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Poco dopo l’inizio del lockdown, avevamo proposto sul presente portale una valutazione preoccupata per la piega che sembrava avere preso il dibattito sulla scuola. In particolare, avevamo avanzato il sospetto che, ancor prima di essere in possesso di elementi probanti, alcuni soggetti interessati avevano già deciso che la Didattica a Distanza (DAD) confermava la bontà delle radicali innovazioni didattiche, così come teorizzate dalle politiche di riforma impostesi in Italia negli ultimi decenni. Un’inferenza che abbiamo allora giudicato improvvida, perché formulata appena all’inizio dell’esperienza, e peraltro nient’affatto trasparente e ovvia.
Per onestà intellettuale, ci sembra doveroso mettere alla prova quelle precedenti argomentazioni, per valutarne l’esattezza o per rendere conto di un quadro, teorico e normativo, che da allora si è evidentemente modificato. In realtà, per come è proceduta la riflessione nei mesi seguenti –in particolare a seguito del «rapporto Colao» e della relazione presso la Commissione Cultura della Camera di Patrizio Bianchi, delle quali ci siamo occupati in altra sede-, l’idea che la scuola necessitasse più di innovazione metodologica che di interventi strutturali tali da mettere in sicurezza gli alunni e coloro che costituiscono l’intera comunità scolastica, è stata sicuramente quella prevalente. Per esempio Patrizio Bianchi, nei suoi interventi pubblici, oltre a soffermarsi sugli aspetti tecnici da realizzare con urgenza per permettere il rientro nelle scuole in sicurezza, si è lasciato andare ad argomentazioni pretestuose e speculative, che auspicavano un superamento della “scuola del Novecento”, un rinnovamento radicale della didattica, istituendo un collegamento tra mutamento del metodo didattico e sicurezza sanitaria che è arduo giustificare. Una tale affermazione, congiunta alle molte altre che già avevamo rilevato, conferma però come i gruppi di lavoro istituiti per conto del MIUR abbiano speso pari energie per imporre modifiche alle modalità di insegnamento , quanto ne hanno impiegate per elaborare misure tecniche concrete per mettere in sicurezza la vita scolastica. Come se l’attuale emergenza fosse un’opportunità da non mancare per realizzare quel progetto riformatore inviso a buona parte degli insegnanti. D’altronde, un’affermazione come quella della dirigente del MIUR Lucrezia Stellaci, in occasione della presentazione video del nuovo curricolo di Educazione Civica, è stata da questo punto di vista estremamente chiara: la scuola non avrebbe bisogno « solo di classi meno affollate, di spazi più sicuri e vivibili, di maggiori risorse finanziarie, professionali e strumentali […] ma anche di una didattica più moderna, che possa meglio attrarre i giovani e possa meglio rispondere alle attese della società» [bold nostro]. Dove tutte i riferimenti che validerebbero la superiorità dei nuovi metodi “trasversali” (la maggiore motivazione che susciterebbe negli studenti, le attese della società verso la scuola) si rivelano solo affermazioni di principio, niente affatto coincidenti con l’esperienza professionale degli insegnanti.
Le responsabilità delle scuole per il nuovo anno scolastico
Sia chiaro: la necessità di un confronto serio su come affrontare in futuro situazioni anomale rispetto alla consueta vita scolastica è sicuramente una responsabilità deontologica della classe docente. Se nello scorso anno scolastico l’improvvisa sospensione dell’attività didattica ha condotto a un generoso impegno da parte degli insegnanti per far fronte all’improvvisa scomparsa della relazione in presenza, per il nuovo anno scolastico, di fronte a una DAD parziale –ma anche nell’eventualità, non augurabile, di una nuova interruzione totale dell’insegnamento- le scuole nei loro documenti devono precisare, sul piano organizzativo e metodologico, come intendono procedere. Ovvero realizzare un lavoro di comunicazione preventiva verso alunni e genitori per affrontare l’anomalia, nel pieno però della loro libertà decisionale, e rifuggendo da ingiustificate imposizioni di metodo.
