Francesco Indovina  
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POST-PANDEMIA? IL FUTURO È ANCORA NELLE CITTÀ


Commento al libro curato da Giandomenico Amendola



Francesco Indovina


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Il libro curato da Giandomenico Amendola, L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020), è tutto costruito sull'idea che esista “una modalità di rappresentazione che diversamente dalla razionalità, spesso invocata per affermare l’oggettività della percezione, non ha come obiettivo l’astrazione o la prova inconfutabile ed universalmente accettata” (p. 7). Questo nella convinzione che sempre “la nostra esperienza è filtrata, consapevolmente o meno, dall’immaginario” (p. 8), che altera la nostra percezione della realtà in modo ancora più pervasivo e deformante quando ci troviamo di fronte a fenomeni che non trovano una spiegazione razionale, come può essere – o, meglio, come è stata nei secoli passati e come lo è anche ai nostri giorni – un’epidemia.

Amendola, nell’introduzione al volume, disegna una trama ricca e convincente del tema delle epidemie e di come queste siano state “trattate” – nel senso di assorbite e rielaborate – nell’immaginario sociale. Su tale maglia si innestano poi una serie di saggi di diversi autori – Antonio Ciuffreda, Rino Caputo, Andrea Leonardi, Fabrizio Violante, Silvia Surrenti, Letizia Carrera – che approfondiscono argomenti specifici attingendo dalla letteratura, dall’arte, dal cinema, dalla storia. Il curatore riflettendo sulla situazione attuale – cioè sull’epidemia di coronavirus che flagella l’Italia, l’Europa e il mondo intero – nota che alcuni nostri atteggiamenti non sono dissimili da quelli dal passato, cioè da quelli di secoli nei quali assai scarse erano le conoscenze scientifiche (rispetto a quelle di oggi) e molto carenti gli strumenti della medicina. Il riferimento principale è alla peste del Seicento che colpì l’Europa (quella descritta da Manzoni per Milano e da Defoe per Londra). Tra le costanti Amendola evidenzia per esempio la mancanza di una terapia, l’incertezza sul periodo di durata dell’epidemia, la ricerca del colpevole che ha dato inizio alla pestilenza. Su tali aspetti oggi come allora l’immaginario collettivo si è spesso scatenato dando luogo alla costruzione di scenari improbabili, eppure per molti strati della popolazione credibili, come dimostra la loro rapida diffusione ai giorni nostri enormemente favorita dalla rete. Saranno capitate anche al lettore di queste righe situazioni come quella di cui io stesso sono stato testimonio che provano quanto Amendola abbia ragione. Ero nella sala d’attesa del mio medico, si era ancora all’inizio del contagio e non erano attivi i divieti attuali, eravamo in cinque o sei, quando uno dei presenti, con la sicumera del fanatico, ci ha spiegato che l’epidemia era causata dalle attenne per aumentare la velocità della rete Internet (5G). Nessuno ha provato a replicare o a chiedere qualche plausibile, razionale o almeno ragionevole spiegazione sui nessi tra due cose evidentemente prive di ogni collegamento. Quelle affermazioni, al contrario, in quel clima di paura e insicurezza misto a credulità e ignoranza, stavano già facendo breccia nell’immaginario dei presenti.

