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La figura di Henri Lefebvre rappresenta senza dubbio uno dei punti di riferimento più noti e rilevanti negli studi sulla città e il territorio; tuttavia, le vicende della sua influenza in questo ambito – e in particolare nella sociologia urbana – sono tutt’altro che lineari. Infatti, come evidenzia Rémi Hess (2000) – uno dei suoi più importanti allievi ed interpreti – nell’introduzione alla quarta edizione de La production de l’espace, alla fine degli anni ’80 – e dunque prima della sua morte, sopraggiunta nel 1991 –, l’opera del filosofo e scienziato sociale francese comprendeva ben cinquantasette libri, molti dei quali tradotti in diverse lingue. Ciò faceva (e fa tuttora) di Lefebvre uno dei più noti autori francesi del Novecento a livello mondiale e uno dei più originali esponenti del pensiero marxista, nell’ambito del quale un suo contributo fondamentale ed innovativo è rappresentato dal ruolo di primo piano che egli attribuisce alla dimensione spaziale dei fenomeni sociali.
Di fronte a ciò, tuttavia, si può osservare che a lungo l’esplorazione del suo apparato concettuale da parte dei sociologi interessati all’analisi dei fenomeni urbani e territoriali è stata limitata e, comunque, non proporzionale all’ampiezza e diffusione della sua opera; questo vale non solo per i decenni successivi alla morte di Lefebvre, ma anche per gli stessi anni ’60 e ’70, in cui uscivano le sue opere più importanti sui temi della città e nei quali il marxismo aveva esercitato un’influenza rilevante nelle scienze sociali. Le ragioni di questo divario tra la notorietà dell’autore (come pure la profondità riconosciuta al suo pensiero) e la sua reale influenza possono essere molteplici. Una di queste è il carattere trasversale a molte discipline degli scritti di Lefebvre, che ha finito col far apparire le sue elaborazioni teoriche, unitamente al suo stile complesso e talora sovrabbondante di scrittura, difficili da inquadrare in ambiti di ricerca definiti e nei relativi linguaggi. Un’altra ragione è la peculiarità della sua interpretazione del marxismo e delle sue applicazioni alla comprensione della città, di forte impronta umanistica e come tali opposte ad altre concezioni ampiamente influenti nel periodo prima ricordato, a partire da quella di Louis Althusser – per quanto concerne la filosofia – e dai lavori di Manuel Castells, per ciò che riguarda la sociologia urbana. A proposito di quest’ultimo, vale la pena di ricordare il giudizio poco conciliante su Lefebvre che, in tempi non troppo lontani, Castells ribadisce nel suo libro-intervista con Géraldine Pflieger (2006), dopo che già era stato espresso nei suoi scritti degli anni ‘70. Anche se ammette che la sua critica di allora partiva dal punto di vista di un’ortodossia marxista da lui rifiutata in seguito, egli continua a sostenere che Lefebvre, pur presentandosi come un maestro della sociologia urbana marxista, proponeva un pensiero troppo debole dal punto di vista della ricerca empirica per offrire una effettiva comprensione sociologica della città, non conoscendo in modo approfondito gli aspetti economici, tecnologici dei processi di urbanizzazione, né quelli legati all’organizzazione sociale e politica.
Va detto, comunque, che questi ostacoli a una intensa frequentazione del pensiero di Lefebvre da parte degli studiosi dei fenomeni urbani hanno fatto presa soprattutto sugli orientamenti sociologici di più stretta osservanza marxista, ma non hanno mai impedito l’attenzione da parte di studiosi di altri orientamenti, come pure di architetti e pianificatori (Borelli, 2011); in ogni caso essi sono destinati a dissolversi rapidamente nel clima culturale del periodo a cavallo dei due secoli. Anzi, si potrebbe dire che tanto la trasversalità nei confronti di vari campi del sapere, quanto l’eterodossia e la propensione verso una ricezione del marxismo che pone in primo piano, oltre alla dimensione economica e politica, anche quella culturale ed artistica diventano ora dei fattori di attrazione, anziché di sospetto, verso l’opera di Lefebvre. Questo vale in particolare per la sua idea di città e la sua rivendicazione del diritto alla città come tema centrale nella ricerca di un’alternativa al capitalismo. Un diritto che Lefebvre collegava alla realizzazione di una condizione – quella dell’egemonia della classe operaia – oggi difficilmente rappresentabile, ma che resta di piena attualità anche nei confronti del capitalismo contemporaneo, in quanto incarnazione di una visione di socialità urbana sempre attuale e più che mai in opposizione alle tendenze dell’individualismo neoliberista (Mazzette, 2018).