Accusare invece di “spontaneismo” quanto i docenti hanno realizzato nel precedente anno scolastico è profondamente ingiusto, perché se è vero che si è dovuto far fronte a una situazione d’emergenza in modo immediato, è pur vero che quanto realizzato faceva riferimento a un’esperienza professionale pregressa che ha permesso di salvare un anno scolastico apparentemente compromesso, in misura ben maggiore di quanto fosse lecito aspettarsi. Constatazione difficile da accettare per chi da anni fonda le proprie analisi proprio sulla delegittimazione di tale bagaglio professionale.
Un paradosso: la classe ambiente passivo, il collegamento a distanza una «agorà»
Anche queste ultime valutazioni possono efficacemente essere messe alla prova analizzando le Linee guida sullla “Didattica Digitale Integrata” (DDI) pubblicate dal MIUR in vista della riapertura delle scuole a settembre. In questa sede faremo riferimento in particolare alle ultime pagine dell’Allegato A, quelle dedicate alla didattica e alla formazione, dove a nostro parere si esprime una limitazione esplicita della libertà d’insegnamento che non ha alcun rapporto con le misure tecniche necessarie per mantenere le distanze di sicurezza tra i diversi soggetti operanti a scuola.
Il documento gioca sulla necessità, condivisibile, che le scuole esplicitino in anticipo i criteri con cui intendono svolgere la DDI, dal momento che essa è, in questa prima fase dell’anno, una modalità didattica obbligata (seppure in forma parziale e a seconda delle opportunità tecniche di ciascuna scuola), e anche perché essa, nell’ipotesi non augurabile di un nuovo lockdown, deve fare certo riferimento ad alcuni criteri comuni, che i docenti di ciascuna scuola dovrebbero elaborare sulla base dell’esperienza dello scorso anno. Per cui non deve destare più di tanto perplessità la possibilità delle scuole di disaggregare lo stesso gruppo classe per favorire possibilità di comunicazione didattica laddove essa, per un limite tecnico degli spazi a disposizione, potrebbe non consentire l’accesso contemporaneo di tutti gli alunni. Sia chiaro che si tratta di una necessità, dettata dall’emergenza, non favorevole a creare una situazione ideale per le relazione docente-studente, che ci si augura possa essere superata una volta risolta sperabilmente l’emergenza pandemica. Dal tono del testo, invece, si evince che tale situazione possa tradursi in opportunità proprio per realizzare quanto auspicato dal modello di “pedagogia tecnocratica” sposato dai fautori della riforma della scuola.
Già la sostituzione della dizione «Didattica a distanza (DAD)» con quella di «Didattica Digitale Integrata (DDI)» indica la volontà di rendere questa forma d’apprendimento permanente, in quanto favorirebbe l’assunzione di metodologie impossibili da imporre in classe, condizionando nel senso voluto anche il lavoro in presenza. Insomma, non una mutamento per cause emergenziali, ma una svolta strutturale, da effettuarsi senza una vero confronto scientifico preventivo.
Il punto della questione, contestato da buona parte degli insegnanti che in questi anni hanno operato resistenza contro tali trasformazioni, sta proprio nel ribaltare un’inferenza che vuole presentarsi con i crisimi dell’oggettività, ma che appare invece totalmente immotivata: ovvero che la DDI, il ricorso alla Didattica digitale, implichi un cambio di paradigma che, va da sé, coincide con quello che dai tempi di Berlinguer in poi è stato concepito come un metodo vincente. Un metodo che, si badi bene, pretende di fondarsi su un inesistente assunto scientifico della ricerca cognitivistica, e con caratteristiche prettamente deterministiche, per cui è possibile, nella relazione didattica, portare con certezza la mente dell’alunno verso un apprendimento di successo, in quanto ne si condizionano le sinapsi, che miracolosamente si avvierebbero al successo formativo vincendo qualsiasi demotivazione, amplificata invece dal modo di insegnamento tradizionale. Dove invece il problema della motivazione allo studio viene eluso proprio perché è eliminato alla base il contenuto del sapere verso cui dovrebbe essere diretta l’intelligenza dell’alunno.
