I MILLE VOLTI DI ANONYMOUS

(recensione di I mille volti di Anonymous di Gabriella Coleman)

Un libro per raccontare tattiche e strategie della presa collettiva di parola che si afferma attraverso l’hacktivism: l’azione diretta in rete

Anonymous, la maschera collettiva degli hacktivisti più famosi al mondo non smette di far parlare di sé. Tuttavia, dalle operazioni contro la Sony alla solidarietà manifestata a Julian Assange, forse non si è ancora riflettuto abbastanza sul significato politico di un fenomeno, ormai globale, che riassume sotto il proprio nome teorie, strumenti e pratiche dell’underground dalle origini della rete fino ad oggi.

anonymous_slogan Il volume I mille volti di Anonymous: la vera storia del gruppo hacker più provocatorio al mondo (Stampa Alternativa, Viterbo, 2015, pp. 473, euro 24,00) dell’antropologa Gabriella Coleman, offre questa occasione. Nel libro, l’antropologa, embedded per diversi anni nel gruppo degli Anon, enuclea infatti il racconto avvincente di una serie di operazioni che hanno contrassegnato “la metamorfosi di Anonymous dal mondo sotterraneo dei troll fino all’attivismo pubblico”. Dalle bravate e dagli sbeffeggiamenti via internet si passa presto allo scontro con la chiesa di Scientology per arrivare, infine, all’emergere di un nuovo soggetto politico, di un quinto potere che interviene in situazioni globali e locali, dalla difesa di Assange all’aiuto operativo ai giovani della Primavera araba. Sempre senza nome, nascondendosi dietro la maschera del celebre rivoluzionario inglese Guy Fawkes che, tra Cinquecento e Seicento, sfidò la monarchia britannica e che il film V per Vendetta dei fratelli Wachowsky ha riscoperto e riaggiornato all’inizio del nostro secolo, giusto prima della nascita di Anonymous.

Anonymous, una nuova forma di partecipazione politica

Coleman durante il racconto mette in evidenza diversi temi interessanti legati alle azioni di Anonymous. Uno in particolare ci pare decisivo per comprendere le dinamiche politiche contemporanee e in particolare quelle legate alla partecipazione politica. Le azioni di Anonymous paiono fornire una sorta di soluzione a un’impasse teorica a cui conducono diverse analisi dei processi partecipativi nel tempo della Rete.

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Da un lato, è facile cogliere nelle nuove piattaforme comunicative un allargamento dei repertori di azione a disposizione dei singoli e dei gruppi per intervenire nella sfera politica. Forum, petizioni, blog e tutti i siti di social networking offrono a ciascuno la possibilità di prendere parola sulle vicende politiche locali o globali. Dall’altro lato, pare che questa presa di parola non si traduca sempre in effettiva capacità di incidere sulle scelte compiute dalle autorità: quasi che la parola dei cittadini, sempre più diffusa, nello stesso tempo si sia allontanata, sempre più, dai centri della decisione. In altri termini, all’allargamento della partecipazione come opinione non corrisponderebbe un approfondimento della partecipazione come decisione.

Dai defacement ai DDoS al doxing: le tecniche di Anonymous

Per far parte di Anonymous è necessario un processo di socializzazione alle dinamiche del gruppo e in particolare alle sue modalità operative. Ciò non comporta, però, la necessità di divenire hacker professionisti per partecipare a tutte le operazioni messe in campo. Diverse ed eterogenee sono infatti le tattiche a cui si è fatto ricorso, alcune richiedono capacità tecnologiche elevate, altre poco sofisticate, alcune sono pienamente legali, altre sconfinano nell’illegalità. Si va dal defacement di siti web al loro blocco temporaneo tramite attacchi DDOS, dal reperimento tramite incursioni informatiche di documenti riservati e pubblicamente rilevanti alla loro divulgazione, dal doxing di informazioni personali al file sharing di prodotti sotto copyright, dall’email spamming alle tradizionali proteste di piazza.

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La metamorfosi di Anonymous dal mondo sotterraneo dei troll fino all’attivismo pubblico

Un elemento sembra accomunare tutte queste forme di intervento: pur trattandosi (eccetto, naturalmente, le proteste di piazza) di impegni tramite la tastiera e il linguaggio informatico, esse possono essere classificate come azione diretta. Non si tratterebbe, cioè, di far semplicemente sentire la propria voce ma di imporla con cogenza sino a determinare cambiamenti concreti delle decisioni prese (dalle politiche di importanti aziende alla riapertura di indagini giudiziari, passando naturalmente dal cambio di regime politico seguito all’#OpTunisia). In questo caso, cioè, il linguaggio (digitale) si rivelerebbe pienamente nel suo aspetto performativo, producendo effetti diretti sul mondo della vita (come indicato da Austin e facendolo in maniera non normativa, al contrario del “potere comunicativo” di Arendt e Habermas).