Dunque, tra le due epidemie ci sono sicuramente elementi comuni. Per esempio, in termini di salute pubblica, il tema del distanziamento sociale che a quel tempo assumeva i connotati del lazzaretto, oggi quelli dell’autoisolamento prescritto dalle norme imposte dalle autorità o quello di quegli hotel riconvertiti in centri di ospitalità per i malati di Covid-19. O, ancora, le mascherine che oggi trovano una giustificazione sanitaria precisa mentre nel Seicento assumevano l’aspetto di vere e proprie maschere con grandi nasi che venivano riempiti da sostanze che avrebbero dovuto – così si credeva – precludere l’entrata dei “miasmi” e dell’aria infetta nell’organismo e quindi evitare il diffondersi della malattia. Oppure, per citarne ancora una, quella di credenze pseudo-religiose che, oggi come allora, non escludono che la vera causa dell’epidemia sia l’esito della “collera divina”, un castigo per il comportamento peccaminoso degli umani. Invece, ciò che differenzia la situazione contemporanea dal passato è che “l’immaginazione è dominata dai media. L’informazione televisiva e quella su Internet e i social è monopolizzata dal virus”. La quantità di informazioni e la continua ricerca di nuove notizie sulla pandemia allo scopo di placare l’ansia, in realtà – secondo Amendola ma anche secondo chi scrive – determina maggiore spavento nel singolo e nella collettività (questo è stato evidente soprattutto nella prima fase della pandemia). Una situazione nella quale la narrazione pubblica della malattia, della sua diffusione e dei suoi effetti è – in molti casi – fatta voci, di “si dice” e da false notizie. Una spettacolarizzazione della pandemia accresciuta dalle affermazioni di tecnici, scienziati, politici, i cui interventi non sempre sono coerenti e comprensibili. Col risultato che alcuni credono e altri no a cose vere e false contemporaneamente e ciò che si determina è una situazione confusa nella quale, sostanzialmente, finisce col prevalere l'incertezza.

 

Antonio Ciuffreda nel suo saggio (Cronache e racconti della peste, Firenze, Roma e Napoli) ci porta ad esplorare come in queste città, ma per accenni anche a Milano, l’epidemia di peste che imperversò in Europa nel Seicento, fu interpretata e combattuta come questione di interesse “pubblico”, oggi potremmo dire, ma che le soluzioni adottate non sempre furono efficaci. La diffusione dei lazzaretti, il seppellimento dei morti fuori dai centri abitati, la formazione di fosse comuni – non solo per i più poveri ma, in relazione al numero dei morti, senza distinzione di censo – di fatto risultarono inefficaci, soprattutto perché non si conosceva esattamente la natura della malattia. Un morbo con il quale, in realtà, la popolazione europea conviveva da lungo tempo, anche se la sua virulenza si presentava ad ondate. L’epidemia, tuttavia, determinò sconvolgimenti sociali non solo per il numero di morti ma anche perché finì per incidere su abitudini consolidate. E se in alcune città la ricerca degli untori costituì una parte rilevante della reazione popolare e delle autorità, in altre, come a Roma, la questione si pose in termini del tutto diversi. Va anche segnalato che le epidemie sono state l’occasione non solo per instituire apposite strutture di cura e/o confinamento sociale, come i lazzaretti e gli ospedali, ma anche per la costituzione di apposite istituzioni di tutela e di potere.

La conclusione del saggio di Rino Caputo (Letteratura e malattia: un contagio permanente) – che qui riporto per inciso: “la questione dell’uso di sostanze stupefacenti a fini artistici, per così dire, esula quindi dal rapporto tra letteratura e malattia. Questi due termini, invece, possono essere considerati come due aspetti fondamentali di quella grammatica più complessiva che è il nostro orizzonte antropologico culturale” (p. 69) – costituisce la chiave di lettura per comprenderne appieno il senso. L’autore in questo testo ci conduce attraverso una rapida – non poteva essere diversamente – esplorazione della letteratura e del suo rapporto con la malattia, a partire da Tucidide fino a Gadda. Del resto, lo scopo non poteva essere quello di richiamare tutti gli autori che in qualche forma avevano trattato il tema della malattia, quanto, piuttosto, quello di mettere in luce come la condizione della malattia, o se si preferisse del malato, sia stata sempre elemento costitutivo del panorama antropologico al punto da pervadere la letteratura in ogni epoca.

Andrea Leonardi riflette invece sul rinnovamento dell’età barocca quale – scrive – “ulteriore spunto di riflessione sui temi della fragilità umana e dell’ineluttabilità del trapasso” (p. 73). È proprio questa tematica che guida l’esplorazione dell’autore che, a partire dal Tintoretto (San Rocco e gli appestati), ci fa attraversare l’arte del Seicento seguendo come filo conduttore il tema della morte. Uno scenario artistico dove la peste, paradossalmente, contribuì a costituire una condizione per un generale rinnovamento dell’arte.