Che tale pretesa sia infondata, lo dimostra la paradossalità con cui si apre la parte del documento dedicata proprio a questo tema:
«La lezione in videoconferenza agevola il ricorso a metodologie didattiche più centrate sul protagonismo degli alunni, consente la costruzione di percorsi interdisciplinari nonché di capovolgere la struttura della lezione, da momento di semplice trasmissione dei contenuti ad agorà di confronto, di rielaborazione condivisa e di costruzione collettiva della conoscenza.»
Ora, una delle difficoltà e dei problemi che i docenti hanno dovuto risolvere lo scorso anno scolastico durante il lockdown era proprio il pericolo che tale modalità favorisse la passività degli alunni. La mancanza di una relazione fisica in presenza, le difficoltà di carattere tecnico nel collegamento, l’impossibilità per alcuni di attivare il video nel momento dell’ascolto, la volontà di altri di non mostrare più di tanto il proprio ambiente domestico, tutto ciò rendeva problematico in alcuni casi ottenere lo stesso grado di coinvolgimento. E sicuramente si sono adottate varie strategie per farvi fronte. Da dove viene quindi un’affermazione di senso contrario, per cui la relazione digitale favorirebbe addirittura il protagonismo degli alunni, apparentemente contraria ad ogni buon senso? Per cui essere tutti isolati in un luogo diverso ma collegati attraverso la rete costituirebbe un’agorà, mentre la presenza di tutti in classe priverebbe la didattica della sua dimensione socializzante?
Probabilmente i legislatori hanno pensato che gli alunni, operando attraverso chat e potendo direttamente interagire sullo schermo, avrebbero il vantaggio di poter manifestare una disposizione più attiva. Si realizzerebbero così le condizioni per una visione pratico-attiva della didattica a scapito di un’impostazione puramente teorica. E quanto appreso potrebbe essere immediatamente “agito”, immediatamente messo a disposizione della mente del discente non come dato “erudito”, di nessuna valenza pratica, ma come risorsa per essere applicata, destrutturata e riproposta in altri contesti problematici.
Come abbiamo già altre volte cercato di argomentare, tale visione dell’apprendimento si dimostra estremamente superficiale, se la si valuta nel suo concreto realizzarsi. Tutt’altro che creativa, essa si fonda su un procedimento, che più sopra abbiamo definito deterministico, per cui l’argomento scelto viene presentato in vista di un’applicazione intellettuale che l’alunno è invitato a realizzare, ottenendo la famosa «competenza attesa»; ovvero vincolando la libertà critica dell’alunno a un comportamento prefissato, naturalmente scaturito da un procedimento mentale predeterminato dall’educatore che, in quanto tale, non potrà portare che a un unico esito, mancando delle alternative sul piano della soluzione. Non a caso il grande pedagogista americano Andre Giroux ha parlato di «comodi prepensati».
Ovviamente, se questa è l’idea didattica che si ha in mente per le nuove generazioni, il ricorso alla tecnologia digitale risulta particolarmente favorevole, e si adatta facilmente al perseguimento di tale obiettivo, inviso a buona parte dei docenti che intendono evitare questo evidente modo di concepire l’educazione quale indottrinamento e condizionamento, finalizzato a risolvere problemi posti da altri, secondo procedure obbligate che vengono presentate senza alternative.
