in guerra contro di me e contro quelli come me. Ma io, proprio come appartenente alla mia tradizione e alla mia storia, che ha attraversato tragedie e grandezze senza pari, non sono e non posso essere in guerra con loro e per principio con nessun essere umano vivente sul pianeta. Questo oggi può sembrare, e in certo modo è, una nostra debolezza. Ma nel suo cuore si annuncia una forza che coincide con la speranza di una possibile e condivisa verità futura del mondo che renda, in realtà, debolissimi i miei potenziali assassini.

FULVIO PAPI. FILOSOFO, TESTIMONE, GUIDA

Sullo stato della filosofia si ascoltano da tempo analisi e pronostici piuttosto pessimistici e oscuri. Fulvio Papi compendia in sé la straordinaria capacità di confermarli nel giudizio e nello stesso tempo di smentirli di fatto con la semplice presenza del suo lavoro, della sua opera, della sua vita. Una vita che ha attraversato mondi diversi ed esperienze complesse: dalla formazione con Antonio Banfi e i maestri della Scuola di Milano, della quale Papi è oggi il più completo e illustre rappresentante, alla intensa esperienza politica, all’impegno accademico presso l’ateneo pavese e in altri ancora, alle innumerevoli iniziative culturali, tra le quali la direzione di riviste di altissima qualità come “Materiali filosofici ” e “Oltrecorrente

Che cosa sia oggi un filosofo Papi se lo è chiesto in un libro di questo titolo del 2009, precisando che intendeva parlare appunto di un filosofo, non del filosofo. Già questa notazione mostra la profonda consapevolezza di quale debba essere la sostanza e lo stile di una filosofia del nostro tempo, lontana dalle vecchie illusioni ‘umanistiche ‘ e tuttavia non arresa alla superficiale attualità. Nessuno come Papi ci guida in questa difficile navigazione, nessuno come lui è consapevole del fatto che, come ebbe a ascrivere, “Il filosofo è solo“; nel contempo proprio il filosofo più di tutti sa (come disse Marx) che non è la nostra coscienza che fa la società, ma è la società che forma le nostre coscienze. Così il filosofo, come Papi lo propone e l’intende, è da un lato la “microstoria di una scrittura autobiografica“; dall’altro il testimone e il compagno che, muovendo dagli “amati dintorni“, fa da ponte e reca con sé le irrinunciabili memorie del passato, trasformandole per tutti in possibili radici del futuro. Non esistono infatti immaginari “fondamenti” ultimi; esistono piuttosto, ha scritto Papi, “parole filosofiche” e accanto a esse, e grazie a esse, la presenza di un “fondamento extra-filosofico che è dato dalla esistenza”, dall’esistenza stessa di chi prende la parola. È così che nella “trama del discorso” può emergere “la forma d’essere contingente in relazione alla quale prendiamo la parola“: forma d’essere che, attraverso la nostra particolare esistenza, testimonia della profondità inesauribile del mondo, un mondo che ci sottende e ci ricomprende nel cammino.

Papi è un filosofo lontanissimo dalla moda e dalle mode; però è a lui che dobbiamo le pagine più persuasive e più profonde relativamente al rapporto attuale della filosofia con questo fenomeno pervasivo e inquietante. La continua promozione della moda, specialmente tra le giovani generazioni, ha osservato Papi, svolge, nella società di massa, la strutturale esigenza della estensione del mercato. Naturalmente, anche la filosofia “ha sempre avuto una sua mondanità” e così, anche nei nostri anni, la pratica filosofica “agisce in un reticolo sociale entro il quale si forma, si trasmette, si istituzionalizza, si deforma il pensiero filosofico“. In questo senso la filosofia, come ogni altra merce, non incarna solo un valore d’uso; essa entra piuttosto a far parte di una politica dello spettacolo e dell’evento, per esempio promossa dagli enti locali e da altre istituzioni. Queste iniziative, oggi così diffuse, hanno il merito, dice Papi, “di spezzare l’automatismo della recezione televisiva“, producendone però un altro, che tende a ridursi al semplice “essere lì” collettivo; partecipazione che per lo più non crea nessuna reale comprensione e nessun tempo che si prolunghi nel futuro: “quello che accade è tutto qui, adesso”. E il filosofo che parla è percepito come un ‘personaggio “che agisce in ‘uno spazio orale di rapido consumo“.

Ora, tentare la dimensione della “piazza“, osserva Papi, non è un male in sé, ma la ricerca di un successo e di una popolarità mediatica, al di là dei suoi effetti extra-filosofici, non può non produrre una modificazione sulla forma e sulla modalità dell’enunciato filosofico: “Il proseguire su questo malinteso o equivoco può persino condurre il filosofo a perdere contatto con la modalità specifica del fare filosofia e tradurre il suo discorso in una dimensione retorica e demagogica“.

Un rischio che Fulvio Papi non ha inteso correre; egli resta da sempre fedele al suo compito di intellettuale e di maestro, incarnando, per parafrasare il titolo di un altro suo libro, una delle più limpide e schiette tra le “voci dal tempo difficile“. Papi prosegue sereno e, vorrei dire, inflessibile il suo lavoro, elargendo continui ed esemplari doni di scrittura. Essi comprendono la sua non comune abilità di raccontare in proprio e di esercitare una memoria preziosa, estesa al commento di altre voci: poeti, scrittori, scienziati, politici, filosofi del presente e del passato. Un vero “lusso” della cultura irrinunciabile in un tempo, dice Papi, di “catastrofi” in cui ha preso forma il nostro mondo, coinvolgendo ogni luogo del pianeta e la nostra vita quotidiana.

Senza darsene l’aria e quasi senza avvedersene, l’incredibile fecondità del lavoro di Papi, che gli anni hanno incrementato piuttosto che rallentare, offre a tutti un modello per non cadere preda delle contraddizioni e del pericolo di non senso che assediano oggi il promuovere cultura e il fare filosofia. Egli, lo sappiamo, è là, in una distanza discreta ma insieme partecipe, in una solitudine popolosa; è là che lavora, per sé e per noi, a tessere un filo tenace, a tenere desta una luce nella sera. Il fatto di sentirlo e di saperlo è per tutti noi un aggancio indispensabile alla profondità del reale, una conferma che la bellezza, la verità, soprattutto la concretezza dell’operare con le parole e la scrittura è ancora possibile. La presenza e la continuità di questo lavoro suscita, in chiunque se ne trovi fortunatamente coinvolto, un sentimento di riconoscenza non formale, perché tocca le sorgenti stesse del senso della vita.