Ciò che, semmai, si può osservare con riferimento al rilancio in tempi recenti dell’influenza del filosofo francese sugli studi urbani è che essa appare connessa soprattutto con due scritti già ricordati: il libro sul diritto alla città (Lefebvre, 1968) e il successivo e complesso lavoro sulla produzione dello spazio (Lefebvre, 1974). Questo è vero, in generale, anche per la sociologia italiana; anche nel nostro paese, del resto, la ripresa del pensiero di Lefebvre è relativamente recente, anche se vigorosa, e deriva in parte dall’interesse che questo autore ha suscitato nella letteratura internazionale, quando i suoi scritti sono stati accessibili al mondo anglofono, sebbene diversi testi fossero da tempo già stati tradotti in italiano (Borelli, 2019).
Tenendo conto di ciò appare particolarmente significativa la traduzione italiana, recentemente comparsa a cura di Guido Borelli, dell’ultimo suo scritto, Elementi di ritmanalisi, un testo meno noto dei suoi lavori più celebri, ma ricco di suggestioni per gli studi urbani e – quanto meno per alcuni aspetti, su cui si tornerà in seguito – particolarmente stimolante per un lettore contemporaneo. L’edizione italiana, uscita nei Saggi IUAV-Lettera Ventidue*, raccoglie, oltre al testo principale che Lefebvre ha scritto con la sua ultima moglie, Catherine Régulier, l’introduzione di Rémi Lourau al testo originario (pubblicato postumo, nel 1992) e una postfazione di Rémi Hess, scritta in occasione della traduzione italiana. Questo nucleo centrale del libro è preceduto da una Prefazione di Guido Borelli e da altri due testi degli stessi Lefebvre e Régulier: Le projet rythmanalytique (che conserva il titolo in francese) e Saggio di ritmanalisi delle città mediterranee; si tratta di due articoli, pubblicati rispettivamente nel 1985 e 1986, che costituiscono una prima proposta dell’idea poi sviluppata nel lavoro principale. Il tutto è completato da una Nota del traduttore e da articolate biografie di tutti gli autori degli scritti raccolti, tra le quali manca, tuttavia, quella di Catherine Régulier.
La ritmanalisi chiude cronologicamente l’opera di Lefebvre, ma rappresenta un interesse da lui a lungo coltivato, anche se, in qualche misura, nascosto nelle riflessioni presenti in altri lavori e, in particolare, in quelli dedicati alla vita quotidiana. Nella sua Postfazione, Hess fa un’analisi accurata delle pagine dedicate al tema del ritmo, dimostrando che esse risalgono all’indietro sino agli anni ’40 ed evidenziano una continuità di ricerca nel corso dei decenni. In questo lavoro, dunque, Lefebvre intende dare una visibilità autonoma a questo tema, che diviene l’oggetto di una proposta di un nuovo campo di studi che abbraccia molti ambiti del sapere e del quale sono anche tratteggiati alcuni principi metodologici. Tuttavia, la lettura del testo mette in luce la natura non sistematica di questa proposta – di cui, peraltro, viene sottolineato il carattere ambizioso – e sgombra il campo dall’idea che l’interdisciplinarità presupponga un confronto tra specialisti di diverso orientamento. Essa, piuttosto, è concentrata nella figura stessa e singolare del ritmanalista, così come viene tratteggiata nel testo e dietro la quale non è difficile riconoscere in filigrana lo stesso autoritratto del filosofo francese. Il ritmanalista, infatti, è descritto come un interprete di una realtà presente in ogni spazio-tempo, ma nascosta, il cui riconoscimento richiede competenza e conoscenza, ma anche auto-analisi ed ascolto – prima di tutto – del proprio corpo e dei suoi ritmi interni. Per questo si tratta di una figura che presenta qualche analogia con quella dello psicanalista, anche se si dice che, tra di esse, le differenze sovrastano le similitudini.