Si tratta di nuove forme di intervento nello spazio dei media, sia nuovi che vecchi (reclamando attenzione mediatica), che si pongono come tattiche “deboli” di intervento nella sfera politica della decisione. Non bisogna fare l’errore di sopravvalutarne l’apporto ma può essere utile coglierne il valore di modello di azione che va oltre, da un lato, la mera espressione di opinione e, dall’altro, quei modelli moderni – come il voto – che sono sempre meno riconosciuti come adatti a garantire l’intervento nella dimensione politica nel nostro tempo postmoderno.

[apparso su Cyber Security, 27 ottobre 2016, <http://cybersecurity.startupitalia.eu/53182-20161027-defacement-ddos-doxing-mille-volti-anonymous>]

McLUHAN E LA POLITICA

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la politica dà le risposte di ieri alle domande di oggi. Sta emergendo una nuova forma di politica, e in modi che non abbiamo ancora notato. Il salotto è diventato una cabina elettorale. La partecipazione attraverso la televisione a marce della pace, guerre, rivoluzioni, inquinamento e altri eventi sta cambiando tutto – McLuhan, 1967

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Il tempo della democrazia politica come la conosciamo è finito. La cabina elettorale è un prodotto della cultura occidentale alfabetica – una scatola calda in un mondo freddo – e perciò è obsoleta. Nel nostro mondo del software, caratterizzato da un movimento di comunicazioni elettriche istantanee, la politica sta passando dai vecchi schemi della rappresentanza politica per delega elettorale a una nuova forma di coinvolgimento comunitario spontaneo e immediato in tutte le aree decisionali.
I media elettrici consentono modi completamente nuovi di registrare l’opinione popolare. Il vecchio concetto di plebiscito, per esempio, potrebbe assumere nuova rilevanza; la tv potrebbe fare plebisciti quotidiani. Il voto, nel senso tradizionale, è superato, mentre abbandoniamo l’età dei partiti politici, delle questioni politiche e degli obiettivi politici, ed entriamo in un’età in cui l’immagine tribale collettiva e l’immagine iconica del capotribù sono la realtà politica prioritaria – McLuhan, 1969

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LE NUOVE NARRAZIONI DEL SUD, TRA FICTION E RENZI

La visita del presidente del Consiglio Matteo Renzi in Calabria, per abbattere l’ultimo diaframma di una nuova galleria dell’A3 e per inaugurare un avanzato distretto di cybersecurity dislocato da Poste Italiane a Cosenza, ha riproposto un tema che gode di una sorta di eterno ritorno. Come aveva già fatto durante la Direzione del suo partito dedicata al Mezzogiorno, lo stesso Renzi ha ribadito la necessità di un «messaggio alternativo al racconto dominante», di una nuova narrazione del Sud che faccia perno sugli aspetti positivi, sulle realtà innovative, sulle prospettive di cambiamento.

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Un recente volume di Valentina Cremonesini e Stefano Cristante, La parte cattiva dell’Italia: Sud, media e immaginario collettivo (Mimesis, Milano, pp. 402) può essere di molto aiuto a capire cosa Renzi possa e voglia intendere per nuova narrazione di questa parte della penisola. Il volume riporta i risultati di una ricerca Prin a cui hanno collaborato le università di Bari, di Messina e del Salento ed è ricco di analisi e cifre sulla rappresentazione mediatica del Sud nei notiziari televisivi, nei giornali, in rete, nel cinema, nelle fiction. Ciò che ne viene fuori è un quadro complesso e variegato.

Innanzitutto, si evidenzia come il Sud sia assai marginale nella copertura dei grandi media informativi nazionali: per esempio, solo il 9% dei servizi del Tg1 fa riferimento a questa parte dell’Italia. Di fatto, se si considerano gli ultimi decenni si può parlare di una vera e propria eclissi della questione meridionale dalla scena politico-mediatica nazionale, quella disegnata dalla televisione pubblica e dai grandi giornali, a tutto vantaggio di quella che si è affermata come questione settentrionale.

Oltre a questo oscuramento quantitativo c’è anche un cambiamento qualitativo: il Meridione non viene più percepito e reso come unitaria questione politica di cui farsi carico e per la quale cercare soluzioni (tipo l’industrializzazione forzata del passato), ma come fattore endemico di debolezza sostanzialmente irrisolvibile. «Il Meridione si staglia nell’universo di senso dell’opinione pubblica italiana come un coagulo di impossibilità, una dimensione geografica in cui il mutamento lascia il posto alla persistenza».  Il passaggio dalla complessa questione meridionale al semplice fattore M di fatto significa un depotenziamento di qualunque sua portata politica.