Una valutazione aleatoria
Insomma, nessuna novità all’orizzonte. Questo documento replica espressioni dogmatiche e destituite di fondamento proprie di molti dei documenti metodologici licenziati dal Miur (indipendentemente dall’alternarsi dei vari governi) in questi anni, di cui viene riproposta la retorica. Per esempio, quando si vuole spacciare tale impostazione, che isola il contenuto culturale dal proprio ambito disciplinare, non per una decontestualizzazione che ne impedisce la comprensione critica e ne limita fortemente la valenza culturale ma, paradossalmente, proprio in virtù di un suo essere messa in relazione con situazioni sfidanti di ambiti completamente opposti ed estranei, come uno sguardo di maggiore ampiezza, olistico, critico e non tecnocratico:
«prendere ad oggetto della valutazione non solo il singolo prodotto, quanto l'intero processo. La valutazione formativa tiene conto della qualità dei processi attivati, della disponibilità ad apprendere, a lavorare in gruppo, dell’autonomia, della responsabilità personale e sociale e del processo di autovalutazione. In tal modo, la valutazione della dimensione oggettiva delle evidenze empiriche osservabili è integrata, anche attraverso l’uso di opportune rubriche e diari di bordo, da quella più propriamente formativa in grado di restituire una valutazione complessiva dello studente che apprende».
Come si nota, oggetto della valutazione non è più un sapere ma un insieme di atteggiamenti e comportamenti che, peraltro, in un contesto chiuso, risultano sostanzialmente guidati e indotti e per nulla spontanei. Non conta quindi quanto un alunno sappia, ma cosa si può evincere di lui a partire dalla personale iniziativa e della capacità di utilizzare quanto appreso a proprio vantaggio. Riprendendo in fondo un’idea che era propria del vecchio progetto di riforma della scuola targato da Letizia Moratti, il voto è deciso (in quel caso da un fantomatico docente tutor) tenendo conto di competenze generali acquisite, rispetto alle quali l’insuccesso o l’ignoranza in una disciplina potrebbero non avere particolare rilevanza. Solo riducendo a ciò il processo di apprendimento è possibile parlare, a nostro parere distopicamente, visto che trattasi del comportamento di adolescenti, di «evidenze empiriche osservabili», che garantirebbero l’oggettività di ogni valutazione, di contro a quella “interpretativa” (se non “impressionistica” come dicono spregiativamente i suoi detrattori) dell’insegnante disciplinare.
Le prescrizioni metodologiche
Sulla base di queste premesse, giunge la prescrizione metodologica. Si tratta di un punto chiave perché riteniamo che tali prescrizioni, se concepite quali obbligatorie, in virtù anche delle infondatezze di cui sopra, siano in netto contrasto con il contenuto dell’art.33 della Costituzione:
«Alcune metodologie si adattano meglio di altre alla didattica digitale integrata: si fa riferimento, ad esempio, alla didattica breve, all’apprendimento cooperativo, alla flipped classroom, al debate quali metodologie fondate sulla costruzione attiva e partecipata del sapere da parte degli alunni che consentono di presentare proposte didattiche che puntano alla costruzione di competenze disciplinari e trasversali, oltre che all’acquisizione di abilità e conoscenze.»
Come si nota, un vero compendio di espressioni molto alla moda ma, come abbiamo più volte cercato di spiegare, per nulla fondate. Da una parte comprendiamo che il “comportamento attivo” cui si fa riferimento coincide proprio con quello che abbiamo descritto poco sopra, di nessuna valenza disciplinare; dall’altra conosciamo già tutta la manchevolezza di concetti come quelli «competenze trasversali», considerati superiori alle «abilità» e alle ormai bistrattate «conoscenze».
Ovviamente, all’introduzione obbligata di tali discutibili metodologie si accompagna l’obbligo di formazione sulle stesse:
«Si raccomanda alle istituzioni scolastiche di procedere ad una formazione mirata che ponga i docenti nelle condizioni di affrontare in maniera competente queste metodologie, al fine di svilupparne tutte le potenzialità ed evitare che, in particolare alcune di esse, si sostanzino in un riduttivo studio a casa del materiale assegnato.»
Per argomentare il carattere artificioso di una simile prescrizione, conviene brevemente soffermarsi su alcune di tali metodologie consigliate. Non abbiamo in questa sede sufficiente spazio per dedicare una riflessione specifica a ciascuna di esse; e per evidenziarne quelli che, a nostro avviso, ne costituiscono i pesanti limiti epistemologici e, soprattutto, l’impostazione fortemente ideologica, tesa a negare nei fatti l’autonomia critica dell’alunno. Promettiamo di ritornare più avanti su questo tema.