Nella visione di Lefebvre, il ritmo riunisce aspetti meccanici ed organici, quantitativi e qualitativi: prevede ripetizioni, come tali misurabili, ma anche una continua produzione di differenze. Per comprenderlo è necessaria un’attività analitica capace di srotolare il fascio di elementi di cui esso si compone; un’attività che richiede razionalità ed intuizione, rigore e creatività, perché “il ritmo appare come tempo regolato, governato da leggi razionali, ma a contatto con ciò che è meno razionale nell’essere umano: il vissuto, il carnale, il corpo” (p. 80).
Il luogo maggiormente emblematico, nel quale questa attività interpretativa può essere esercitata è la città. Non a caso, nei testi raccolti nel libro che stiamo esaminando – il cui procedimento principale è quello filosofico, basato sul passaggio da categorie astratte a fatti concreti – vi sono due esercizi di ritmanalisi, entrambi riferiti alla città, che aiutano a capire il senso di questa pratica e gli apporti che può recare agli studi urbani. Il primo è contenuto in uno dei due articoli di Lefebvre e Régulier che precedono il testo principale ed è dedicato alle città del Mediterraneo. A mio avviso, la sua importanza va da ricercarsi soprattutto nell’affermazione secondo cui “qualsiasi studio dei ritmi è necessariamente comparativo” (p. 56): comprendere i ritmi vuole dire sapere apprezzare le differenze nel modo in cui si manifestano congiuntamente nello stesso contesto urbano (formando volta per volta poliritmie armoniche o disarmoniche), come pure distinguere i contesti in base ai ritmi in essi prevalenti. Nel caso specifico la comparazione è tra le città oceaniche, i cui ritmi sono regolati dalle maree – e quindi si tratta di ritmi lunari – e le città mediterranee, regolate dai ritmi del sole. Si tratta di un’ipotesi indubbiamente suggestiva, ma che, nel suo sviluppo, sembra ispirare soprattutto immagini letterarie (talora anche un po’ di maniera) sulle caratteristiche intrinseche dei due insiemi di città, più che schemi utili per un’analisi socio-politica.
Più rigoroso – e meritatamente più celebre – è invece il secondo esercizio, contenuto in un capitolo di Elementi di ritmanalisi, che ha per oggetto il panorama ritmico percepibile dalla finestra dell’appartamento parigino di Lefebvre in rue Rambuteau, in faccia all’edificio del Beaubourg, da poco aperto al pubblico nel momento in cui questo testo è stato scritto. La finestra, qui, non è una semplice prospettiva sulla strada, ma è un elemento spaziale attivo, che consente all’osservatore uno sguardo al tempo stesso intenso, ma sufficientemente distaccato per poter essere analitico. Chi osserva dalla strada, infatti, si trova immerso nel ritmi della città, “per contro, dalla finestra, i rumori si distinguono, i flussi si separano, i ritmi si rispondono” (p. 103). Si potrebbe dire che la finestra e l’osservatore formano un dispositivo, che consente di cogliere l’unità della vita urbana e contemporaneamente porre delle distinzioni, ad esempio tra i due tipi fondamentali di ritmi che stanno alla base della ritmanalisi: quelli lineari, fatti di andamenti routinari e di ripetizioni, e quelli ciclici, nei quali si manifesta con maggiore profondità l’organizzazione della società urbana. Inoltre, lo sguardo del ritmanalista è in grado di andare oltre la simultaneità dell’osservazione (senza negare la densità del presente) per cogliere andamenti temporali distinti non solo nella vita sociale, ma anche negli elementi non umani del paesaggio urbano, come ad esempio negli alberi, ciascuno dei quali ha tempi distinti di fogliazione, fioritura, fruttificazione. In tal modo “al posto di una collezione di cose congelate, seguirete ciascun essere, ciascun corpo, soprattutto come titolare del suo tempo” (p. 107, corsivi nel testo).