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Rispetto a questa tendenza dominante, dal volume si può cogliere come cinema e letteratura, attraverso le loro narrazioni, abbiano provato negli ultimi anni a trasmettere una diversa e più articolata immagine del Mezzogiorno. A mostrare la portata nazionale e internazionale di quelli che una volta si potevano ritenere fenomeni circoscritti a un ambito territoriale limitato (la camorra come descritta da Roberto Saviano). A porre accanto alle ombre, dei coni di luci (Un posto al sole). A differenziare i tanti Sud (attraverso una nuova leva di cineasti, da Edoardo Winspeare al popolare Rocco Papaleo). A sovraccaricare gli stereotipi per farli deflagrare in una sfrontatezza modernista (Checco Zalone). A mettere in mostra la normalità di gesti quotidiani di uomini ordinari ma efficaci (le nuotate, i pranzi e le deduzioni del commissario Montalbano di Andrea Camilleri). Queste narrazioni di differenti operatori culturali non riescono – come facevano gli intellettuali del passato – a proporre e imporre il Meridione come problema politico generale. Ma aprono squarci su una normalità meridionale che esiste e può rappresentare un’apertura verso il futuro, un futuro non contrassegnato da quell’estetica criminale e da quella retorica della miseria che dominano da sempre l’immaginario collettivo sul Sud. Invece di ribadire con pigrizia intellettuale la solita immagine stereotipata, i cineasti e gli scrittori meridionali ci invitano – come scriveva Calvino – a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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In questo fiorire delle narrazioni di fiction, si inserisce il tentativo di Renzi. È difficile, infatti, far combaciare la sua nuova narrazione del Sud con la presa in carico di un problema generale per il quale cercare soluzioni sistemiche e di lunga durata. Renzi, con i suoi passaggi rapidi e mediaticamente sovraesposti, si limita a sottolineare singoli episodi positivi (il salvataggio dello stabilimento Fiat di Pomigliano, l’apertura della Apple a Napoli o l’inaugurazione di alcune domus restaurate a Pompei). Qualcuno potrebbe lamentare l’assenza di un progetto politico unitario. Forse, però, Renzi con le sue parate mediatiche cerca solo di infondere fiducia e speranza. Non è (solo) questo che ci si aspetta da un politico. Bisognerebbe, perciò, capire se rispetto all’inazione di quello che già Gramsci definiva «ceto dirigente scettico e poltrone», da sempre dominante in queste nostre lande, non sia comunque un passo in avanti.

 

[apparso su L’Unità on line, 29 marzo 2016

http://www.unita.tv/opinioni/le-nuove-narrazioni-del-sud-tra-fiction-e-renzi/ ]

 

SCRIVERE ECO, UMBERTO

Esistono tanti Umberto Eco. Tanti poiché tante sono state le sue attività e le sue stagioni. Tanti poiché tanti sono i percorsi e le passioni dei suoi lettori. Let me collect myself e riscriverlo attraverso due brevi testi a lui dedicati dall’angolo visuale di uno studioso dei nuovi media. Il primo è la voce “Eco, Umberto” scritta per i volumi sull’informatica e sulla cultura digitale dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani. Il secondo – inedito – scritto per la rubrica Non solo cyber de L’Espresso in seguito ad alcune sue bustine di Minerva. Insieme alla redazione concordammo poi di non pubblicarlo.

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(Alessandria 1932) semiologo e romanziere. Dall’estetica medievale, Eco è passato ad analizzare i prodotti delle avanguardie artistiche e della cultura di massa. Un’analisi a cui si devono concetti che hanno avuto ampio riscontro nello studio dei media. Ancora oggi per descrivere le reazioni all’emergere di nuovi scenari culturali usiamo la distinzione tra apocalittici e integrati: per i primi la cultura di massa è l’anticultura, il “segno di una caduta irrecuperabile, di fronte alla quale l’uomo di cultura non può che dare una estrema testimonianza in termini di Apocalisse”, per i secondi essa “rende amabile e leggero l’assorbimento delle nozioni e la ricezione di informazioni, in un’epoca di allargamento dell’area culturale”(U. ECO, Apocalittici e integrati, Milano 1964, p. 4). Per almeno due decenni si poi è usata la distinzione tra paleo e neotelevisione con la prima che parlava o faceva finta di parlare del “mondo esterno” e la seconda che “parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli” (U. ECO, “Tv: la trasparenza perduta”, 1983, p. 163). Nel tempo della digitalizzazione delle forme espressive, e in particolare dell’ipertesto (>), è necessario più che mai confrontarsi con il fatto che ogni opera d’arte è sostanzialmente aperta a “una germinazione continua di relazioni interne che il fruitore deve scoprire e scegliere” (U. ECO, Opera aperta, Milano 1962, p. 60).