Per ora vorremmo invece sottolineare quanto tali metodologie didattiche, al di là di come le si giudichi, risultino di per sé incompatibili non certo con l’uso del digitale in sé, da esse particolarmente sollecitato, ma con il suo impiego proprio nella modalità a distanza. E vorremmo, nella conclusione, proporre un’ipotesi di spiegazione di questo loro artificioso inserimento nelle Linee guida.
Non si tratta –ci teniamo a dirlo- di un’obiezione ideologica. Alcune indicazioni di tali impostazioni metodologiche, se usate in modo non dogmatico e deterministico, al servizio dei contenuti disciplinari, non solo possono agevolare la riflessione in classe, ma rappresentano modalità d’apprendimento e di approfondimento già da sempre praticate dai docenti. In una dimensione invece escludente altri approcci, esse tendono a negare valore alle discipline, a trasformare –per usare l’impreciso linguaggio dei pedagogisti- le conoscenze in competenze, ovvero a valorizzare gli apprendimenti teorici in comportamenti pratico-attivi, che non sarebbero tanto un valore aggiunto, quanto l’obiettivo unico da conseguire, eventualmente mettendo in conto anche un’ignoranza diffusa rispetto ai contenuti culturali di carattere generale.
La Flipped classroom
La «classe capovolta» (flipped classroom) non fa riferimento tanto alle disposizioni degli attori di una classe nello spazio dell’aula –come ogni tanto si legge sui quotidiani-, quanto al ribaltamento del ruolo dell’insegnante rispetto alla spiegazione. L’alunno cioè isolerebbe il momento frontale dell’esposizione di un argomento al proprio impegno privato e domestico, attraverso la visione di un video che introduce i contenuti scelti e realizzato o dal proprio docente, o utilizzando uno dei tanti materiali presenti nella Rete. Tali video non devono durare più di quindici minuti e devono possedere un carattere rigidamente informativo. Già di per sé questa idea denuncia quanto sia tenuto in scarsa considerazione il momento della spiegazione di un contenuto disciplinare a studenti che lo apprendono per la prima volta. La lunghezza massima di 15’ viene suggerita sia per favorire la concentrazione, sia per garantirsi che questo passaggio di informazioni, da compiere a casa (da qui il “ribaltamento”) avvenga e impedisca la presunta tendenza degli studenti a evitare l’impegno domestico, in questo caso fortemente ridotto nei tempi.
Si auspica la sostituzione del libro con il digitale solo perché quest’ultimo è più attraente per i giovani[1]; nessuna tecnica contrastiva per cercare di vincere questo immotivato sentimento di avversione per tutti ciò che sa di approfondimento culturale, ma la volontà di compiacere sia le tendenza al disimpegno, sia la volontà di mantenersi in una condizione di edonistica leggerezza anche nell’esperienza scolastica.
Tale approccio sarebbe destinato però a conseguire maggiori risultati sul piano dell’apprendimento. Questo perché il momento dello studio e dell’assimilazione dei contenuti avverrebbe in classe, attraverso lavori autonomi di commento e approfondimento, di momenti cooperativi in cui gli alunni si chiariscono fra di loro i contenuti non compresi, con l’insegnante che gestisce organizzativamente queste attività e le coadiuva, divenendo a tutti gli effetti non più un “depositario di sapere” ma un “facilitatore”[2]. I ragazzi, quasi giocando, imparerebbero quasi involontariamente[3], in un’azione didattica che non si preoccupa della loro evoluzione intellettuale e personale, ma solo a disporli, evidentemente, ad assumere comportamenti produttivi.