Dopo aver presentato alcuni dei principali film che presentano narrazioni post apocalittiche, Fabrizio Violante ci introduce invece a una serie di pellicole che hanno attinenza con la pandemia attuale e mostra come, fin nei particolari, l’immaginazione cinematografia abbia pienamente prefigurato i caratteri del nostro presente. “Gli autori del cinema horror e catastrofico – osserva – si [sono] spesso dimostrati dei cronisti di guerra in tempo di pace” (p. 113). L’autore chiude la sua riflessione sul tema dell’isolamento con un interrogativo che, a pensarci bene, apre la strada a una questione di fondo che forse varrebbe la pena di affrontare anche a livello collettivo: “Come insegnano anche i più disastrosi film a tema pandemico – scrive Violante –, dopo la tempesta del contagio segue la quiete di una vita finalmente normale. Normale?”, si chiede (p. 116). In altri termini – aggiungiamo noi – che cos’è la normalità? Siamo proprio certi di voler tornare alla normalità pre-pandemica? Non sarebbe invece il caso di cogliere questa occasione per ripensare la nostra condizione di normalità della vita privata e sociale?

Ripercorrere le misure di sostanziale isolamento adottate nella peste seicentesca e accostarle, anche se in modo sommario, ai provvedimenti assunti per contrastare l’epidemia attuale è quello che fa Silvia Surrenti nel suo saggio (Il contagio, la cura ed il distanziamento sociale). Le similitudini tra ieri e oggi sono impressionanti: in mancanza di cure specifiche, allora come ora, massima attenzione veniva posta alla separazione dei malati dai sani nelle città. L’invenzione italiana dei lazzaretti, poi copiati in tutta Europa, costituisce emblematicamente lo strumento principe dell’isolamento. Anche la ricerca delle persone ritenute portatrici dell’infezione – ieri i poveri o oggi, forse, gli stranieri – ci dice che, in fondo, nella cultura sociale le cose non sono cambiate di molto. In questo saggio appare di notevole interesse la trattazione della questione olfattiva. Si credeva che la malattia avesse un odore che derivava dalla teoria miasmatica che riguardava molte città: miasmi da evitare trasferendosi in luoghi più salubri, ieri sulle colline toscane (Boccaccio) oggi nelle seconde case, o da evitare con maschere che contenevano aceto, mentre oggi abbiamo le nostre immancabili mascherine. Comunque, la malattia aveva nell’immaginario collettivo una puzza che, in genere, corrispondeva a quella dei poveri, mentre oggi si sperimentano, per ora con esiti incerti, cani per la ricerca dei malati nelle stazioni e negli aeroporti.

Il connubio tra città e malattia viene da lontano, sostiene Letizia Carrera nel suo saggio (Epidemie, città e immaginario urbano). La città è stata costruita a scopi difensivi immaginando che i pericoli restassero “fuori le mura”, ma quel nemico senza volto rappresentato dall’epidemia approfitta proprio della prossimità urbana per mietere le sue vittime. Per questo nemico invisibile non esistono mura e la città pare la condizione ideale per la sua diffusione. Solo a metà dell’Ottocento, quando John Snow “realizza la sua famosa ricognizione del percorso di contagio del colera nella Londra del XIX secolo” (p. 138), si affermano i principi dell’igiene personale e di quella urbana. L’affermarsi dell’idea di “città sana” fa emergere – nota Carrera – che “le città sono rigorosamente due”, quella della borghesia e quella degli slum. Una situazione che a Londra viene “creata” attraverso la realizzazione di nuovi tessuti urbani, mentre a Parigi sono gli interventi di Haussmann a darle corpo. L’idea che la città sia pericolosa in quanto malsana entra così nel senso comune. La tubercolosi assume il ruolo emblematico della malattia figlia della città 'malsana' e a quella si associa la sifilide per quella della città 'corrotta'. Insomma, il male città prende corpo e si consolida nell’immaginario collettivo anche se, tra Otto e Novecento – come la storia dell’urbanistica insegna – la città resiste, si modifica, si diffondono istituzioni per la cura e l’igiene, si moltiplicano gli spazi aperti, i parchi, ecc. Insomma, le pestilenze – e, più in generale la malattia o, meglio, la paura della malattia – contribuiscono a modificare le città. Si cercano cioè soluzioni funzionali all’igiene urbana pur non venendo meno l’esistenza di quelle “due città” che sono una contraddizione non della città ma della società. Lo stesso, secondo l’autrice, sta avvenendo con l’attuale pandemia tanto che i luoghi che eravamo abituati a vedere affollati diventano rarefatti, poco frequentati, perché sconsigliati o persino vietati. Rispetto all’immaginario sociale, siamo cioè alle solite perché si rafforza l’idea che, in fondo, il problema siano le città.