Si può parlare di un successo della proposta di una nuova disciplina basata sullo studio dei ritmi urbani? Potremmo rispondere dicendo che, se ci si riferisce strettamente alle indicazioni metodologiche contenute nei testi esaminati, la diffusione di questo approccio è limitato: la figura del ritmanalista in essi tratteggiata è troppo complessa e richiede una tale convergenza di competenze e sensibilità per essere alla portata di molti. Se invece si intende parlare dell’interesse suscitato dallo studio dei ritmi urbani in termini più ampi si può affermare che esso è sempre vivo e ricorrente negli studi sulla città (una rapida rassegna di contributi è presente nella Prefazione di Borelli) e che, soprattutto, ha ancora campo per approfondimenti in varie direzioni. Gli autori che hanno intrapreso percorsi di questo tipo attingono certamente ai lavori di Lefebvre, anche se esistono anche altri riferimenti importanti: per esempio lo studio della struttura temporale dell’organizzazione sociale di Zerubavel (1981) o i lavori sulla vita quotidiana di de Certeau. Filoni di studi particolarmente promettenti, a mio avviso, sono quelli che connettono l’analisi dei ritmi al tema della mobilità urbana o la utilizzano come strumento di analisi delle diseguaglianze e differenze socio-spaziali di varia natura (Stavrides, 2013). Un tema, quello delle diseguaglianze, appena accennato nel testo di Lefebvre, a riprova del carattere non convenzionale nella sua ispirazione al marxismo, che invece, qui come in altri scritti, si manifesta nella centralità attribuita al processo di costruzione sociale delle strutture spazio-temporali in una società dominata dalla logica del capitalismo. Tuttavia, si tratta di un punto di debolezza del suo lavoro, come non mancano di rilevare interpretazioni della ritmanalisi che suggeriscono una sua rilettura alla luce di prospettive femministe e post-coloniali (Reid-Musson, 2018).
Si accennava poco fa alla contemporaneità di taluni aspetti di questo lavoro, che è presente al di là del cambiamento, facilmente documentabile, dei ritmi delle città postindustriali e postmoderne rispetto a quelle dell’epoca fordista, che l’opera del filosofo francese ha attraversato da cima a fondo. Di questi aspetti ne vorrei sottolineare almeno tre, tra loro concatenati.
Il primo riguarda l’orientamento della proposta della ritmanalisi verso un superamento delle divisioni disciplinari nello studio dei fenomeni urbani. Questo appare un orientamento ormai consolidato nel quadro degli Urban Studies attuali, che pongono maggiore attenzione ai paradigmi usati nell’analisi che alla provenienza disciplinare degli autori; esso non implica una rinuncia alla specificità dei singoli punti di vista, ma uno sforzo verso una maggiore compatibilità dei linguaggi ed una sempre più ampia circolazione delle conoscenze. Gli steccati disciplinari arbitrariamente irrigiditi, infatti, hanno un duplice effetto negativo: difendendo i territori di ricerca dalle incursioni di studiosi di diversa estrazione, da un lato limitano la diffusione dei risultati raggiunti in ciascun ambito e, dall’altro lato, inibiscono ogni tentativo di estendere le competenze di ciascuno studioso al di fuori del proprio recinto. Occorre aggiungere, poi, che a riguardo della ritmanalisi Lefebvre allarga l’idea di una circolazione dei saperi al di là del campo delle scienze umane, facendo cenni all’importanza, per la comprensione dei ritmi, delle discipline biomediche, dell’ingegneria, della matematica. Anche l’arte è poi un terreno fertile per lo studio dei ritmi; in particolare, come è intuibile, lo è la musica, cui è dedicato il capitolo 7 degli Elementi di ritmanalisi, che contiene un’analisi ricca di suggestioni filosofiche.
Questa ampiezza di interessi culturali, che convergono sul tema del ritmo, non è solo uno specchio della vastità delle conoscenze del filosofo francese: essa dipende anche dal fatto che tale tema attraversa una molteplicità di fenomeni, superando – come è già stato accennato – la stessa distinzione tra il mondo delle relazioni sociali e quello degli elementi non umani, siano essi entità naturali (gli alberi che egli osserva dalla finestra) o artificiali (le macchine, gli strumenti della produzione industriale). Anche questo è un fattore di attualità del pensiero di Lefebvre, se si pensa alla diffusione, negli ultimi due decenni, di analisi urbane ispirate all’approccio post-human, o alle sottolineature dell’importanza di entità non umane come “attanti” che interagiscono attivamente con gli attori sociali negli spazi della città. Questa osservazione evoca un aspetto quasi paradossale, se si pensa all’ispirazione tendenzialmente antiumanista degli approcci ora richiamati, a confronto con quella umanista di Lefebvre. Ma, forse, mette in luce più semplicemente il fatto che non occorre essere antiumanisti per riconoscere che la città è un prodotto della evoluzione congiunta di una molteplicità di elementi di diversa natura e, soprattutto, che il destino dell’uomo e quello del suo habitat sono largamente interdipendenti.