Contenuti disciplinari, letterari, storico-filosofici e scientifici conosciuti meglio, anche se presentati in appena quindici minuti? Niente affatto. È importante che:
«i ragazzi imparino non solo i fatti, le idee e i concetti, ma soprattutto che imparino come applicarli nel concreto e come utilizzarli in ambiti non convenzionali, trasformando appunto le conoscenze in competenze […] L’obiettivo finale è quello di formare una persona veramente competente che conosca il “sapere agito”.»[4]
Insomma, il lavoro in classe come uno spazio dove l’obiettivo diventa quello di realizzare strategie che non fanno riferimento al libero arbitrio dell’alunno, ma che lo seducano attraverso il gioco, attraverso il ricorso a linguaggi per lui più usuali e attraenti; non tanto il digitale in sé, ma lo stesso declinato nella forma del costruire, del video game, dell’imparare a divertendosi, creando quasi uno stato mentale in cui l’impegno intellettuale è escluso e l’apprendimento avviene in modo inconsapevole, nell’illusione in realtà di fare altro.
Una convinzione, come si capisce, desolante dal punto dell’immagine antropologica che si vuole offrire delle giovani generazioni. E dove in fondo non è il contenuto a interessare, ma proprio quell’attività esercitata a posteriori a partire da essa, già programmata minuziosamente nelle Unità Didattica d’Apprendimento, e che mette in grado l’alunno di svolgere un’operazione a comando, che ne comprenda il senso o no, senza potersi interrogare e neanche diventare consapevole se quello che sta facendo sia in qualche modo indotto o un atto del suo libero volere.
Se non altro la vecchia scuola classista e autoritaria (perché è scontato che si possa insegnare anche in senso rigidamente disciplinare in un modo però radicalmente anti culturale ed escludente) favoriva il sorgere di una coscienza critica, contestatrice, possibile proprio in virtù dei saperi che, per quanto dogmaticamente, venivano trasmessi. Qui siamo di fronte a una descrizione della figura dello studente di comodo, quanto mai impoverita, dove ci si rassegna all’idea che gli unici suoi propositi siano orientati all’edonismo e al consumo, e che nulla si possa fare verso questa propensione, se non furbamente utilizzarla per ottenere i “comportamenti attesi”.
In realtà, l’idea che lo studente possa provare a introiettare in forma anticipata dei contenuti di per sé può essere, in alcuni casi, produttiva. L’insegnante può essere interessato a verificare se l’alunno, dopo un periodo di studio adeguato, sia in grado, a partire da alcuni strumenti come il manuale o il materiale presente in rete, di apprendere in autonomia un contenuto disciplinare senza la previa spiegazione e presentazione da parte del docente. Si tratta di valutare quanto la metodologia e la complessità della disciplina sia entrata nell’habitus intellettuale dello studente. Ma tale modalità d’approccio, che tende a valorizzare l’autonomia culturale di chi studia e il valore formativo della disciplina studiata, non può che essere subordinata, successiva, a una conoscenza adeguata della disciplina; e non può che avvenire se non dopo che la motivazione verso la stessa sia già stata prodotta negli studenti. E tale motivazione –lo intendano i pedagogisti o meno- non si ottiene tramite tecniche che inducono a comportamenti obbligati, ma attraverso la fascinazione della parola, con un percorso graduale per cui ci si appassiona ai problemi e non li si giudica solo sulla base di poter ottenere risposte immediate; dove la conoscenza viene vissuta non come un insieme di dati, ma come un arricchimento di sé che permette un’analisi migliore della realtà, e che conosce sicuramente difficoltà, insuccessi, progressi e regressi, che è compito del docente seguire e cercare di contrastare, nel rispetto delle personalità dei suoi allievi.
In ogni caso, al di là della discussione in merito, l’idea che tale metodo sia il più congeniale nella Didattica Digitale Integrata è quanto meno contraddittoria; proprio perché il principio della flipped è quello di concentrare nella comunicazione video, via computer, il momento della spiegazione, e di traferire in classe quello della “elaborazione creativa”, del lavoro cooperativo. Che esso possa svolgersi di fronte a uno schermo, in una situazione in cui ciascuno opera da un luogo diverso, sembra proprio improbabile, nonostante tutte le risorse comunicative che la rete mette a disposizione. Al di là di come la si pensi, un simile lavoro, che potrebbe anche prodursi attraverso la creazione di prodotti digitali, necessità dello spazio classe, e in modalità che, nella situazione attuale, renderebbero incerto il mantenimento delle distanze di sicurezza.