 

Per concludere, quello che il volume curato da Giandomenico Amendola fa emergere con chiarezza – la ragione ultima per cui questo testo è di particolare interesse – è che le epidemie, passate e presenti, finiscono col mettere in discussione l’idea stessa di città che, per la sua conformazione e per la sua natura di aggregato sociale ove gli scambi tra le persone sono frequenti, appare come il luogo ideale per la diffusione del contagio. Questo libro è dunque una buona occasione per riflettere sui condizionamenti che genera la malattia anche a livello dell’organizzazione urbana. I saggi tematici a cui abbiamo fatto cenno si intrecciano tra di loro e con il discorso introduttivo di Amendola offrendoci molteplici chiavi interpretative del presente, delle nostre reazioni e di cosa potrebbe aspettarci se non le controlliamo razionalmente. Tra queste – anche se a giudizio di chi scrive è inevitabilmente destinata a stemperarsi – un’idea di rifiuto della città a favore dei centri minori delle aree interne. Al contrario, è mia opinione che la città cambia e resiste, per ovvi quanto chiari motivi. In primis perché, così come nel Novecento, è ancora il motore della produzione della ricchezza, il centro dello sviluppo e dell’innovazione culturale, il meccanismo che favorisce la socialità, il luogo ove più normale è il riconoscimento dell’altro, compreso il diverso, dove si organizzano le forze sociali per il cambiamento: anche il cambiamento della città stessa. L’incontro tra le persone, occasionale o di prassi, la coesistenza in un determinato luogo, è nutrimento della comunità, dell’identità e della democrazia. La colloquialità urbana – chiamiamola così – e il dibattito pubblico sono un’opportunità importante del vivere quotidiano, per costruire la memoria individuale e collettiva, per creare un’opinione pubblica consapevole, matura, colta, e anche per esercitare le passioni. Ora, per tornare alla pandemia attuale, è vero che nelle città, soprattutto nelle grandi città, è più facile il contagio perché si incontrano molte persone, si frequentano luoghi e mezzi di trasporto pubblico affollati, sono molteplici le occasioni di contatto. Ma è altrettanto vero che nelle città si trovano gli ospedali più attrezzati ed è più attiva una catena sanitaria a cui fare riferimento (ambulatori, ospedali, autoambulanze, pronto-soccorso, centri di ricerca, ecc.). Insomma, nella città si trovano tutt’e due le facce della medaglia: cosa che non dovremmo dimenticare nel ragionare sul futuro dopo la pandemia.

Francesco Indovina

 

 

 

N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.

Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla rendita (8 febbraio 2019); Un giardino delle muse per capire la città (4 ottobre 2019); È bolognese la ricetta della prosperità (20 marzo 2020); Come combattere la segregazione urbana (27 novembre 2020).

Del libro di Francesco Indovina Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017) hanno scritto in questa rubrica: Marcello Balbo (7 settembre 2018); Patrizia Gabellini (26 ottobre 2018); Oriol Nel·lo (7 dicembre 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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12 FEBBRAIO 2021

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P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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