Ma l’impegno teorico principale di Eco è stato la delineazione di una semiotica generale come analisi di ogni forma di comunicazione (Trattato di semiotica generale, 1975) e la successiva identificazione del significato con una rete di rinvii. E da questo impegno viene fuori l’immagine chiave del pensiero di Eco; un’immagine di una certa utilità anche per descrivere lo spazio dei flussi telematici: l’enciclopedia. “Tutte le interpretazioni sono registrate, poste intersoggettivamente in qualche testo di quella immensa e ideale biblioteca il cui modello teorico è l’enciclopedia. […] Essa è l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, concepibile oggettivamente come la libreria delle librerie, dove una libreria è anche un archivio di tutta l’informazione non verbale in qualche modo registrata, dalle pitture rupestri alle cineteche” (U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984, p. 109). È la grande biblioteca del romanzo di successo Il nome della rosa (1980). Ma questa stessa immagine segna anche il limite della comprensione di Eco del nuovo scenario culturale segnato dalle reti digitali e reticolari. Un limite che traspare anche dai continui distinguo di Eco riguardo alle forme espressive digitali e dalla sua difesa della tecnologia libro (Non sperate di liberarvi dei libri, Milano, 2011). Un limite che è quello proprio a un uomo di lettere, un homo tipographicus rispetto a fenomeni che vanno ben oltre la linearità delle lettere, che poco hanno a che fare con la cultura libresca.

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Umberto Eco è intervenuto su queste pagine per stigmatizzare «i talebani del web» che, considerando la Rete come un mondo di sogni, un paese delle meraviglie, un paradiso virtuale, cosa dunque sacra e intoccabile, lo hanno accusato di essere apocalittico, luddista, misoneista per aver osato avanzare dubbi sulla marea di informazioni che ci sommerge tramite la Rete e rischia di soffocarci con inesattezze e bufale. Credo che l’obiettivo polemico di Eco sia ben individuato: nessun propugnatore di magnifiche sorti e progressive aiuta affatto le nostre sorti, soprattutto quelle legate alle nostre tecnologie (questo per ingenuità o per malafede).

Ho però avuto l’impressione che la critica del web avanzata da Eco muovesse da un assetto di pensiero pre-digitale, cioè non fosse all’altezza del compito assegnato: l’impressione di un uomo di lettere che critica qualcosa che va ben oltre la linearità delle lettere. Quasi come se dopo il Cinquecento si fosse continuata a criticare la politica sulla base della morale ancora cattolica o dopo il Seicento la ricerca scientifica sulla base dell’alchimia o dell’astrologia di Ermete Trismegisto. Una china, quella di adattare i fenomeni alle proprie categorie, che può addirittura portare a condannare la Rete «per intuito» e non sulla base di un confronto con la cultura digitale, la cui conoscenza «io non ho fatto e che, prometto, non farò mai», così Mario Tronti. Eco invece ha mostrato nel passato aperture importanti ai fenomeni emergenti. Siamo sicuri che saprà, anche a proposito della Rete, criticarla iuxta propria principia e cogliere in essa una pluralizzazione dei centri di storia che giova proprio allo sviluppo della capacità di sospetto.

LA SINISTRA TRA MEDIA E LEADER

Versione 2

Una breve aggiunta alla vexata qaestio del rapporto tra sinistra e media. Attualmente, ho l’impressione che si possa descrivere la cultura di sinistra come caratterizzata da una sorta di oscillazione tra due poli contrapposti. E ciò succeda tanto nella dimensione della riflessione teorica quanto in quella della pratica politica ovvero nell’intreccio di queste due dimensioni. Da un lato, si rintraccia un elogio (a volte davvero incondizionato) del tempo nuovo, segnato dalla velocità: velocità di consultazione e di decisione di cui i nuovi media digitali forniscono il paradigma sino ad essere esaltati come panacea delle disfunzioni dei meccanismi politici tradizionali. Dall’altro, si rintraccia una denuncia (a volte una sentenza) di una esiziale deriva populista o più in generale post-democratica di cui la leaderizzazione dei partiti rappresenta la punta più visibile e a cui i media della disintermediazione forniscono un indispensabile supporto. Entrambe le posizioni scontano una focalizzazione eccessiva su un singolo aspetto dello scenario presente (la velocità degli scambi orizzontali, la verticalizzazione del rapporto capo-pubblico) che viene di conseguenza assolutizzato. In altri termini, si oscilla tra utopie (e qui il pensiero unico dimostra la sua forza ideologica) e distopie (tanto fosche quanto per nulla scontate) senza farsi adeguatamente carico delle ambivalenze del presente. Queste ambivalenze non sono, però, altro che segno della contingenza di ogni situazione politica ovvero della pluralità di scenari possibili che ne possono scaturire. Scenari che i media contribuiscono a plasmare tanto quanto ne sono, a loro volta, plasmati.

twitter @antonio_tursi