Il debate
I promotori del debate, nel tentativo di trovare padri nobili a tale pratica didattica, ritengono che le sue origini possano essere fatte risalire addirittura alla “disputa” medievale. Per cui è possibile leggere alcuni articoli di sostegno in cui si afferma che sì, esso viene ripreso in particolare dal modello scolastico anglo-americano, ma in realtà è nella cultura italiana che si radica tale tradizione. Ancora una volta una mediocre retorica, in questo caso nazionalistica, per cercare di scoraggiare chi si oppone proprio all’assunzione acritica, da parte del nostro modello educativo, di esempi provenienti dal mondo anglosassone, di dubbia efficacia e che, già dagli anni Novanta, sono stati messi in discussione per i loro mediocri esiti sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna.
Ora, per chi ha frequentato un corso d’aggiornamento in merito, o ha letto con attenzione alcune legittimazioni teoriche un po’ più approfondite di un semplice articolo, è facile constatare che il riferimento alla disputa medievale non c’entra nulla, e che altri sono i modelli di riferimento. Modelli particolarmente preoccupanti, se si pensa che dovrebbero diventare paradigmi per la vita scolastica.
Anche in questo caso, è bene ribadirlo, l’idea che gli alunni di una classe possano dividersi in gruppi e discutere fra di loro su opzioni opposte relative ai contenuti disciplinari (p.es. una problematica filosofica o una disputa storiografica) rappresenta un’opportunità didattica particolarmente positiva, che evidenzia comprensione, coinvolgimento, capacità critica. In alcuni casi il docente può organizzare tale momento dialettico, che in genere risulta particolarmente coinvolgente; in altri casi –e questo è bene ribadirlo- esso può verificarsi nel corso della bistrattata “lezione frontale”, la cui esperienza reale non coincide mai nella squallida, sintetica e passiva comunicazione che abbiamo appena visto teorizzata dalla didattica flipped.
Nel debate, invece, la forma del confronto è rigidamente organizzata; e sicuramente questa modalità dell’impianto risulta quasi più importante del contenuto dibattuto e, a nostro parere, lo impoverisce. Tutto è organizzato come una competizione, con le quadre, una giuria, un arbitro, tempi prefissati, variabili in misura se sono i primi interventi o quelli successivi, con precise regole di confronto. Insomma, lo scopo è quello di vincere, di apparire più convincenti. Quest’idea di competizione, dovrebbe evidentemente spingere gli alunni ad affinare la loro capacità di ragionamento; un criterio che ritengo sfugga all’esperienza di molti docenti, perché laddove questa discussione tra pari si avvia, essa risulta gratificante e coinvolgente anche a prescindere da un impianto agonistico.
Insomma, la logica del Debate è strutturata sul modello dei quiz di prima serata, con tanto di cornice spettacolare. L’esperienza risulta ancora una volta essere una “spettacolarizzazione dell’apprendimento”, per ripercorrere un modello mass mediatico che si pensa, proprio per la sua popolarità, essere vincente presso gli alunni. E dando per presupposto che l’insegnante non possa competere con simili modelli di successo mediatico; il che non tiene conto che si tratta di termini di paragone tra loro incommensurabili, dove un’esperienza comunque limitata ed esterna viene presa a modello per una relazione quasi quotidiana, di più anni, dove la componente personale delle singole individualità carica di senso un rapporto tra persone che nulla può avere a che fare con quella che si sperimenta attraverso i media.