Un terzo carattere, che sottolinea la contemporaneità del testo in oggetto, sta nella coniugazione di spazio e tempo che è intrinseca al concetto di ritmo. A mio avviso, l’uso di categorie che congiungono in modo strutturale la dimensione spaziale e quella temporale è fondamentale per la comprensione della città attuale, nella quale spesso funzioni e significati dello spazio cambiano al variare dei tempi e la elevata mobilità impone una costante opera di sincronizzazione (o, in base alle necessità, di de-sincronizzazione) delle presenze umane e nono umane nello spazio urbano. Il concetto di “ritmo” non è l’unica fra queste categorie: per citarne altre si potrebbero ricordare, ad esempio quelle di “situazione” o di “evento”, che hanno assunto maggiore rilievo negli studi urbani in tempi recenti.
In ogni caso, la rilevanza dei ritmi nella vita urbana è apparsa ancora più evidente nella fase appena trascorsa della pandemia di Covid 19, caratterizzata – in Italia come in molti altri paesi – dal lockdown e dalla chiusura della maggior parte delle attività, con la conseguente alterazione delle modalità di funzionamento della città e l’estrema restrizione della mobilità. Ciò ha comportato per gran parte della popolazione la modificazione delle proprie routine abituali e la necessità – faticosa e per molti frustrante – di ritrovare nuove modalità di organizzazione del tempo in spazi ridotti a quelli dell’abitazione e di adattarsi a diverse forme di sincronizzazione e de-sincronizzazione basate su relazioni a distanza. Lo smart working ha spezzato la sequenzialità dell’alternanza tra tempo di lavoro e tempo libero, azzerando il tempo intermedio degli spostamenti; molte donne hanno dovuto confrontarsi con il compito quasi impossibile di trovare un ritmo che rendesse compatibile il lavoro a distanza, le attività domestiche e il supporto ai figli impegnati nella didattica online. In molte famiglie si è prospettata la necessità di inventare regole per garantire a ciascuno spazi-tempi adeguati alle proprie necessità facendo uso di una dotazione tecnologica limitata e cercando di ricavare ambiti personali in una situazione di convivenza forzata. Per le persone che vivono sole e non lavorano il tempo giornaliero ha rischiato di trasformarsi in una tabula rasa, con una ritmicità da reinventare in assenza di punti fissi dettati da abitudini ed esigenze sociali. In queste condizioni, gli stessi ritmi legati a necessità fisiche – ad esempio le ore dedicate al sonno o ai pasti – hanno finito col subire alterazioni e di essere trascinati nell’aritmia.
Gli effetti negativi di questa situazione sul piano psicologico e relazionale si stanno manifestando progressivamente e sono in gran parte ancora da verificare e comprendere. Quelli relativi al funzionamento della città evidenziano aspetti contrastanti: da un lato, con il ritorno ad una condizione di allentamento delle restrizioni, si manifesta in molti la volontà di un ritorno rapido alla “normalità”, che rivela quasi una dipendenza dai ritmi urbani consolidati in precedenza; dall’altro lato emerge in altri (o, forse, anche negli stessi soggetti) un senso di malessere diffuso ed un’esigenza di cambiamento, che mette in discussione la sostenibilità di quei ritmi, sul piano individuale e collettivo. Gli esiti di questi processi, che si giocano a diversi livelli temporali e scale spaziali, sono incerti e legittimano oscillazioni tra il pessimismo e la speranza; ciò che, invece, sembra sufficientemente chiaro è che un aspetto fondamentale di tali esiti dipende proprio dalle lezioni che si sapranno trarre a riguardo dell’organizzazione spazio-temporale della città, vale a dire della sua struttura ritmica. Se ciò è vero, si può concludere che una lettura attenta e critica delle pagine di Lefebvre – e degli altri autori presenti in questa edizione italiana – potrebbe essere di aiuto, in particolare per chi ha compiti attivi che incidono sui ritmi della città.
Alfredo Mela
* H. Lefebvre, Elementi di ritmanalisi: Introduzione alla conoscenza dei ritmi, a cura di Guido Borelli, Lettera Ventidue, Siracusa, 2019.
Riferimenti bibliografici
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Borelli G. (2019), « Ravi de vous revoir en Italie, M. Lefebvre », Sociologia Urbana e Rurale, 118, pp. 7-9.
Hess (2000), Henri Lefebvre et la production de l’espace. Avant-propos à la quatrième édition française de H. Lefebvre, La production de l’espace, Anthropos, Paris.
Lefebvre H. (1968), Le droit à la ville, Anthropos, Paris ; trad. it. Il diritto alla città, Marsilio, Padova, 1970.
Lefebvre H. (1974), La production de l’espace, Anthropos, Paris ; trad. it. La produzione dello spazio, Moizzi ed., Milano, 1976.
Mazzette A. (2018), Il diritto alla città, cinquant’anni dopo : il ruolo della sociologia urbana, Sociologia Urbana e Rurale, 115, pp. 38-56.
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Reid-Musson E. (2018), Intersectional rhythmanalysis: Power, rhythm, and everyday life, Progress in Human Geography, 42(6), pp. 881-897.
Stavrides S. (2013), Contested urban rhythms: from the industrial city to the post‐industrial urban archipelago, The Sociological Review, 61, pp. 34-50.
Zerubavel E. (1981), Hidden Rhythms: Schedules and Calendars in Social Life, University of Chicago Press, Chicago.
N.d.C. - Alfredo Mela, già professore ordinario di Sociologia dell'ambiente e del territorio, ha insegnato al Politecnico di Torino in corsi di laurea in Architettura e Pianificazione e come visiting professor all’Université Paris 1 – La Sorbonne Panthéon, dove ha tenuto lezioni e seminari su temi riguardanti la sociologia e la pianificazione di area vasta. Ha diretto il corso di alta formazione in Habitat e Cooperazione del Politecnico di Torino ed è stato coordinatore della sezione “Territorio” dell’Associazione Italiana di Sociologia tra il 2013 e il 2016. Fa parte del Comitato di Direzione della rivista “Sociologia Urbana e Rurale” edita da FrancoAngeli.
Tra i suoi libri: con P. Ceresa e M. Pellegrini, Una lettura della sociologia per paradigmi (Celid, 1981); Immagini classiche della sociologia urbana (Celid, 1984; 1988; 1994); La città come sistema di comunicazioni sociali (F. Angeli, 1985; 1987; 1989; 1990; 1992; 1994); Le comunicazioni sociali urbane. Tendenze evolutive (Isig, 1988); Società e spazio. Alternative al postmoderno (F. Angeli, 1990); con P. Ceresa, e M. Pellegrini, Prospettive e paradigmi della sociologia (Celid, 1992); Sociologia delle città (NIS, 1996; 1998; 1999; Carocci 2006; 2008; 2018); con M. C. Belloni e L. Davico, Sociologia dell'ambiente (Carocci, 1998); con L. Davico e L. Conforti, La città, una e molte. Torino e le sue dimensioni spaziali (Liguori, 2000); con L. Davico, Funzioni metropolitane e tempi della città. Orari, luoghi attrattivi a Torino (Politecnico di Torino, 2000); con M. C. Belloni e L. Davico, Sociologia e progettazione del territorio (Carocci, 2000); con Luca Davico, Le società urbane (Carocci, 2002; 2005); (a cura di), La città ansiogena. Le cronache e i luoghi dell'insicurezza urbana a Torino (Liguori, 2003); con D. Ciaffi, La partecipazione. Dimensioni, spazi, strumenti (Carocci, 2006; 2011); con L. Davico e L. Staricco, Città sostenibili. Una prospettiva sociologica (Carocci, 2009); con D. Ciaffi, Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze (Carocci, 2011); (a cura di), La città con-divisa: lo spazio pubblico a Torino (Angeli, 2014); con E. Chicco, Comunità e cooperazione. Un intervento sul benessere psicologico nel Salvador (Angeli, 2016); con S. Mugnano e D. Olori (a cura di), Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana (Angeli, 2017); con N. Borrelli, Lo spazio del cibo. Un'analisi sociologica (Carocci, 2018); con A. Toldo, Socio-Spatial Inequalities in Contemporary Cities (Springer 2019); con R. Albano e E. Saporito (a cura di), La città agita. Nuovi spazi sociali tra cultura e condivisione, (Angeli, 2020); con D. Ciaffi e S. Crivello, Le città contemporanee. Prospettive sociologiche (Carocci, 2020); La città postmoderna. Spazi e culture (Carocci, 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 25 SETTEMBRE 2020 |