Il debate può avvenire certo anche in riferimento alle discipline, ma per essere a tale scopo efficace, dovrebbe prescindere da tutte quelle rigide regole con le quali lo si vorrebbe imporre. Compito degli studenti è raccogliere il materiale informativo, prendere atto di una polemica, e impersonare una delle due parti, in qualche modo immedesimandosi nelle sue argomentazioni e immaginando le obiezioni che proporrebbe il suo interlocutore. La logica può sembrare quella dei dissoi logoi, è in qualche modo la richiama, ma non per questo l’idea non è produttiva. Anche nel caso si voglia generare una libera discussione –esperienza che mi è capitato di svolgere- tra un gruppo che sostiene le posizioni di Hobbes sullo Stato di Natura e un altro quelle di Rousseau, bisogna compiere questa produttiva opera d’interiorizzazione di posizioni che si potrebbero non condividere, per valutarne in ogni caso i fondamenti intellettuali e saperli riproporre, ripercorrendone la logica.
Le potenzialità formative di un simile percorso possono realizzarsi, però, se seguono un lungo e a volte anche faticoso percorso d’apprendimento; in questo senso i contenuti disciplinari studiati sono più produttivi di argomenti d’attualità, quasi sempre destoricizzati, anche se sicuramente più incoraggiati dai sostenitori del debate; derivati spesso da una documentazione cronachistica più povera e che induce in certi casi ad assumere posizioni conformiste, proprio perché gli studenti hanno più difficoltà a contestualizzarli rispetti ai vasto orizzonti problematici ed interpretativi che si possono acquisire attraverso un approfondito studio disciplinare.
Anche l’esperienza del Debate, per la sua stessa struttura, ci sembra in ogni caso molto difficile da realizzare nella comunicazione Digitale, piuttosto che nello spazio fisico di una scuola. Di conseguenza, troviamo sorprendente che le linee guida la contemplino come tra le metodologie più adatte alla DDI.
Conclusioni
Una spiegazione a questa che sembra essere un’evidente contraddizione la si può forse trovare nelle considerazioni con cui abbiamo aperto il presente articolo. Sia la Flipped clasroom sia il Debate (cooperative learning e “lezione breve” ne sono ovviamente delle derivazioni) partono dal presupposto di sostituire la didattica disciplinare con la didattica per competenze, realizzando quella conversione gestaltica della scuola di cui da anni andiamo proponendo considerazioni sul sito della Casa della Cultura. Si può ragionevolmente approvare o dissentire da questo disegno, ma è necessario che esso risulti in tutta la sua chiarezza, per permetterne una libera discussione.
L’idea invece di introdurre tali innovazioni in nome della necessità di applicare la Didattica Digitale Integrata non ha alcun fondamento, e acuisce il sospetto che in questa fase d’emergenza, in cui sarebbe necessaria una collaborazione tra tutte le componenti della scuola, si voglia approfittare irresponsabilmente dei gravi problemi avvertiti dalla comunità scolastica per imporre una svolta politica sulla scuola che nulla c’entra con quell’emergenza, e sottrarla al libero confronto democratico.
[1] Cfr M.Maglioni, F.Biscaro, La classe capovolta. Innovare la didattica con la flipped classroom, Erickson, Trento2014, pag.31: «abbiamo video che, come già detto, sono uno strumento molto più coinvolgente del libro di testo e possono essere guardati e riguardati dagli studenti, compresi quelli assenti che non hanno potuto partecipare alla lezione».
[2] Cfr, Ibid, pag.28: «Insomma, all’orizzonte si profila un modello didattico orizzontale dove l’insegnante è il facilitatore e non l’intermediario della conoscenza». Nella frase successiva, tanto per constatare quali sono i riferimenti degli autori quando ritengono gli insegnanti di ostacolare questa innovazione della scuola, si legge: «Rupert Murdoch afferma spesso che la scuola rappresenta oggi l’ultimo ostacolo alla rivoluzione digitale, perché non ha ancora l’enorme potenzialità culturale dello strumento audiovisivo accessibile e condiviso».».
[3] Cfr. ibid., pag.62, a proposito di un compito di realtà sugli etruschi: «tutti i ragazzi, e non solo quelli interrogati, solo per il fatto di svilupparlo, imparano quasi involontariamente aspetti importanti della vita degli etruschi […]».
© RIPRODUZIONE RISERVATA 25 SETTEMBRE 2020 |